Niente luna di miele tra elettorato e destra vincente

Cos’è la luna di miele politico-elettorale? Lo sappiamo: è quel periodo post-voto, di lunghezza variabile, in cui l’elettorato di un certo paese tende a premiare il partito, la coalizione, il candidato che ha appena vinto le elezioni, facendo progressivamente lievitare il livello di fiducia nel governo uscente. Così, nelle settimane successive alla consultazione legislativa, si assiste spesso al cosiddetto “bandwagon effect”, la tendenza cioè ad appoggiare il partito vincente e, talvolta, addirittura a riscrivere la propria storia elettorale, ristrutturando ilproprio ricordo di voto in favore di chi ha vinto le elezioni.

Un fenomeno che capita frequentemente, soprattutto nei paesi di tradizione cattolica, a causa della rilevanza della comunità, del senso di appartenenza collettivo, ma anche in quelli di tradizione protestante, sia pur in misura minore. Quando vinse Obama negli Usa 2008, ad esempio, un sondaggio effettuato un mese dopo la sua elezione mostrava come il vantaggio del presidente uscente sul suo sfidante McCain si era incrementato di 6-7 punti percentuali, rispetto al voto presidenziale (da 7% a 14%). Da noi Silvio Berlusconigiunse ad un livello di popolarità prossima al 60% nei mesi successivi alla sua vittoria elettorale contro Veltroni, sempre nel 2008, quasi venti punti oltre la quota di voti che ottenne la sua coalizione alle elezioni politiche.

La domanda che ci poniamo oggi, in riferimento al nuovo governo uscito dalle urne tre mesi orsono, è dunque ovvia: sta accadendo anche per Giorgia Meloni e il suo esecutivo, per Fratelli d’Italia e la coalizione di centro-destra (o, se si preferisce, di destra-centro) questo incremento di fiducia, questa apertura di credito chiamata appunto luna di miele?

Ci sono due aspetti da considerare, nell’analizzare questa situazione, due aspetti che a volte viaggiano nella medesima direzione, ma che a volte non risultano del tutto correlati: il primo è, come ho detto, il livello di approvazione nell’operato del governo e del suo capo; il secondo è l’orientamento di voto a favore della coalizione o del partito di governo.

Per quanto riguarda il primo punto, è indubbio che sia Giorgia Meloni che il suo esecutivo abbiano goduto in questo periodo di un deciso incremento di fiducia, con giudizi positivi che superano di una decina di punti quelli negativi. In particolare, il gradimento per la leader di Fratelli d’Italia è passato dal 40% circa durante il periodo elettorale all’attuale 55%, grazie in particolare all’ulteriore miglioramento dei giudizi provenientidall’elettorato di centro-destra.

E proprio quest’ultimo è in realtà l’elemento rilevante che ci permette di descrivere più compiutamente anche il secondo aspetto, vale a dire l’orientamento di voto, che vede certo in ulteriore crescita la principale componente della coalizione governativa, cioè Fratelli d’Italia, ma è una crescita legata al passaggio di voto proveniente dagli altri partner della coalizione stessa, Lega e Forza Italia. Non si verifica dunque unsignificativo incremento di consensi per l’area di governo, ma solamente una sorta di ridistribuzione in favore della maggiore forza politica. Fratelli d’Italia passa dal 26% delle politiche all’attuale 30-31%, a scapito appunto, in prevalenza, degli altri partner dell’attuale esecutivo (si veda il grafico).

Per poter parlare di “luna di miele” deve verificarsi almeno una di queste condizioni: un significativo passaggio di voti (virtuali, ovviamente) prevenienti da altre aree elettorali e/o un chiaro appeal del governo all’interno della fascia di elettorato meno interessato alla politica (astensionisti o indecisi). Nessuna di queste due situazioni sembra essere presente in queste settimane: le defezioni tra le forze politiche di opposizione(Pd, M5s o Terzo Polo) in favore del governo sono molto limitate, nell’ordine di un paio di punti percentuali complessivi; i giudizi favorevoli al governo da parte dei recenti astensionisti appaiono decisamente minoritari, al contrario di quanto accadeva durante il governo Draghi.

Dunque, è certamente vero che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni possono oggi contare su una maggioranza sia parlamentare che elettorale decisamente solida, benché non riescano a far presa sulla cosiddetta “area grigia” (indecisi e astensionisti), ma questa situazione appare largamente favorita dalla presenza di una opposizione sempre più incapace di esercitare un ruolo di possibile alternativa.




Oltre il reddito di cittadinanza

Non sappiamo ancora che tipo di sussidio, esattamente, prenderà il posto del reddito di cittadinanza, ma sappiamo quali sono gli obiettivi del governo. Il primo è ridurre drasticamente il numero di percettori indebiti, il secondo è di minimizzare il numero di percettori che percepiscono il sussidio pur essendo in condizione di lavorare.

Su questi due obiettivi è difficile dissentire, anche se sarebbe il caso di aggiungerne un terzo: portare vicino a zero il numero di famiglie escluse dal sussidio nonostante siano in condizione di povertà assoluta (sappiamo cha il reddito di cittadinanza attuale ha anche questo difetto).

Ebbene, dei tre obiettivi, quello cruciale è il secondo: offrire un lavoro agli occupabili, specie nelle fasce di età giovanili. Proprio per questo, mi pare che sarebbe estremamente importante che, nella manovra, oltre ai provvedimenti di sostegno del reddito delle fasce deboli (bollette, pensioni, carta acquisti, ecc.), fossero presenti interventi volti specificamente ad aumentare l’occupazione.  Non dobbiamo dimenticare che, degli innumerevoli problemi italiani, quello di avere pochi occupati è il più clamoroso: per diventare un normale paese europeo ci mancano 3 milioni di occupati, per diventare un paese europeo virtuoso ce ne mancano ben 7.

Ma come si fa a sostenere l’occupazione in un contesto di risorse scarse?

Una via ragionevole potrebbe essere, per cominciare, quella di ridisegnare il sussidio in modo più simile al vecchio “reddito di inclusione” (REI), per ridurre i barocchismi e le sovrapposizioni di competenze Anpal-Regioni-Comuni connesse all’architettura del reddito di cittadinanza (è questa una delle proposte che Carlo Calenda ha sottoposto a Giorgia Meloni nell’incontro di qualche giorno fa).

La mossa decisiva, però, potrebbe essere un’altra. Giorgia Meloni potrebbe riprendere la vecchia idea del maxi-job, una proposta messa a punto dalla Fondazione Hume nel 2014, e che allora aveva ricevuto – oltre a quello di Giorgia Meloni stessa – il sostengo di Susanna Camusso, leader della Cgil.

Di che cosa si tratta?

In estrema sintesi: azzerare i contributi sociali sui posti di lavoro veri e aggiuntivi. Dove “veri” significa a tempo indeterminato, per almeno 32 ore settimanali. E “aggiuntivi” significa tali da aumentare il numero di occupati dell’impresa.

Il vantaggio di questa misura è che, se i posti di lavoro aumentano di più di quanto sarebbero aumentati in sua assenza, la decontribuzione si autofinanzia. Ogni posto di lavoro creato in virtù della decontribuzione, infatti, oltre a generare Pil aggiuntivo, genera gettito aggiuntivo, sotto forma di introiti statali addizionali sul reddito (Irpef) e sui consumi (Iva). Il costo della decontribuzione, in altre parole, è coperto dalla spinta che la decontribuzione stessa è in grado di imprimere alla dinamica dell’occupazione e del Pil.

Naturalmente si può discutere della efficacia di questa misura, ma il punto resta. Nessuno, ormai, neppure il movimento Cinque Stelle, difende il reddito di cittadinanza così come ha funzionato fin qui. Quindi che lo si debba cambiare è pacifico. Quello che non è chiaro è con quali strumenti, e grazie a quali soggetti (Regioni, Comuni, imprese), offrire opportunità di lavoro alla maggior parte, se non alla totalità, dei percettori occupabili. Che sono tanti (circa 650 mila) ma non tantissimi. Offrire a tutti o quasi un’occupazione, o un corso di formazione, o lavori socialmente utili, non dovrebbe essere un’impresa impossibile. E sarebbe pure un modo per risolvere l’altro problema rimasto sul tappeto, ossia quello dei poveri non raggiunti dal reddito di cittadinanza. Togliere il reddito a chi non ne ha diritto e a chi trova un lavoro genera risparmi significativi: sarebbe un bel segnale che una parte di tali risparmi andasse a correggere l’altra grande stortura del reddito di cittadinanza, ossia la sua incapacità di raggiungere tutti i poveri.

Luca Ricolfi




Dove sbaglia il radicale Valter Vecellio

Invitato all’Istituto Sturzo, con altri studiosi di pari prestigio, alla tavola rotonda di presentazione del fascicolo di ‘Paradoxa’,I, 2022, sulle ‘Parole della Destra—a cura della direttrice della rivista Laura Paoletti e del sottoscritto—Valter Vecellio un autentico liberale libertario  ha criticato il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per aver parlato di ’certezza della pena’ invece che di ‘certezza del diritto’. E’ comprensibile il disappunto del direttore di ‘Notizie radicali, che, come il suo compianto mentore Marco Pannella, ha il culto della Destra storica ed è impegnato in benemerite battaglie civili, come la denuncia delle condizioni dei detenuti nelle borboniche prigioni italiane. E tuttavia, la  certezza della pena  è una ‘species’ del ‘genus  certezza del diritto. Se c’è la seconda, non può non esserci la prima e poiché l’una è un topos retorico sbandierato a ogni pié sospinto mentre l’altro viene sistematicamente squalificato come reazionario non meraviglia che qualcuno ne faccia la sua bandiera giacché in politica non esiste il vuoto e se nessuno si fa carico dei bisogni reali e delle esigenze di una parte della popolazione ci sarà sempre qualcuno pronto ad appropriarsene. Figlie, madri, sorelle, spose che vedono gli assassini dei loro congiunti rimessi presto in libertà—grazie anche alla filosofia del diritto mite di magistrati formatisi nelle Università sessantottesche dove hanno appreso che la responsabilità individuale è un mito giacché crimini e violenze sono prodotti della società borghese—non possono non ripetere, col protagonista di una vecchia sceneggiata napoletana,”chesta non è giustizia, è ‘nfamità!”. Il fatto che delle vittime si occupino solo i giornali del centro-destra—o trasmissioni televisive come quelle di Nicola Porro, di Mario Giordano (sempre sopra le righe), di Paolo Del Debbio—dovrebbe indurre le sinistre a mettere da parte il ‘politicamente corretto’—che spesso le porta a nascondere la provenienza exracomunitaria di chi delinque–e a chiedersi, seriamente, come mai una pronipote del ‘fucilatore’ Giorgio Almirante si trovi oggi a Palazzo Chigi.

Dino Cofrancesco

Presidente dell’Associazione Culturale Isaiah Berlin




Decreto anti-rave, un problema di coerenza

Sull’opportunità di una legge che, anche in Italia come in altri paesi europei, vieti i rave party sono d’accordo in molti, anche a sinistra, e in particolare nel Pd. Magari lo dicono a denti stretti, ma alla fine lo pensano. Del resto non occorreva attendere le recenti prese di posizione anti-rave di Dario Nardella (sindaco di Firenze) o di Stefano Bonaccini (candidato alla segreteria del Pd) per scoprire che da tempo esiste, dentro la sinistra, una corrente “securitaria” che prende sul serio la domanda di sicurezza dei cittadini. Pensiamo alle esperienze di governo di Flavio Zanonato (sindaco di Padova), di Sergio Cofferati (sindaco di Bologna), dell’ex ministro Marco Minniti, a lungo impegnato nel contrasto all’immigrazione irregolare (esperienza raccontata in un libro significativamente intitolato Sicurezza è libertà).

Dunque perché tanto si discute, a sinistra, del recente decreto anti-rave? Credo che le ragioni siano due, e che vadano accuratamente distinte. La prima è che, per alcuni, non c’è nulla di male nei rave party, che tutt’al più andrebbero rubricati fra le manifestazioni del “disagio giovanile”. La seconda è che il decreto legge che si propone di renderli illegali è mal scritto ed eccessivo.

Credo che quest’ultima obiezione sia più che fondata, e che farebbe  malissimo il centro-destra a non recepirla. Il punto debole del decreto è che la fattispecie del reato che si vuole introdurre è priva del requisito di determinatezza. Quando si dice che un “raduno” è illegale se vi partecipano più di 50 persone e “dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica” si ricorre a un concetto – quello di pericolosità – estremamente vago, tanto più se applicato a beni giuridici a loro volta vaghi come l’ordine, l’incolumità e la salute pubblica. In breve, i rischi di una applicazione estensiva e discrezionale della norma sono intrinseci alla sua formulazione.

Si potrebbe chiudere il discorso dicendo che non dobbiamo stupirci, la destra fa la destra, ha vinto le elezioni, e non fa che mettere in pratica le proprie idee. Io invece mi stupisco. Perché mi ricordo quel che accadde con l’articolo 4 del Ddl Zan. Allora gli esponenti della destra (e alcuni dissidenti di sinistra) fecero notare, secondo me giustamente, che la fattispecie del reato era troppo vaga, e che tale vaghezza minacciava di limitare la libertà di espressione. Stabilire che convincimenti, opinioni e idee possono sì essere liberamente espresse, ma solo se “non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti” lascia un margine di discrezionalità eccessivo a chi deve applicare la norma.

Anche qui, come sul decreto anti-rave, la parola chiave è “pericolo”. Chi, e con quali strumenti, può stabilire se da una condotta o un’idea deriva effettivamente un pericolo? Tanto più se il pericolo riguarda entità dai confini sfumati come gli “atti discriminatori”, o la “incolumità pubblica”.

Ecco perché questa prima mossa del governo Meloni mi ha stupito. Se si ritiene ineccepibile questa formulazione del decreto anti-rave, bisogna, per coerenza, far cadere le obiezioni all’articolo 4 del Ddl Zan. Se, viceversa, si vogliono mantenere queste ultime, allora occorre ammettere che il decreto anti-rave è mal formulato, ed acconciarsi ad accettare che il Parlamento lo corregga, come in una recente intervista lascia intendere il ministro Piantedosi quando dice che “la conversione dei decreti si fa in Parlamento, non sui social” e che “in quella sede ogni proposta sarà esaminata dal governo”.

Speriamo che sia così, e che la saggezza prevalga anche nella definizione di che cos’è un “raduno” (bastano 50 persone?) e nella fissazione delle pene (specie di quella minima, fissata a tre anni di carcere). Sarebbe un bene per tutti, cittadini e governanti. Per i cittadini, perché cadrebbe ogni timore riguardo alla libertà di manifestare. Per i governanti, perché ristabilirebbe la dovuta continuità fra le scelte di oggi sui rave party e le obiezioni di ieri al Ddl Zan.




Novità o carisma?

Sull’exploit di Giorgia Meloni e del suo partito alle elezioni del 25 settembre circolano teorie curiose. La prima attribuisce il successo alla scelta di stare all’opposizione del governo Draghi, una scelta che avrebbe penalizzato soprattutto la Lega di Salvini. Questa teoria è illogica, perché all’opposizione del governo Draghi c’è stata pure Sinistra Italiana di Fratoianni, che invece ha ottenuto un risultato modesto, di poco sopra la soglia del 3% (insieme ai Versi), senza intaccare minimamente i consensi dei partiti di sinistra governisti. Ma soprattutto  è incompatibile con i dati: il prof. Paolo Natale, uno dei massimi specialisti di analisi elettorale, ha dimostrato in un recente contributo che l’erosione dei voti leghisti da parte del partito di Giorgia Meloni era iniziata ben prima della nascita del governo Draghi, ed è semplicemente proseguita durante il governo tecnico. Dunque non può essere la scelta di stare all’opposizione ad aver fatto la differenza fra Fratelli d’Italia e Lega.

Più ragionevole è la teoria che attribuisce il successo del partito di Giorgia Meloni al fatto di non essere mai entrato in un governo, anche quando avrebbe potuto (nel 2018 e nel 2021). Molti dicono: gli italiani amano le novità, dal 1994 in poi hanno provato di tutto, restava solo da provare lei. C’è del vero in questa lettura, ma manca un tassello fondamentale: il carisma.

Sono passati esattamente 100 anni da quando Max Weber, in Economia e società, introdusse nel lessico delle scienze sociali il concetto di carisma e di leadership carismatica, mutuandolo dall’ambito religioso, in cui allude alla grazia, ossia a un dono straordinario concesso da Dio a una persona a vantaggio di una comunità (la parola carisma deriva da χάρις, che in greco significa grazia). In ambito politico il carisma è molto difficile da definire, ma per lo più allude alla capacità di trasmettere una visione della realtà e di stabilire un contatto emotivo con le masse cui ci si rivolge.

Che cosa si debba intendere oggi per leader carismatico è ovviamente controverso, ma credo che – quale che sia la definizione di carisma che si preferisce – sia difficile negare che nelle ultime elezioni Giorgia Meloni sia stata l’unica leader che ne fosse dotata.

Come mai?

Penso che la risposta sia che, in politica, il carisma molto raramente è un carattere permanente del leader. Il carisma si può benissimo perdere. Di leader politici intrinsecamente, e quindi permanentemente, carismatici, nella ormai lunga storia della Repubblica ne ricordo solo due: Palmiro Togliatti e Enrico Berlinguer. Tutti gli altri condottieri che, a un certo punto della loro storia, sono parsi toccati dalla grazia, hanno finito per perderla. Nella storia della seconda Repubblica il carisma si è posato su Berlusconi, con la promessa della rivoluzione liberale; su Veltroni, con il sogno della “bella politica”; su Renzi, con il mito della modernizzazione del sistema; su Beppe Grillo, con la rivolta anti-casta.

Ma per tutti, a un certo punto, sia pure con modalità molto diverse, è calato il sipario. Berlusconi ha perso la grazia perché non ha mantenuto le promesse, e non è stato capace di innovarsi. Veltroni ha tardato troppo a scendere in campo, e quando lo ha fatto è stato messo fuori gioco dalle faide interne del suo partito. Renzi si è autoaffondato per arroganza ed eccesso di sicurezza. Beppe Grillo è stato sommerso dal qualunquismo e dalla pochezza della sua creatura.

Non sarebbe stato un problema se, usciti di scena tutti i leader un tempo carismatici, al loro posto ne fossero emersi di nuovi. Ma non è andata così. Né a sinistra, né a destra. La sinistra si è presentata alle elezioni senza alcun leader carismatico, se si eccettua lo pseudo-carisma (da reddito di cittadinanza) di Conte nel Mezzogiorno. Quanto alla destra, né Berlusconi né Salvini paiono aver capito che la stanca ripetizione di una raffica di slogan e di parole d’ordine vecchie di vent’anni non può scaldare i cuori.

In questo deserto, alle parole di Giorgia Meloni non è stato difficile arrivare ai cuori e alle menti dell’elettorato di centro-destra, cui la visione tradizionalista di Giorgia Meloni, mai così esplicita in una campagna elettorale, è parsa più congeniale delle promesse liberiste dei soliti Salvini e Berlusconi.

Per lei il difficile comincia ora. Perché ci aspetta l’autunno più drammatico dalla fine della seconda guerra mondiale, e la storia insegna che il carisma è più facile conquistarlo che conservarlo.

Luca Ricolfi