Cambiare la manovra? Yes we can…

Nel medio periodo i mercati finanziari valutano i conti pubblici di un paese in base ai suoi fondamentali, nel breve periodo, invece, nella valutazione dei mercati, quella che determina il famigerato spread, entrano anche molteplici fattori di natura politica, psicologica, congiunturale.

In questo momento, nella zona Euro, tutti i paesi sono giudicati dai mercati grosso modo in linea con i loro fondamentali, con una sola eccezione: l’Italia. In Italia lo spread è pari a 300 punti base, ma di questi 300 punti solo la metà circa è attribuibile allo stato dei nostri fondamentali. In concreto vuol dire: se i mercati non fossero influenzati da fattori anomali, lo spread sarebbe prossimo a 150 punti, e tutti vivremmo sonni più tranquilli.

Come se non bastasse, a questa cattiva disposizione (posso chiamarla così?) dei mercati si addiziona la pessima disposizione delle autorità europee, che minacciano l’avvio di una proceduta di infrazione verso l’Italia, colpevole di aver presentato una manovra di bilancio che viola le regole di Bruxelles.

E’ in questo clima che, molto timidamente e in modo volutamente ambiguo, il governo si appresta a modificare (o “rimodulare”, come si dice quando si vuole dire e non dire) la manovra economica con cui intende far uscire l’Italia dalle secche della bassa crescita.

E’ opportuno mettere mano a una sostanziosa correzione della manovra?

Io penso di sì, ma ritengo anche che una tale correzione non dovrebbe preoccuparsi tanto di salvare la faccia alle autorità europee, quanto di riportare i mercati alla ragione, ossia a valutare l’Italia per quel che sono i suoi fondamentali. Provo a dire perché.

Primo. Il vero danno all’Italia non verrà dalle sanzioni europee, ma è già venuto dall’aumento dello spread. Se non ce ne siamo ancora accorti granché è solo perché gli effetti negativi generali si vedranno fra un anno circa, ossia quando gli interessi sui prestiti e sui mutui cominceranno a strangolare famiglie e imprese, mentre gli effetti negativi immediati hanno finora colpito “solo” (si fa per dire) 1 risparmiatore su 4, ossia i possessori di ricchezza finanziaria sensibile (azioni, obbligazioni, titoli di stato). E’ facile prevedere che se, fra qualche mese, le perdite virtuali dei risparmiatori italiani (circa 200 miliardi di euro dalla data delle elezioni) non dovessero essere recuperate grazie a un calo dello spread e un recupero della borsa, assisteremo al progressivo consolidarsi del partito del “I want my money back”, ovvero “rivoglio i miei soldi indietro”, secondo la famosa rivendicazione di Margareth Thatcher (verso l’Europa).

Secondo. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre dai dibattiti in corso, la vera fonte di tensione sui mercati non è il deficit (che da diversi anni oscilla intorno al livello programmato dal governo gialloverde), ma l’evoluzione del rapporto debito-Pil. Quel che preoccupa è la scarsa determinazione del governo nel perseguirne la sua riduzione, e ancor più la convinzione della stragrande maggioranza degli analisti che, sia nel 2019 sia negli anni successivi, il Pil dell’Italia crescerà meno del previsto, rendendo così ancora più improbabile l’avvio di un percorso di riduzione del rapporto debito-Pil.

Terzo. I timori degli analisti sono più che giustificati, e lo sono per un motivo molto semplice: la manovra non inverte affatto la rotta degli anni scorsi, ma semmai ne amplifica i difetti e, bisogna aggiungere per amore di verità, ne paga gli errori. In che senso?

Nel senso che è stato un errore puntare troppo su misure assistenziali (come gli 80 euro e i vari bonus), giustificate dal mito del “rilancio della domanda interna”. E’ stato un errore fare così poco per ridurre la pressione fiscale sui produttori. E’ stato un errore disseminare il futuro (cioè il presente dell’attuale governo) di clausole di salvaguardia da disinnescare, come quelle sull’Iva e le accise. E’ stato un errore chiedere continuamente all’Europa di fare più deficit di quello consentito dalle regole, anziché approfittare della congiuntura favorevole per risanare il bilancio. E’ stato un errore ridurre, anno dopo anno, le risorse destinate agli investimenti pubblici. E’ stato un errore non fare una manovra correttiva allorché l’Europa ci avvertì che i nostri conti pubblici stavano deragliando dal percorso concordato.

Di fronte a questi errori, rinunciare a una sensibile riduzione delle tasse e puntare quasi tutto su due grandi misure di spesa (reddito di cittadinanza e pensionamenti anticipati) non significa cambiar rotta, ma accentuare il principale difetto delle politiche dei governi precedenti, ovvero l’eccesso di misure orientate al consenso anziché alla crescita. Né vale l’obiezione che, così, si rilanciano consumi e domanda interna, o che la manovra è “finalmente” espansiva: fare il 2.4% di deficit non significa immettere nell’economia più soldi di prima, ma solo immetterne di più di quanti se ne incassa, esattamente come prima e nella stessa misura in cui lo si faceva prima (il deficit è sempre stato prossimo al 2.4% negli ultimi anni).

Che fare, dunque, per correggere la manovra?

Arrivati a questo punto una correzione radicale, una vera inversione di tendenza, è politicamente impossibile, perché ormai su pensioni e reddito di cittadinanza Salvini e Di Maio si sono impegnati con i rispettivi elettorati, e non è certo pensabile che sacrifichino una di queste due promesse per mantenere la terza, ovvero la flat tax. Però, forse, qualche correzione si potrebbe fare lo stesso. Di queste correzioni, non ottimali ma comunque capaci di calmare i mercati, io ne vedo almeno quattro. La prima è un aumento degli investimenti pubblici, soprattutto legati all’edilizia e alla gestione del territorio (dissesto idrogeologico, messa in sicurezza delle scuole). La seconda è una lieve riduzione del deficit programmatico, magari anche solo dal 2.4 al 2.2%, che è poco in termini di bilancio ma è tanto come segnale ai mercati. La terza, a copertura delle prime due, è un avvio graduale delle misure di spesa (pensioni e reddito di cittadinanza), non nel senso di un inizio tardivo (impensabile con le elezioni europee alle porte) ma nel senso di un inizio tempestivo (aprile?) che allarga poco per volta la platea dei beneficiari. La quarta, a mio parere la più importante, è il capovolgimento del reddito di cittadinanza. Anziché mettere i soldi in tasca ai disoccupati, attendendo che gli inefficientissimi centri per l’impiego offrano loro un corso di formazione e un lavoro veri, che li distolga dalla tentazione del lavoro nero, si potrebbe varare un sistema di incentivi che renda convenienti per le imprese l’assunzione e/o la formazione di lavoratori disoccupati e disponibili a lavorare: imparare un lavoro dentro l’impresa che di quel tipo di lavoro ha bisogno è la migliore garanzia che il lavoratore formato venga assunto, e che la formazione serva proprio a lui, e non – come oggi troppe volte accade – ai formatori che si contendono i disoccupati.

Un aggiustamento di questo tipo non sarebbe il più efficace possibile ai fini della crescita, se non altro perché privo di altri cruciali pilastri (riduzione delle tasse, investimenti in capitale umano, efficientamento della giustizia civile), e tuttavia avrebbe, a mio parere, buone probabilità di centrare almeno quattro obiettivi: salvare la sostanza delle promesse elettorali già fatte; rendere meno improbabile il raggiungimento dei tassi di crescita programmati, grazie al reddito di cittadinanza reindirizzato verso le imprese; bloccare la proceduta di infrazione dell’Europa contro l’Italia; raffreddare le tensioni sui mercati finanziari. Un ritorno dello spread sotto quota 200 riporterebbe un po’ di fiducia, ridarebbe ossigeno ai bilanci delle banche, eviterebbe la contrazione del credito e l’aumento dei tassi sui mutui, permetterebbe ai risparmiatori di recuperare le perdite (virtuali) di questi mesi.

Non è moltissimo, ma è comunque meglio che prolungare all’infinito l’incertezza presente.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 novembre 2018



Perché la sinistra è all’anno zero

Quello che segue è il testo originale dell’intervista di Annalisa Chirico a Luca Ricolfi. Una versione ridotta è uscita sul “Foglio” venerdì 7 settembre 2018.

Professore, a seguire il dibattito italiano, che sensazione ha? Si annoia, è nauseato, è indifferente…

Il dibattito non esiste, perché non c’è più l’opinione pubblica. Gli scambi di opinioni (talora di invettive) tra personaggi pubblici sono sostanzialmente irrilevanti (e questo vale anche per me e per quel che dirò). Un vero dibattito presuppone che ci siano persone autorevoli, rispettate da tutti o quasi, le cui prese di posizione obbligano gli altri a misurarsi.

Non è più così da almeno un quarto di secolo, ossia da quando si è instaurata la curiosa credenza che tutte le opinioni siano egualmente valide, una credenza su cui i grillini si sono buttati a pesce, trasformandola in un credo. Viviamo in un tempo in cui ci sono centinaia di personaggi carismatici, che si contendono i like della “ggente”, ma non ce n’è nemmeno uno che sia autorevole.

Quanto al mio stato d’animo sì, sono molto annoiato, perché non leggo o ascolto quasi mai qualcosa di interessante. Ma se devo scegliere un’espressione per il mio stato d’animo, direi che ho il mal di mare, che è un mix di nausea e senso di impotenza di fronte agli eventi.

Nel governo sono sempre più evidenti le due diverse anime. Salvini ha monopolizzato il dossier immigrazione che gli consente di capitalizzare il consenso e di monopolizzare la comunicazione. Di Maio cerca di ritagliarsi spazi sui dossier economici. Quanto può durare una simile combinazione?

Abbastanza, secondo alcuni. L’ex ministro Minniti, per esempio, la settimana scorsa ha affermato che quello fra Lega e Cinque Stelle è un patto di potere, come quello fra democristiani e socialisti ai tempi del Pentapartito: apparentemente litigavano ogni giorno, in realtà stavano ben saldi sulle rispettive poltrone.

Io sono meno pessimista di Minniti, perché intravedo una differenza fondamentale fra pentapartito e governo giallo-verde: ai tempi del pentapartito si potevano sommare le richieste dei democristiani e dei socialisti aumentando il debito pubblico, oggi è molto più difficile sommare le richieste di leghisti (flat tax) e Cinque stelle (reddito minimo, erroneamente chiamato di cittadinanza), perché il loro costo è elevatissimo, e il debito pubblico si può aumentare sensibilmente solo uscendo dall’Europa.

Il M5S ha già pronto il dopo-dimaio, con l’ala Beppe Grillo, Di Battista e Fico, quella purista, diciamo così, pronta a inaugurare il ritorno alle origini.

Saranno puri, ma sono anche molto sprovveduti. Non vedo facile un cambio di leadership, perché se il governo avrà successo Di Maio diventerà inamovibile, mentre se fallirà nessuna nuova dirigenza sarà in grado di resuscitare il Movimento.

Per Salvini si aprono praterie sterminate: sarà lui il nuovo leader del centrodestra?

Questa è la prospettiva più probabile. Però Salvini sottovaluta alcuni meccanismi, che alla lunga potrebbero ridimensionarlo. Il primo è la fine della luna di miele elettorale, che dovrebbe esaurirsi intorno a Natale. Il secondo è l’azione della Magistratura, che nel breve periodo lo ha rafforzato ma nel medio periodo potrebbe logorarlo. Il terzo è la reazione dell’elettorato moderato, che oggi rigetta l’estremismo umanitario del Pd e della Chiesa, ma domani porrebbe eccepire sull’estremismo anti-umanitario del leader leghista, specie nel caso in cui la Chiesa si decidesse ad assumere posizioni più pragmatiche e meno ideologiche di quelle attuali.

L’immigrazione è il tema che sta decidendo le elezioni in tutta Europa. Anzitutto, secondo lei siamo ancora in una fase di emergenza? A guardare i numeri, si direbbe di no. Meno 80 percento dal luglio 2017.

Quando si parla di emergenza bisogna distinguere. Se per emergenza si intende la presunta “invasione” via mare attuata attraverso gli sbarchi, non c’è dubbio che non c’è più alcuna emergenza, e che buona parte del lavoro l’ha fatto Minniti, non Salvini (anche se io non sottovaluterei il valore aggiunto simbolico apportato da Salvini: la gente sa che il governo sta facendo il possibile per impedire gli ingressi irregolari in Italia, mentre prima aveva la sensazione che i migranti ce li andassimo a prendere).

Se per emergenza, invece, si intende la presenza di un numero imprecisato ma comunque molto alto di migranti irregolari in Europa, direi proprio che l’emergenza c’è eccome, e tanto per cambiare è concentrata in Italia. Il problema vero dell’immigrazione non è più, ormai, un problema di flussi, ma è un problema di stock, ossia di flussi accumulati negli ultimi 7 anni. Facciamo due conti: fra l’inizio delle cosiddette primavere arabe e oggi sono sbarcati in Italia circa 800 mila migranti. Di questi una piccola parte, dell’ordine di 50-60 mila, aveva il diritto di entrarci in quanto rifugiato. Un’altra parte, 250-300 mila, ha ottenuto o otterrà altre forme di protezione, che tuttavia hanno per lo più carattere temporaneo. Il resto, quasi mezzo milione di persone, semplicemente risiede illegalmente in Europa.

Dove stanno costoro?

In parte stanno in Italia, dove lavorano in modo irregolare o al soldo della criminalità, in parte sono transitati in altri paesi europei, da cui, in base alle assurde regole europee, possono essere rimandati nel paese di prima accoglienza, tipicamente l’Italia. E’ questa la vera perdurante emergenza, rispetto alla quale anche Salvini non è riuscito a far nulla.

Vorrei ricordare che il tasso di criminalità relativo dei migranti è 4 in Europa e oltre 6 in Italia, ma supera 20 (e addirittura 30 secondo alcune stime) per i migranti irregolari in Italia. In concreto questo vuol dire che ci vogliono 20 o 30 italiani per fare altrettanto danno di quello che fa 1 solo migrante irregolare.

A proposito della capacità salviniana di cavalcare l’emergenza che non c’è, Marco Minniti ha parlato di “strategia della tensione comunicativa”.

Ha ragione, la Lega aumenta le paure dei cittadini. Ma si potrebbe ribattere che la sinistra ha passato gli ultimi tre decenni a smontare paure perfettamente giustificate, attuando una sorta di “strategia della DIStensione comunicativa”. Non so chi sia da biasimare di più. L’ira popolare contro il Pd è anche figlia del negazionismo della sinistra, che per anni e anni si è rifiutata di “vedere” quel che pure aveva sotto gli occhi.

Le piace il modello australiano del “no Way”?

Non ne conosco i dettagli, ma vorrei dire una cosa di mero buon senso storico in proposito. Noi europei illuminati accusiamo di razzismo, disumanità, xenofobia qualsiasi Stato che, in una forma o nell’altra, schieri l’esercito ai propri confini, impedendo l’entrata illegale sul suo territorio. Ma questo è semplicemente normale, è quello che da che mondo è mondo gli Stati e gli imperi hanno sempre fatto, contro ogni tipo di ingresso irregolare. I confini e le dogane servono a questo, a proteggere un territorio. Su questo l’Europa ha preso un incredibile abbaglio logico: prima abbiamo fatto cadere i dazi interni (fra aree del Paese), poi abbiamo fatto cadere le barriere commerciali fra Stati europei (mercato comune), poi con Schengen abbiamo consentito la circolazione delle persone nello spazio europeo. Infine, abituatici all’idea che chiunque può andare dove vuole, non ce la siamo sentita di difendere sul serio le frontiere dell’Europa, quasi che il confine Italia-Africa fosse assimilabile a quello fra Belgio e Olanda.

Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

A mio parere, la strada giusta non è chiudersi dentro la “fortezza Europa” e non accettare più uno straniero, ma garantire che gli ingressi siano esclusivamente legali, attraverso i corridoi umanitari e un afflusso controllato di migranti economici.

Da uno studio dell’istituto Cattaneo, emerge che per il 70 percento degli italiani gli immigrati presenti sul territorio nazionale sarebbero quattro volte quelli effettivi (circa il 7% della popolazione).

Ma lo sa l’Istituto Cattaneo che la maggior parte degli intervistati non fa di mestiere né lo statistico né lo scienziato sociale?

Lo sa che le credenze numeriche dei cittadini sono QUASI SEMPRE sbagliate, in qualsiasi campo le si indaghi? Se da un sondaggio venisse fuori che la maggior parte degli italiani pensa che i morti sul lavoro siano più di 5000 all’anno, anziché 1000 come effettivamente sono, che cosa ne dedurremmo? Credo che ci limiteremmo a dire che gli italiani sono preoccupati per la sicurezza sui posti di lavoro, e non ci azzarderemmo certo ad accusare i sindacalisti di essere “imprenditori della paura”…

Sulla vicenda della capotreno di Trenord che ha pronunciato parole irripetibili a proposito degli zingari lei ha detto che, al di là della forma, il senso dell’annuncio era sensato.

Lo ribadisco. Chiunque non viaggi in business class o con l’auto di servizio, e sia costretto a prendere treni locali, conosce perfettamente lo stato d’animo di esasperazione, impotenza, e anche di umiliazione, che nella gente normale suscita l’anarchia sui treni presi d’assalto da bande di passeggeri non-paganti, non importa se costituite da tifosi, bagnanti, gang giovanili, questuanti, zingari, o qualsiasi altro gruppo di persone che semplicemente se ne infischia delle regole. La cosa curiosa è che chi reagisce al mancato rispetto delle regole viene accusato di razzismo, xenofobia, intolleranza del diverso, e chi si proclama civile e “umano” se la prende con chi reagisce, anziché con chi viola le regole del vivere civile.

Perchè nella sinistra progressista l’ideologia sembra prevalere ancora sul senso comune? Perchè la sinistra, e i suoi rappresentanti, paiono così distanti dalla “gente”?

Non “paiono”, lo sono proprio, forse irrimediabilmente. Pur avendo, come sociologo, studiato il fenomeno, confesso che l’incapacità della sinistra di osservare la realtà con distacco conserva per me qualcosa di misterioso, quasi fosse un difetto genetico. La persona di sinistra tipica, che sia un politico o semplicemente un simpatizzante impegnato, si distingue per la sua completa mancanza di curiosità per il diverso (a meno che sia esotico), e per l’ostinazione con cui – in qualsiasi situazione – cerca solo ed esclusivamente la conferma della giustezza delle proprie convinzioni. Sul piano psicologico credo che il meccanismo sia chiaro: il militante di sinistra si nutre di autostima, e ha quindi un continuo insaziabile bisogno di conferme di essere nel giusto o, come ama dire, di rappresentare “la parte migliore del Paese”. Perché non riesca a liberarsi di questa sindrome, tuttavia, non arrivo a comprenderlo, visto che l’auto-accecamento ideologico è per lo più controproducente.

Alle volte, come direbbe Altan, mi vengono idee che non condivido, ad esempio questa: forse è di destra semplicemente chi non ha un grave deficit di autostima, e può quindi permettersi di reggere il disprezzo dei benpensanti.

Dalle statistiche del prof Barbagli, emerge che gli immigrati commettono alcuni reati (furti, borseggi etc) in percentuale maggiore degli italiani. Ma dirlo è indice di razzismo.

Barbagli è uno dei pochissimi sociologi di sinistra in cui la curiosità scientifica prevale sulla volontà di dimostrare una tesi politica formulata a priori, ossia prima di vedere i dati. E lo è da sempre. E’ lui che ha scritto Immigrazione e criminalità in Italia, un libro di vent’anni fa che squarciava il velo. Ma quasi nessuno, a sinistra, volle accettare quei dati, perché riconoscerli avrebbe fatto crollare il mito della intrinseca bontà del fenomeno migratorio.

La cultura di sinistra in Italia fornisce la più impressionate conferma empirica della teoria della riduzione della dissonanza cognitiva, formulata dal grande psicologo sociale Leon Festinger nel 1957: quando la realtà smentisce le nostre credenze non cambiamo le credenze, ma cerchiamo di reinterpretare la realtà per rimetterla d’accordo con le credenze che ci fanno stare bene. Negando i dati, o ignorandoli, naturalmente.

Dal 2013 sono arrivati in Italia 700mila migranti, attualmente si contano 135mila ricorsi per richieste d’asilo. Qualcuno si domanda dove siano finiti tutti gli altri…I più hanno usato l’Italia come terra di passaggio per spostarsi in nord Europa. Chi rimane da noi di solito entra nell’economia illegale. Ma se lo dici sei razzista.

Esatto, è in questo senso che dicevo che non è vero che l’emergenza sia finita. L’emergenza sono le legioni di irregolari in Europa, che circolano senza averne diritto. Nessuno sa esattamente quanti siano, ma un rapido conto con i pochi dati disponibili suggerisce che non possano essere meno di un milione di persone.

Lei crede alla storia che gli italiani siano diventati razzisti?

Come studioso provo imbarazzo nel vedere tanti colleghi dare credito a questa tesi, che indubbiamente ha un’utilità politica, ma è priva di sostegno empirico. La tesi dell’italiano diventato razzista si basa su un errore logico. Dal fatto che si osino esprimere sentimenti di ostilità verso gli immigrati si deduce un cambiamento degli atteggiamenti di fondo degli italiani. Non si vuole capire che quel che è successo è molto più semplice: nel clima precedente all’avvento di questo governo, certe idee non potevano essere espresse per timore di essere stigmatizzati dalla cultura dominante cattolico-democratica-accogliente, mentre ora trovano libero corso perché esistono un governo e una maggioranza che le sostengono.

In breve, gli italiani ieri come oggi non sono razzisti, ma semplicemente ostili all’immigrazione incontrollata, perché ne vedono le conseguenze, nei quartieri popolari, nelle scuole, presso le ASL. La differenza è che ieri tacevano intimiditi dal clima dominante, ora si sentono più liberi di dire la loro. Il meccanismo è lo stesso di 25 anni fa, quando vinse Berlusconi: la maggioranza degli italiani è sempre stata cauta e conservatrice, ma solo dopo il 1994 è diventato relativamente facile dichiararsi “di destra”.

E’ sempre il medesimo errore, che si ripete eguale a sé stesso. Quando perdono le elezioni, i progressisti credono che gli italiani siano cambiati, e siano improvvisamente diventati nostalgici, fascisti, xenofobi, razzisti, mentre quel che accade è molto più elementare: in certi momenti l’egemonia culturale della sinistra si allenta, e quindi gli italiani si sentono liberi di dire quel che pensano. Non è bello, ma è tutto qui. Siamo un popolo fondamentalmente conservatore e acquiescente, che ogni tanto – quando il costo dell’esternazione si abbassa – rivela quel che pensa

Perchè, se tutte le statistiche confermano il calo dei reati, le persone si sentono più insicure?

Per vari motivi, ma forse due sono più importanti degli altri. Il primo è che fa parte della modernità (e del welfare stesso!) uno spettacolare, talora ossessivo ed eccessivo, aumento degli standard di sicurezza. Se la televisione ti terrorizza persino per le tue placche dentarie, è logico che tu ti preoccupi ancora di più di non essere derubata, picchiata, violentata, accoltellata per strada o all’uscita da una discoteca. Il secondo motivo è l’ineccepibile teorema-Serracchiani: se a farti del male è un ospite, che noi abbiamo salvato in mare, rifocillato e accolto, hai tutto il diritto di indignarti molto di più.

Non trova paradossale che si accusino, a ragione, gli “impresari della paura” quando cavalcano emergenze inesistenti come l’invasione straniera mentre c’è una forma di sudditanza verso chi agita l’emergenza femminicidio, anch’essa smentita dai numeri.

Sì, è paradossale ma è la norma. Fra le ineguaglianze del nostro mondo c’è anche il trattamento discriminatorio cui vengono sottoposte alcune delle “buone cause”, a fronte del trattamento privilegiato riservato ad altre. Ci sono in giro per il mondo decine di migliaia di buone cause, ma solo alcune ricevono supporto finanziario e adeguato sostegno morale. Nessuno si impegnerebbe per la causa delle nonne non autosufficienti, ma il salvataggio di una specie rara di volatili in Amazzonia può ricevere milioni di like. Così è per i temi politici: la nostra è una cultura dei diritti di alcune specifiche minoranze (o presunte tali: le donne sono maggioranza…), che però diventa completamente muta di fronte ai diritti meno glamour (ad esempio che i ponti e le scuole non crollino, o che le case popolari siano occupate da abusivi).

Mentre sulla nave Diciotti si consuma un braccio di ferro con decine di persone ammassate per giorni, e due soli bagni in uso, Matteo Renzi è impegnato nelle riprese del programma tv sulle bellezze di Firenze.

Mi sembra una fotografia perfetta del ragazzo di Rignano.

Qual è il suo giudizio su Renzi? Lei vede leadership alternative emergenti? A ottobre ci sarà la Leopolda: lei parteciperebbe nelle vesti di sociologo per parlare di immigrazione e dintorni?

Sulla mia partecipazione, mai dire mai. Però tenga presente che, almeno finora, la sinistra – cui pure appartengo – mi ha sempre considerato radioattivo, e tenuto rigorosamente fuori del suo circuito.

Quanto a Renzi, sono fra gli ingenui che ha fatto la coda alle primarie per fargli vincere la partita con Bersani. Il mio giudizio è lo stesso che i cinesi danno su Mao Tse Tung (o come diavolo si scrive oggi): “70% giusto, 30% sbagliato”.

Oggi non lo rivoterei, non per gli errori che ha commesso, ma perché non li ha riconosciuti, quando farlo sarebbe stato utilissimo e salvifico per il Pd. Detto questo, non vedo leader più validi di lui, se a un leader si chiede anche energia e capacità di entrare in sintonia con i cittadini. Calenda e Minniti sono ottimi, ma non mi sembrano avere la stoffa del leader. Cuperlo, di cui ho grandissima stima, è un intellettuale del Novecento (anzi dell’Ottocento, se badiamo alla cortesia e alla signorilità dei modi). Zingaretti è solo un Bersani più giovane. Umanamente il mio preferito è Richetti, ma non so se abbia la stoffa del leader.

Veniamo ai temi economici. Lei ha criticato il decreto dignità. Adesso, dopo il crollo di ponte Morandi, il vicepremier Di Maio annuncia che il governo procederà alla revisione delle concessioni, e che alternativamente si procederà a nazionalizzazioni o a modifica delle clausole contrattuali…Certo, messa così, fa un po’ paura. (effetto sugli investitori, è bene tornare allo stato padrone? Etc)

No, tornare allo Stato padrone è una pessima idea. Ma rinunciare alla vigilanza, al controllo, alla trasparenza, come finora tutti i governi hanno fatto, è forse anche peggio.

In due mesi gli investitori esteri hanno ridotto l’esposizione sull’Italia per oltre 70 miliardi di euro. Ora l’Italia guarda anche alla Cina come possibile finanziatore del debito pubblico. Ma Di Maio ha rassicurato tutti dicendo che è “allarmismo infondato” e che il governo punterà sul “contatto diretto” con gli investitori.

Spero che Di Maio, quando dice queste stupidaggini, poi si faccia una risata davanti allo specchio. Se invece prende sul serio quel che dice, la situazione può diventare molto pericolosa.

Lei crede alla tesi del “complotto” dei mercati? Si evocano da più parti i “poteri forti” che non vorrebbero questo governo…

La tesi del complotto non regge, perché i mercati (cioè gli investitori) si preoccupano solo di far soldi, non certo di rovesciare i governi. Quel che c’è di vero, però, nella visione paranoide del ruolo dei mercati, è che può accadere che i mercati scommettano al ribasso su un paese, trascinandolo nel baratro. E’ successo nel 2011, anche perché parte dell’establishment europeo puntava sulla caduta del governo Berlusconi, potrebbe benissimo risuccedere oggi.

L’Ocse certifica che l’Italia è l’unico paese del G7 dove la crescita economica rallenta. Forse si stanno realizzando i sogni grillini di “decrescita”..Lei prevede che sarebbe una decrescita “felice” à la Latouche?

La “decrescita infelice” l’abbiamo già avuta nel 2008-2014. Da questo governo io non mi aspetto decrescita, ma un tonfo, se Tria e Mattarella non ce la fanno a fermare i due scavezzacolli.

Da dove dovrebbe ripartire, secondo lei, l’alternativa al fronte populista? Dall’europeismo? Dal lavoro? …Giuliano Ferrara dice che i sovranisti vanno contrastati non per quello che fanno, ma per quello che sono. Si riferisce all’idea dei muri, dell’antiglobalismo, delle paure infondate etc

Non credo che, oggi come oggi, uno schieramento pro-Europa abbia molte possibilità di successo, chiunque lo guidi. Dire che “ci vuole più Europa” è stato uno sbaglio enorme, quando i difetti dell’Unione europea erano sotto gli occhi di tutti da almeno 3 legislature. Basterebbe rileggere (anzi leggere, perché sicuramente a sinistra non l’hanno letto) Rischi fatali, la spietata analisi dell’Europa che Giulio Tremonti fece all’inizio della legislatura 2004-2009.

Per me demonizzare il cosiddetto sovranismo è una sciocchezza, che potrà portare solo a una Caporetto politica del “fronte democratico”, o come diavolo vorranno chiamarlo. La critica dell’Europa non può essere monopolio del fronte populista, ma andrebbe sostanzialmente condivisa. Dovrebbe essere un presupposto comune di tutte le forze politiche, come la democrazia è stata l’orizzonte comune di destra e sinistra. L’Europa ha portato alcuni vantaggi, ma politicamente ha fallito. Se non si riconosce questo, se ci si trincera dietro la stanca retorica del “sogno europeo”, si consegna l’Europa ai suoi nemici.

Una volta accettato che TUTTI siamo profondamente scontenti dell’Europa, e che su tante cose i populisti hanno le loro ragioni, si può cominciare a spiegare – se ci si riesce – dove e perché le loro non sono le soluzioni ottimali. Che esistono soluzioni migliori. E che certi rischi, primo fra tutti il collasso dell’euro, non li vogliamo correre.

Intervista a cura di Annalisa Chirico pubblicata su Il Foglio del 7 settembre 2018



Renzi si faccia il suo partito. Intervista a Luca Ricolfi

 Il guaio dello sfumato governo giallo-verde non era Paolo Savona, ministro dell’economia in pectore, ma il duo Salvini-Di Maio. Luca Ricolfi, sociologo, insegna Analisi dei dati all’Università di Torino, responsabile scientifico della Fondazione David Hume, non risparmia da critiche neanche il capo dello stato in merito alle trattative condotte per la formazione dell’esecutivo: «Non avrebbe dovuto consentire ai due spavaldi giovanotti di trattare fra loro così a lungo, senza alcuna interlocuzione con il Quirinale».

Domanda. Professore, la crisi politica sta approdando a un voto anticipato. Partiamo dall’inizio, dallo strappo che si è consumato tra Lega-M5s e Quirinale: avrebbe mai creduto che il governo giallo-verde saltasse sul nome di Paolo Savona per il ministero dell’Economia?

Risposta. No, io pensavo erroneamente che alla fine una quadra si sarebbe trovata, o con la resa di Mattarella o con la proposta di un altro nome.

D. Che cosa pensa di Savona? Ha avuto modo di conoscerlo?

R. Ne ho grande stima, l’ho incrociato un paio di volte, ma non ci conosciamo personalmente.

D. Il professor Savona aveva ribadito che non avrebbe messo in discussione l’euro. Eppure lo spread era in salita e le preoccupazioni delle istituzioni europee pure. Timori infondati?

R. Sostanzialmente fondati, secondo me. Ho letto per intero il comunicato di Paolo Savona, e non vi ho trovato alcuna esplicita espressione della volontà di fare tutto il possibile per non uscire dall’euro. In compenso conosco le posizioni da lui espresse in passato, non solo sull’esigenza di avere un «piano B» di uscita dall’euro ma anche sul modo di abbattere il debito (con l’allungamento unilaterale delle scadenze, e una complicata operazione di trasferimento ai privati del patrimonio pubblico). Il guaio però non è Savona in sé, ma sono Salvini e Di Maio.

D. Perché?

R. Avessero messo nero su bianco cifre realistiche su come trovare coperture permanenti ai loro faraonici doni all’elettorato, nessun nome di ministro dell’Economia avrebbe spaventato i nostri creditori.

D. Ma l’idea di un «piano B» è sbagliata?

R. No, anzi io la condivido: se vogliamo avere potere negoziale in Europa non possiamo escludere a priori una nostra uscita dalla moneta unica, perché questa posizione ci indebolirebbe e ci renderebbe facilmente ricattabili. Il punto però non è questo

D. E qual è?

R. È che è completamente diverso assumere questa posizione, che io trovo perfettamente ragionevole, in una condizione di forza e, vorrei aggiungere, di legittimità, perché il Paese sta riducendo il rapporto debito/pil, il deficit si avvia ad annullarsi, e vi è un sostanziale rispetto dell’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio, o invece esprimere (o non respingere) questa posizione in una situazione in cui il rapporto debito/pil non sta scendendo, la vulnerabilità strutturale dei nostri conti è in aumento, ogni anno il nostro Governo mendica flessibilità in cambio di impegni che poi non rispettiamo e, come se non bastasse, siamo sotto attacco da parte dei mercati finanziari.

D. Al presidente della repubblica si rimproverava una eccessiva lentezza per la formazione del governo, ora di aver fatto una scelta troppo politica e interventista.

R. Penso che Mattarella abbia sbagliato, ma non nella mossa finale di rifiutare il nome di Paolo Savona, bensì nel consentire ai due spavaldi giovanotti di trattare fra loro così a lungo, senza alcuna interlocuzione con il Quirinale.

D. Quale poteva essere l’alternativa?

R. Se voleva, come è giusto, avere voce in capitolo nella scelta dei ministri, doveva farsi dare una rosa di candidati alla Presidenza del Consiglio, sceglierne uno, e poi condurre il ballo insieme a lui. Aver accettato che la formazione del governo avvenisse entro una sorta di contratto privato fra due partiti, e che la scelta del premier fosse solo l’ultimo passaggio, puramente formale, di un lungo iter negoziale che tagliava fuori la Presidenza della Repubblica non solo è stato un errore, ma è stato, a mio parere, un allontanamento dal dettato costituzionale.

D. Lega e M5s sono passati all’attacco del capo dello stato.

R. È paradossale: Mattarella ha lasciato ai partiti molta più libertà di tutti i suoi predecessori, e ne è stato ripagato con il più scomposto esercizio di prepotenza nei confronti di un capo dello Stato che la storia della Repubblica ricordi.

D. Matteo Salvini per la Lega e Luigi Di Maio per il Movimento5Stelle accusano il Quirinale di aver violato il voto popolare. Stanno così le cose?

R. Indubbiamente la storia si può raccontare così. Ma si può anche raccontare in un modo del tutto diverso, notando il dilettantismo di Salvini e Di Maio: avevano mille modi per cercare, e trovare, un compromesso accettabile, e così far partire il «governo del cambiamento», perché non l’hanno fatto?

D. Già, perché non l’hanno fatto?

R. Per una ragione che spesso si dimentica: che alla Lega (era già così ai tempi di Bossi) fare il pieno di voti interessa molto di più che cambiare il Paese. Tanto più che Salvini al ministero dell’Interno, con ogni probabilità, sarebbe stato un flop. La vera vittima di questa storia è Di Maio, cui andare al governo interessava davvero.

D. Se Mattarella avesse ceduto su Savona, quali sarebbero state le conseguenze?

R. La verità è che tutta questa discussione sull’operato di Mattarella è viziata da un’ignoranza per così dire basica, o insopprimibile, che ognuno di noi dovrebbe umilmente riconoscere: nessuno sa come le cose sarebbero andate se Mattarella avesse ceduto al dictat di Salvini e, su questa base, fosse nato un governo Lega-Cinque Stelle. Non solo, ma nessuno – al momento – sa che cosa potrà succedere nei giorni prossimi, ovvero se il governo Cottarelli riuscirà a placare i bollenti spiriti dei nostri creditori.

D. Quali sarebbero gli opposti scenari?

R. Si può ipotizzare che, con Paolo Savona al timone dell’economia, nel giro di qualche giorno i mercati finanziari si sarebbero calmati, finalmente l’Italia avrebbe affrontato i suoi problemi, grazie alla flat tax la crescita sarebbe ripartita, e Paolo Savona avrebbe ottenuto dall’Europa ciò che i vari Monti e Padoan non erano mai riusciti ad ottenere.

Ma si può anche pensare tutto l’opposto, come pensano, con sospetta coincidenza di analisi e di parole, quasi tutti i progressisti e i rappresentanti dell’establishment, e cioè: che lo spread sarebbe esploso, gli italiani avrebbero visto evaporare i loro risparmi, le banche avrebbero razionato il credito, l’economia sarebbe andata a picco e alla fine avremmo avuto solo due scelte, uscire rovinosamente dall’euro o farci commissariare dalla Troika; e che grazie al governo tecnico a le cose andranno a posto.

D. Mattarella da affossatore a salvatore del Paese…

R. Nel primo caso dovremmo pensare che Mattarella ha impedito la rinascita dell’Italia, nel secondo che ha salvato il Paese da una catastrofe economica e sociale, con un piccolo merito rispetto a Napolitano nel 2011: non aver aspettato di trovarci sulla soglia del burrone prima di agire.

D. Al momento i mercati non festeggiano affatto.

R. Al momento la verità pare stare nel mezzo: a quanto pare infatti i mercati non si fidano dell’Italia chiunque ne sia alla guida. Forse la cosa più saggia sarebbe stata chiedere a Gentiloni e Padoan di riportare il Paese al voto.

D. C’è il rischio che l’Italia diventi la seconda Grecia in Europa?

R. Sì, come dimostra la velocità con cui lo spread si è impennato ieri. Ma la capacità dell’Italia di infliggere un danno irreparabile all’Europa e alla moneta unica è molto maggiore di quella della Grecia: in questo Savona, con la sua teoria del «piano B», aveva ed ha perfettamente ragione.

D. Il primo giugno il Pd, il 2 giungo Lega e M5s vanno in piazza, il primo a sostegno di Mattarella, i secondi contro il Quirinale. C’è il rischio di uno scontro istituzionale? E di una frattura nel paese?

R. Sì, la contrapposizione fra retorica del «voto tradito» e retorica del «salvatore della patria» può essere molto divisiva, perché vedrebbe gli italiani spaccati fra paladini e nemici del capo dello Stato.

D. Carlo Cottarelli, neo incaricato premier, sta facendo un governo che sulla carta non ha chance di avere la fiducia del parlamento. Il voto è dietro l’angolo. Che benefici avrà il paese da un siffatto governo del presidente?

R. Con 3 mesi di tempo, o anche meno, nessun beneficio, suppongo. Sarebbe già un miracolo se Cottarelli ci facesse arrivare al voto con lo spread sotto quota 200.

D. Secondo l’istituto Cattaneo, se M5s e Lega dovessero allearsi per le prossime elezioni, farebbero cappotto nei collegi. Ipotesi secondo lei possibile?

R. È possibilissimo che si alleino, perché i voti fanno gola a entrambi. In quel caso lo scontro sarebbe, per la prima volta in Italia, fra forze della chiusura, Lega e Cinque Stelle uniti, e forze dell’apertura, Pd e Forza Italia divisi.

D. Salvini pare ormai tenere poco a Forza Italia, mentre Berlusconi, pur confermando il sostegno a Mattarella, voterebbe no alla fiducia a Cottarelli per tenere compatta la coalizione. Il centrodestra sta implodendo?

R. L’impressione è che stia implodendo: in questo momento Forza Italia, come il Pd del resto, è una maschera del nulla.

D. Se i sondaggi dovessero avere ragione, Mattarella si ritroverebbe tra un paio di mesi, al massimo in autunno, a dover trattare con una Lega ancora più forte. Che scenario si aprirebbe a quel punto?

R. Spero, e credo, che nessuno degli attori in campo ripeterebbe gli errori commessi in questa fase.

D. Il Pd si presenta alla nuova prova elettorale con un’immagine sbiadita. Il voto così avvicinato può essere un’occasione per uscire dall’angolo in cui è finito il 4 marzo, oppure può segnarne la fine?

R. Penso che il Pd, pur non facendo nulla, tornerà sopra il 20%, perché una parte dell’elettorato di sinistra che ha votato Cinque Stelle si sentirà costretto a tornare a casa. Però potrebbe avere una sorpresa, e scoprire che di case ora ve ne sono due: quella del vecchio Pd, magari ben zavorrato dai dinosauri di LeU, e quella di un nuovo partito centrista-macroniano-europeista fondato dal redivivo Matteo Renzi.

D. Conviene a Renzi farsi il suo partito? Le scissioni finora non hanno portato bene.

R. Sì, Renzi farebbe benissimo a fondare un suo partito, magari non portandosi dietro la Boschi ed evitando il bullismo del passato. Se la sinistra vuole allargare il suo consenso, è meglio che si presenti con due partiti, come è sempre stato, dal 1946 al 2007, piuttosto che con un unico partito né carne né pesce.

D. Ci avviamo a una lunghissima campagna elettorale. Ce la possiamo permettere?

R. Gli italiani sopportano quasi tutto. E restano sempre eguali a se stessi. Il mio timore è, semplicemente, che nulla di sostanziale cambierà.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi del 30 maggio 2018



Perchè i mercati ce l’hanno con l’Italia

Pubblichiamo qui di seguito un grafico che dovrebbe spiegare, almeno in parte, perché i mercati ce l’hanno con l’Italia.
Nell’ultimo triennio, ovvero fra il 2015 e il 2017, su 19 paesi che hanno adottato l’euro, ben 14 stanno riducendo il rapporto debito-Pil. Fra questi vi sono anche 3 cosiddetti PIIGS, ossia Irlanda, Spagna e Portogallo.
Cinque paesi, invece, nonostante la ripresa dell’economia, hanno aumentato il rapporto debito-Pil: Grecia, Italia, Francia, Lussemburgo, Lettonia.
Ma, fra questi, solo Italia e Grecia hanno un rapporto debito-Pil sensibilmente superiore al 100%.
Ecco perché i mercati non si fidano né della Grecia né dell’Italia.

Elaborazioni Fondazione David Hume su dati Eurostat



Senza nocchiero

Nessuno sa ancora con certezza chi, nei prossimi mesi (e tantomeno nei prossimi anni), sarà alla guida del governo. Non sappiamo se si tornerà al voto fra 2 mesi, fra 1 anno, fra 2 anni, o alla scadenza naturale della legislatura, ossia nel 2023. Alcune cose, però, le sappiamo.

La prima è che le due forze più populiste ed ostili all’Europa, ossia Cinque Stelle e Lega, hanno la maggioranza dei seggi in Parlamento, e circa il 50% dei consensi nel Paese. La seconda cosa che sappiamo è che le autorità europee stanno perdendo un po’ la pazienza con l’Italia; pochi giorni fa il commissario agli affari monetari Pierre Moscovici ha fatto notare che l’Italia non sta facendo alcuno sforzo per ridurre il deficit, nonostante gli impegni più volte sottoscritti dai suoi governi.

Non è tutto. Il Documento di Economia e Finanza (Def) è sostanzialmente vuoto, in attesa che si insedi un governo. L’inflazione non accenna a ripartire, con gravi effetti sulle prospettive del nostro debito pubblico. Le previsioni di crescita dell’Italia, a dispetto dell’ottimismo euforico dei governi degli ultimi anni, ci collocano all’ultimo posto nella zona euro. Il rapporto debito/Pil è inchiodato al 132%, e non ne vuol sapere di scendere. E, come se non bastasse, le clausole di salvaguardia prevedono un aumento automatico dell’Iva, che nessuno ha ancora detto se e come potrà essere evitato. Sullo sfondo, poi, incombe la fine del Quantitative Easing della Banca Centrale Europea, che finora ci ha permesso di “comprare tempo”, ma non può certo durare in eterno.

In queste condizioni, non ci vuole molta fantasia per immaginare che la pazienza delle autorità europee possa esaurirsi molto presto, forse già il 23 maggio, quando partiranno le “raccomandazioni” ai paesi membri, che la Commissione potrebbe accompagnar con un rapporto sul debito eccessivo.

Qualcuno, fra gli autoproclamati vincitori di queste elezioni (Cinque Stelle e Lega), forse inclina a pensare che, nel caso l’Europa tiri le orecchie all’Italia e pretenda il varo di una manovra correttiva, basterà battere i pugni sul tavolo, e dire semplicemente “no”. Purtroppo non è così. Non tanto perché le autorità europee pazientano da anni, e il duo Renzi-Padoan ha già ottenuto (peraltro senza litigare) tutta la flessibilità possibile, quanto perché il vero problema dell’Italia non è l’Europa, ma sono i mercati finanziari. La grande crisi del 2011 proprio questo dovrebbe aver insegnato: le autorità europee non contano quasi nulla, l’umore dei mercati conta tantissimo. Nel 2011 le autorità europee passarono, nel giro di pochissime settimane, dalle lodi alla politica economica del duo Berlusconi-Tremonti agli ultimatum all’Italia (ricordate la lettera della Bce?).

Che cos’era successo?

Semplicemente che i mercati finanziari fino alla primavera del 2010 erano stati in sonno, mentre a partire dall’estate si erano improvvisamente risvegliati, e per di più di pessimo umore.

Ecco perché Di Maio e Salvini si illudono. Quando uno Stato membro dell’Unione vuol fare di testa sua, le autorità europee o abbozzano, o sono costrette a mostrare tutta la loro impotenza. Basta ricordare il penoso tentativo di punire l’Austria, che (nel 2000) aveva osato eleggere un governo nazional-liberale sostenuto dal partito (presunto) “fascista” di Joerg Haider, o i recenti infruttuosi tentativi di imporre la redistribuzione dei rifugiati fra i paesi membri. Ma quando a fare di testa propria sono i mercati finanziari, le autorità europee alzano bandiera bianca e si adeguano. L’unica occasione in cui questo non è avvenuto è stata nel luglio del 2012, allorché, essendo a rischio a sopravvivenza dell’euro e non la salute di un singolo paese, a Mario Draghi fu concesso di pronunciare il suo famoso “whatever it takes”, che riuscì rapidamente a spegnere la speculazione.

Il problema dell’Italia è precisamente questo: se nei prossimi mesi, e specialmente in autunno quando dovrà essere varata la manovra finanziaria, i mercati si risvegliassero, non ci sarà benevolenza delle autorità europee che potrà proteggerci.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 9 maggio 2018