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Perché Meloni batte Schlein – Intervista a Luca Ricolfi

2 Giugno 2023 - di fondazioneHume

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Il voto amministrativo ha di solito dinamiche molto locali. Perché queste comunali sono diverse?

Non è che le dinamiche locali e le personalità dei candidati sindaco non abbiano avuto il loro peso, quel che ha fatto la differenza è che una delle due parti in campo – la destra – sia prevalsa nettissimamente sull’altra, per di più in un tipo di consultazioni (le amministrative con ballottaggi) che storicamente non sono congeniali alla destra stessa. Poi c’è un’altra particolarità.

Quale?

Le consultazioni delle scorse settimane, essendosi svolte 9 mesi dopo il voto, sono fuori del raggio della “luna di miele”, che di solito dura pochi mesi. Ciò conferisce al successo della destra un significano politico per così dire “doppio”, o rafforzato, perché il consenso a Giorgia Meloni si manifesta a dispetto dell’esaurimento della fase a lei più favorevole.

L’analisi del risultato di Elly Schlein è stata che soffia il vento della destra e che il nuovo Pd ha avuto poco tempo per attrezzarsi. Che ne pensa di questa chiave di lettura?

In termini scientifici, invocare il “vento della destra” è ridicolo, è come postulare l’azione del demonio per spiegare le cattive azioni degli uomini. Quanto al “poco tempo per attrezzarsi” farei due osservazioni. Primo, se il valore aggiunto di Schlein è stato quello di rincuorare la sinistra, e se davvero il problema era riportare al voto gli elettori di sinistra-sinistra delusi, non si vede perché l’effetto del segnale-Schlein non si sarebbe dovuto avvertire già adesso, ossia a ridosso del suo insediamento al vertice del Pd. In un certo senso, era la neo-eletta Schlein ad essere in luna di miele, quindi non aver saputo cogliere il momento favorevole è particolarmente inquietante per le prospettive del Pd.

E la seconda osservazione?

Di questa sono meno sicuro, ma la butto lì sotto forma di domanda: e se il tempo giocasse contro Schlein piuttosto che a favore? Per confidare nel tempo a disposizione da qui alle Europee bisognerebbe avere una ragionevole chance di risolvere i due problemi fondamentali del Pd, ossia avere una linea politica chiara ed essere riconosciuto come il dominus di un’alleanza più vasta. Le sembra che ve ne siano le condizioni?

Eppure è vero, il voto in Europa, dalla Finlandia alla Spagna passando per l’Italia, dice che la stagione europea dei governi di centrosinistra sta finendo. O no?

È molto difficile dire se sia in atto una tendenza generale, però il fatto che in molti paesi si stiano rafforzando i partiti anti-immigrati o scettici con l’Europa suggerisce che qualcosa stia succedendo. La mia sensazione è che, negli ultimi anni, si stia consolidando un giudizio di inadeguatezza nei confronti dei vertici dell’Europa (Ue ma anche Bce), percepiti come incapaci di tutelare gli interessi primari dei cittadini: contrasto all’inflazione, fine della guerra in Ucraina, difesa delle frontiere esterne. Questo giudizio di inadeguatezza sembra toccare più la sinistra che la destra perché i progressisti hanno un’agenda astratta, etico-moralistica (ambiente, digitalizzazione, diritti, accoglienza eccetera), che va benissimo in tempi di crescita e prosperità, ma diventa inattuale in tempi bui come quelli che stiamo vivendo. Con Ronald Inglehart e la sua teoria della “rivoluzione silenziosa” (1977), si potrebbe dire che un po’ ovunque in occidente la destra è ancora attenta ai cosiddetti valori materialisti (a partire dalla sicurezza fisica ed economica), mentre la sinistra si attarda sui cosiddetti valori post-materialisti o post-borghesi: autorealizzazione, ecologia, diritti, minoranze, apertura.

C’è chi, come Dario Franceschini, ha appoggiato la Schlein sperando di dare la svolta per costruire qualcosa di nuovo a sinistra.

Mah, ho qualche dubbio. Se questo fosse il motivo, oggi vedremmo Francheschini impegnatissimo a elaborare idee, aprire tavoli di confronto, elaborare proposte. Io penso, più prosaicamente, che Franceschini abbia intuito che Bonaccini poteva perdere la sfida.

Ma la destra che si sta affermando in Italia che destra è?

Distinzione essenziale: un conto è la destra, un conto è Giorgia Meloni. La destra è un amalgama di culture politiche diversissime, al limite dell’incompatibilità. Quel che le tiene insieme è il pragmatismo, e la comune priorità di tenere la sinistra lontana dal potere. Giorgia Meloni, da quando è al governo, è espressione di un mix inedito: prudenza e moderazione nei consessi internazionali, esplicito conservatorismo sul piano culturale, cauta difesa degli interessi materiali dei cittadini (contro il fondamentalismo green dell’Europa), keynesismo in campo economico (è più importante aumentare l’occupazione che ridurre le tasse). La cosa interessante è che la sinistra pare non aver ancora capito chi è Giorgia Meloni. E quando dico la sinistra, non intendo tanto i partiti di sinistra, quanto i media che li sostengono. Anzi, direi di più: secondo me gli storici del futuro racconteranno questo periodo come quello in cui buona parte della grande stampa, delle grandi reti tv, degli intellettuali impegnati, riuscirono a far credere al Pd e agli altri partiti progressisti che in Italia fosse in arrivo una nuova forma di fascismo. Un formidabile assist a Giorgia Meloni, perché più il fascismo non arriva, più la sinistra anti-fascista perde credibilità.

Le alleanze finora non fatte nel centrosinistra potrebbero rendere di nuovo competitiva l’area?

Temo di no, anche se sarebbe auspicabile: una destra divenuta onnipotente per implosione dell’opposizione renderebbe zoppa la nostra democrazia.

Ma che cosa ostacola le alleanze a sinistra?

È molto semplice: in Italia ogni leader di sinistra si sente paladino di valori assoluti e irrinunciabili, anziché come rappresentante di interessi e obiettivi parziali, quindi negoziabili. Per questo, nel campo progressista, le alleanze o sono instabili (vi ricordate Bertinotti?), o sono impossibili. Emblematico, in questo senso, è stato il caso di Enrico Letta e del fallito “campo largo” alle ultime elezioni. I media lo hanno messo in croce come incapace e irresoluto, ma secondo me nessun leader progressista, anche infinitamente più carismatico e preparato di Enrico Letta, sarebbe mai stato in grado di mettere d’accordo Conte-Bonelli-Fratoianni-Bonino-Di Maio-Renzi-Calenda. Il problema cruciale della sinistra non è la linea politica, ma sono i suoi cacicchi, i signori della guerra che capeggiano i 7-8 partiti della galassia progressista.

Prossima conta, le Europee del 2024. Prima c’è una legge di bilancio da fare.

E sarà dura, senza ricorrere a scostamenti di bilancio. Proprio perché promette di lenire le ferite delle famiglie – dal caro-bollette all’alluvione, dall’inflazione al cuneo fiscale troppo alto – non sarà facile, per Giorgia Meloni, confezionare una legge di bilancio solida e attenta alle istanze dei ceti popolari. Tanto più che gli alleati cercheranno ognuno di far valere i propri provvedimenti bandiera. Il rischio, per il centro-destra, è di andare alla conta europea ancora più diviso del centro-sinistra. Con la differenza che un cattivo risultato alle Europee sarà molto più pericoloso per Giorgia Meloni che per Elly Schlein (sempre che nel frattempo le correnti del Pd non l’abbiano defenestrata, come fecero con il salvatore della patria Walter Veltroni).

[intervista a “Italia Oggi”, uscita il 1° giugno 2023]

La mente (inconsapevolmente) totalitaria di Noemi Di Segni

24 Aprile 2023 - di Dino Cofrancesco

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Confesso un profondo sconcerto quando leggo, sulle più importanti testate italiane, che il governo di Giorgia Meloni stenta ancora a riconoscere il fascismo come male assoluto. Anche una persona squisita come Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia, in un’intervista a ‘La Stampa del 21 aprile u.s., ha dichiarato che “ Giorgia Meloni e gli altri esponenti del governo devono capire che il fascismo ha fatto cose gravissime a partire dalle leggi razziali e devono capire che è stato un male assoluto per tutte l’Italia. Giorgia Meloni ha detto che le leggi razziali sono state un abominio ma ha mancato di dire che le ha fatte un governo fascista. Le leggi non nascono da sole, qualcuno le ha volute e le ha firmate”. Ancora una volta si chiede alla destra al governo di dichiararsi antifascista, non bastando la professione di fede democratica (che per un liberale comporta poi sia l’antifascismo che l’anticomunismo).

 Tra l’altro, nell’intervista, Di Segni adopera il termine ‘revisionismo’ come ‘un peccato contro lo Spirito’, per dirla con Croce, ignorando che il revisionismo è l’imperativo metodologico di ogni storico serio: se i racconti del passato fossero ‘veri’ come sono vere le leggi delle scienze naturali, che senso avrebbe  sottoporli alla critica della ragione storica? In realtà, la political culture ,in cui si riconosce l’intervistata–e con lei quasi tutti gli intellettuali impegnati del nostro paese—da qualche tempo ha dichiarato una guerra spietata a ogni tipo di revisionismo storiografico: ormai a dirci cosa realmente  fu il fascismo sembrano essere rimasti l’Anpi e  Gianfranco Pagliarulo. La ‘vulgata antifascista’—da cui vent’anni fa rifuggivano anche gli storici di sinistra– è diventata una verità di Stato e persino la più alta carica della Repubblica ha messo in guardia contro la tentazione di ripetere che il fascismo ha fatto anche cose buone. E’ il pensiero unico che celebra i suoi trionfi e che, se fosse coerente, dovrebbe porre al bando l’intervista sull’antifascismo che un politico e studioso comunista del calibro di  Giorgio  Amendola rilasciò a Piero Melograni (Ed. Laterza 1976): Il ‘Secolo d’Italia’ scrisse che i riconoscimenti tributati al regime superavano quelli che si potevano leggere nell’Intervista sul fascismo di Renzo de Felice. Ma ormai chi si ricorda più del  maggiore storico del fascismo del nostro tempo, di Augusto Del Noce, il geniale filosofo politico che alle diverse forme di totalitarismo dedicò le sue riflessioni più profonde? Chi cita più i grandi storici e scienziati politici d’oltralpe e d’oltreoceano che sul fascismo, sul nazismo, sul comunismo hanno scritto pagine fondamentali ma che oggi sembrano ignorate?

 Meloni e altri esponenti della sua area politica e culturale hanno condannato le leggi razziali e l’alleanza col Terzo Reich? Per le Vestali della Liberazione non basta: avrebbero dovuto dire che quelle pagine nere del regime fascista erano iscritte tutte nel suo DNA ideologico: insomma avrebbero dovuto scavalcare a sinistra studiosi come A. James Gregor o Ernst Nolte, elaborando una teoria dei crimini commessi dai fascisti che li presentasse come effetti naturali di cause autoevidenti. Davvero una strana pretesa, questa,  che riporta in auge quelle che un tempo si chiamavano ‘filosofie della storia’ ,intese come visioni del mondo in cui tutto era concatenato, tout se tient.

  Sennonché le ‘filosofie della storia’ sono un prodotto tipico dell’ideologia intesa come falsa coscienza che appende a un chiodo—il Valore, o il Disvalore, posto a fondamento di una politica—tutto il seguito positivo o negativo che si fa discendere da una scelta originaria o da un’idea che abbia trovato delle baionette, per dirla questa volta con Napoleone. Così per un tradizionalista doc (ce ne sono ancora) la presa della Bastiglia è all’origine del regicidio, del Terrore, delle guerre napoleoniche della finis Europae. E, analogamente, per un laicista ateo e razionalista, dalla religione cristiana discendono tutte le brutture che hanno segnato nei secoli il vecchio continente: dalle crociate ai roghi dell’Inquisizione etc.. In Controstoria del liberalismo (Ed. Laterza 2005), lo storico della filosofia, il compianto, Domenico Losurdo scriveva, della tradizione di pensiero liberale, che “Nessun’altra più di essa si è impegnata a pensare a problema decisivo della limitazione del potere. Epperò, storicamente, questa limitazione del potere è andata di pari passo con la delimitazione di un ristretto spazio sacro: maturando un’autocoscienza orgogliosa ed esclusivistica, la comunità dei liberi che lo abita è spinta a considerare legittima la schiavizzazione ovvero l’assoggettamento più o meno esplicito, imposti alla grande massa dispersa per lo spazio profano. Talvolta si è giunti perfino alla declinazione e all’annientamento. E’ dileguata del tutto questa dialettica in base alla quale il liberalismo si trasforma in un’ideologia del dominio e finanche in un’ideologia della guerra?”. Per il marxista Losurdo non c’era nessun dubbio che razzismo e colonialismo fossero iscritti nell’ideologia liberale. Ne costituiva una riprova la storia degli Stati Uniti.” |…| La Costituzione additata come modello consacra la nascita del primo Stato razziale, mentre l’autogoverno qui osannato garantisce ai proprietari di schiavi del Sud il legittimo godimento della loro proprietà senza interferenze da parte del governo federale”. Va detto che Losurdo, uno studioso sempre molto documentato e autore di libri che si leggono ancora oggi con profitto, al di là del dissenso teorico, era molto più serio del collega antichista romano, Antonio Capizzi, che scrisse un saggio degno dell’inquisizione stalinista—il titolo dice tutto– Alle radici ideologiche dei fascismi. Il mito della libertà individuale da Constant a Hitler (Roma, Savelli, 1977) per dimostrare la continuità profonda tra il Discorso  di Constant sulla libertà dei moderni comparata a quella degli antichi col Mein Kampf di Adolf Hitler.

 A mio avviso, uno storico—liberale o meno che sia—non può sottoscrivere nessuna delle due interpretazioni del liberalismo ma il problema non è questo, bensì è quello di stabilire se una comunità politica, che si ispiri ai valori della società aperta debba esigere che i suoi cittadini si riconoscano nel racconto ufficiale della storia predisposto dallo stato democratico o debba limitarsi a esigere l’assoluta fedeltà alla Costituzione e codici di cittadinanza in linea coi suoi valori. Per fare un’ipotesi non del tutto irreale, se un regime comunista o un partito comunista non si accontentasse della conversione marxleninista di un cittadino già militante in una formazione democratica borghese ma esigesse da lui il riconoscimento di aver militato in passato nell’area ideologica che teorizzava e praticava lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il genocidio, la colonizzazione non sarebbe una riprova della mens totalitaria del comunismo? E se l’esaminando dicesse: lascio il mondo capitalista, borghese, liberale non perché era il male assoluto ma perché non ha mantenuto le sue promesse, non ha risolto il problema della giustizia sociale non ha eliminato lo sfruttamento del proletariato interno ed esterno, potrebbe egualmente ottenere  la tessera del PCI o del PCUS?

 I  veri numi tutelari della ricerca storica non sono i santi dell’Inquisizione—cattolica o laica—ma i grandi scettici, come Michel de Montaigne o David Hume. Essi insegnano che la storia non è un processo necessitato in cui ogni casella, ogni momento del suo divenire, si colloca al posto giusto ma è un sistema aperto, dove può sempre accadere di tutto, dove ciò che poi accade realmente trova una sua spiegazione logica ma poteva non accadere.

 Quando si dice che il fascismo è il male assoluto e se ne vuol fare una verità di fede per tutti i cittadini non ci si ispira ai valori alti  dell’Occidente ma all’ideologia del Grande Fratello sempre più esigente che non può certo accontentarsi    della condanna senza appello delle leggi razziali e dell’esecrazione del Patto d’Acciaio che distrusse non solo le nostre città ma indebolì, forse irreparabilmente, lo stesso sentimento d’amor patrio. Se non si dice che  fin dall’inizio il fascismo fu quanto di peggio e di più pestilenziale avrebbe potuto abbattersi sull’Italia, non ci si può accostare al fonte battesimale della democrazia. Resta, pur sempre, il problema della   maggioranza dei nostri connazionali che gli assicurarono un ampio consenso–a cominciare dagli intellettuali, dagli imprenditori, dalle autorità ecclesiastiche, dalla ‘gente meccanica e di piccolo affare’. Come va considerata? Come ‘massa damnationis’ i cui residui storici attendono una bonifica integrale?

 La Meloni viene da ambienti ‘che ci hanno creduto’, da persone che, in buona fede, videro nelle camice nere il movimento e poi il governo che salvarono il paese dall’anarchia e realizzarono non poche significative riforme sociali, facendole pagare—beninteso–con la perdita delle libertà statutarie (perdita per noi inaccettabile ma non per gli Italiani del tempo, stanchi di guerre civili e di violenze, come ben riconobbero, storici non certo reazionari da Angelo tasca a Federico Chabod, da Renzo de Felice a Roberto Vivarelli). . Sono proprio tenuti i ‘postfascisti’ a qualificarsi come ‘antifascisti’, a buttare nella spazzatura della storia idealità in cui hanno creduto in buona fede e che, semmai hanno visto tradite, a partire dalle leggi del ‘38 e dall’entrata in guerra del 1940 (le vide tradite, ad esempio, una figura di intellettuale di grande onestà e cultura come Giano Accame, amico personale di Giampiero Mughini, che pure volle la sua bara avvolta nella bandiera della RSI)? Non esito a dire che non potrei avere nessuna stima per Giorgia Meloni se , per compiacere l’assordante canea degli antifascisti in servizio permanente effettivo, si proclamasse ‘finalmente’ antifascista: a parte il fatto che non convincerebbe nessuno dei suoi nemici politici –direbbero che è stata dichiarazione tardiva e imposta–, sarebbe per lei ammettere che nel fascismo storico ci sono state solo ombre e nessuna luce– nell’Erebo può dominare solo il buio pesto—e che la sua milizia politica passata è stata un’imperdonabile peccato di gioventù. Ci manca solo che si pretenda da lei, a questo punto,  di prendere posizione a favore di Claudio Pavone nella durissima polemica che l’oppose al salveminiano  Roberto Vivarelli, autore di un testo esemplare, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Il Mulino, 2013), in cui lo storico, rievocando la sua giovanile adesione alla Repubblica Sociale,  la spiegava con le circostanze in cui era avvenuta, e, quel che è peggio, scriveva che non ne era affatto pentito della sua scelta.

 Debbo aggiungere, però, che non avrei nessuna stima ,altresì, di un dirigente o di un intellettuale di sinistra che oggi si definisse anticomunista. Il comunismo, come ormai è acclarato, fece più vittime del nazismo e di ogni altro regime golpista della storia contemporanea messi insieme, ma perché non riconoscere a quanti hanno creduto nelle sue ‘promesse’ una buona fede, attestata, tra l’altro, dalla disponibilità a dare la vita per la’causa’, a sacrificare una tranquilla vita borghese in difesa di idealità nobilissime, come l’eguaglianza e la giustizia sociale? Dovrei chiedere ai tanti amici comunisti, che ho conosciuto, frequentato e apprezzato per il loro impegno civile, di considerare il ‘socialismo reale’ come l’altro Male assoluto del XX secolo, come riteneva il presidente Reagan?

 Il pensiero egemone, in Italia, per citare i versi di Trilussa, sta “sprecanno troppe cose belle in nome della fede”: forse è il segno inequivocabile della nostra decadenza.

Niente luna di miele tra elettorato e destra vincente

24 Dicembre 2022 - di Paolo Natale

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Cos’è la luna di miele politico-elettorale? Lo sappiamo: è quel periodo post-voto, di lunghezza variabile, in cui l’elettorato di un certo paese tende a premiare il partito, la coalizione, il candidato che ha appena vinto le elezioni, facendo progressivamente lievitare il livello di fiducia nel governo uscente. Così, nelle settimane successive alla consultazione legislativa, si assiste spesso al cosiddetto “bandwagon effect”, la tendenza cioè ad appoggiare il partito vincente e, talvolta, addirittura a riscrivere la propria storia elettorale, ristrutturando ilproprio ricordo di voto in favore di chi ha vinto le elezioni.

Un fenomeno che capita frequentemente, soprattutto nei paesi di tradizione cattolica, a causa della rilevanza della comunità, del senso di appartenenza collettivo, ma anche in quelli di tradizione protestante, sia pur in misura minore. Quando vinse Obama negli Usa 2008, ad esempio, un sondaggio effettuato un mese dopo la sua elezione mostrava come il vantaggio del presidente uscente sul suo sfidante McCain si era incrementato di 6-7 punti percentuali, rispetto al voto presidenziale (da 7% a 14%). Da noi Silvio Berlusconigiunse ad un livello di popolarità prossima al 60% nei mesi successivi alla sua vittoria elettorale contro Veltroni, sempre nel 2008, quasi venti punti oltre la quota di voti che ottenne la sua coalizione alle elezioni politiche.

La domanda che ci poniamo oggi, in riferimento al nuovo governo uscito dalle urne tre mesi orsono, è dunque ovvia: sta accadendo anche per Giorgia Meloni e il suo esecutivo, per Fratelli d’Italia e la coalizione di centro-destra (o, se si preferisce, di destra-centro) questo incremento di fiducia, questa apertura di credito chiamata appunto luna di miele?

Ci sono due aspetti da considerare, nell’analizzare questa situazione, due aspetti che a volte viaggiano nella medesima direzione, ma che a volte non risultano del tutto correlati: il primo è, come ho detto, il livello di approvazione nell’operato del governo e del suo capo; il secondo è l’orientamento di voto a favore della coalizione o del partito di governo.

Per quanto riguarda il primo punto, è indubbio che sia Giorgia Meloni che il suo esecutivo abbiano goduto in questo periodo di un deciso incremento di fiducia, con giudizi positivi che superano di una decina di punti quelli negativi. In particolare, il gradimento per la leader di Fratelli d’Italia è passato dal 40% circa durante il periodo elettorale all’attuale 55%, grazie in particolare all’ulteriore miglioramento dei giudizi provenientidall’elettorato di centro-destra.

E proprio quest’ultimo è in realtà l’elemento rilevante che ci permette di descrivere più compiutamente anche il secondo aspetto, vale a dire l’orientamento di voto, che vede certo in ulteriore crescita la principale componente della coalizione governativa, cioè Fratelli d’Italia, ma è una crescita legata al passaggio di voto proveniente dagli altri partner della coalizione stessa, Lega e Forza Italia. Non si verifica dunque unsignificativo incremento di consensi per l’area di governo, ma solamente una sorta di ridistribuzione in favore della maggiore forza politica. Fratelli d’Italia passa dal 26% delle politiche all’attuale 30-31%, a scapito appunto, in prevalenza, degli altri partner dell’attuale esecutivo (si veda il grafico).

Per poter parlare di “luna di miele” deve verificarsi almeno una di queste condizioni: un significativo passaggio di voti (virtuali, ovviamente) prevenienti da altre aree elettorali e/o un chiaro appeal del governo all’interno della fascia di elettorato meno interessato alla politica (astensionisti o indecisi). Nessuna di queste due situazioni sembra essere presente in queste settimane: le defezioni tra le forze politiche di opposizione(Pd, M5s o Terzo Polo) in favore del governo sono molto limitate, nell’ordine di un paio di punti percentuali complessivi; i giudizi favorevoli al governo da parte dei recenti astensionisti appaiono decisamente minoritari, al contrario di quanto accadeva durante il governo Draghi.

Dunque, è certamente vero che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni possono oggi contare su una maggioranza sia parlamentare che elettorale decisamente solida, benché non riescano a far presa sulla cosiddetta “area grigia” (indecisi e astensionisti), ma questa situazione appare largamente favorita dalla presenza di una opposizione sempre più incapace di esercitare un ruolo di possibile alternativa.

Oltre il reddito di cittadinanza

7 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

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Non sappiamo ancora che tipo di sussidio, esattamente, prenderà il posto del reddito di cittadinanza, ma sappiamo quali sono gli obiettivi del governo. Il primo è ridurre drasticamente il numero di percettori indebiti, il secondo è di minimizzare il numero di percettori che percepiscono il sussidio pur essendo in condizione di lavorare.

Su questi due obiettivi è difficile dissentire, anche se sarebbe il caso di aggiungerne un terzo: portare vicino a zero il numero di famiglie escluse dal sussidio nonostante siano in condizione di povertà assoluta (sappiamo cha il reddito di cittadinanza attuale ha anche questo difetto).

Ebbene, dei tre obiettivi, quello cruciale è il secondo: offrire un lavoro agli occupabili, specie nelle fasce di età giovanili. Proprio per questo, mi pare che sarebbe estremamente importante che, nella manovra, oltre ai provvedimenti di sostegno del reddito delle fasce deboli (bollette, pensioni, carta acquisti, ecc.), fossero presenti interventi volti specificamente ad aumentare l’occupazione.  Non dobbiamo dimenticare che, degli innumerevoli problemi italiani, quello di avere pochi occupati è il più clamoroso: per diventare un normale paese europeo ci mancano 3 milioni di occupati, per diventare un paese europeo virtuoso ce ne mancano ben 7.

Ma come si fa a sostenere l’occupazione in un contesto di risorse scarse?

Una via ragionevole potrebbe essere, per cominciare, quella di ridisegnare il sussidio in modo più simile al vecchio “reddito di inclusione” (REI), per ridurre i barocchismi e le sovrapposizioni di competenze Anpal-Regioni-Comuni connesse all’architettura del reddito di cittadinanza (è questa una delle proposte che Carlo Calenda ha sottoposto a Giorgia Meloni nell’incontro di qualche giorno fa).

La mossa decisiva, però, potrebbe essere un’altra. Giorgia Meloni potrebbe riprendere la vecchia idea del maxi-job, una proposta messa a punto dalla Fondazione Hume nel 2014, e che allora aveva ricevuto – oltre a quello di Giorgia Meloni stessa – il sostengo di Susanna Camusso, leader della Cgil.

Di che cosa si tratta?

In estrema sintesi: azzerare i contributi sociali sui posti di lavoro veri e aggiuntivi. Dove “veri” significa a tempo indeterminato, per almeno 32 ore settimanali. E “aggiuntivi” significa tali da aumentare il numero di occupati dell’impresa.

Il vantaggio di questa misura è che, se i posti di lavoro aumentano di più di quanto sarebbero aumentati in sua assenza, la decontribuzione si autofinanzia. Ogni posto di lavoro creato in virtù della decontribuzione, infatti, oltre a generare Pil aggiuntivo, genera gettito aggiuntivo, sotto forma di introiti statali addizionali sul reddito (Irpef) e sui consumi (Iva). Il costo della decontribuzione, in altre parole, è coperto dalla spinta che la decontribuzione stessa è in grado di imprimere alla dinamica dell’occupazione e del Pil.

Naturalmente si può discutere della efficacia di questa misura, ma il punto resta. Nessuno, ormai, neppure il movimento Cinque Stelle, difende il reddito di cittadinanza così come ha funzionato fin qui. Quindi che lo si debba cambiare è pacifico. Quello che non è chiaro è con quali strumenti, e grazie a quali soggetti (Regioni, Comuni, imprese), offrire opportunità di lavoro alla maggior parte, se non alla totalità, dei percettori occupabili. Che sono tanti (circa 650 mila) ma non tantissimi. Offrire a tutti o quasi un’occupazione, o un corso di formazione, o lavori socialmente utili, non dovrebbe essere un’impresa impossibile. E sarebbe pure un modo per risolvere l’altro problema rimasto sul tappeto, ossia quello dei poveri non raggiunti dal reddito di cittadinanza. Togliere il reddito a chi non ne ha diritto e a chi trova un lavoro genera risparmi significativi: sarebbe un bel segnale che una parte di tali risparmi andasse a correggere l’altra grande stortura del reddito di cittadinanza, ossia la sua incapacità di raggiungere tutti i poveri.

Luca Ricolfi

Dove sbaglia il radicale Valter Vecellio

23 Novembre 2022 - di Dino Cofrancesco

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Invitato all’Istituto Sturzo, con altri studiosi di pari prestigio, alla tavola rotonda di presentazione del fascicolo di ‘Paradoxa’,I, 2022, sulle ‘Parole della Destra—a cura della direttrice della rivista Laura Paoletti e del sottoscritto—Valter Vecellio un autentico liberale libertario  ha criticato il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per aver parlato di ’certezza della pena’ invece che di ‘certezza del diritto’. E’ comprensibile il disappunto del direttore di ‘Notizie radicali, che, come il suo compianto mentore Marco Pannella, ha il culto della Destra storica ed è impegnato in benemerite battaglie civili, come la denuncia delle condizioni dei detenuti nelle borboniche prigioni italiane. E tuttavia, la  certezza della pena  è una ‘species’ del ‘genus  certezza del diritto. Se c’è la seconda, non può non esserci la prima e poiché l’una è un topos retorico sbandierato a ogni pié sospinto mentre l’altro viene sistematicamente squalificato come reazionario non meraviglia che qualcuno ne faccia la sua bandiera giacché in politica non esiste il vuoto e se nessuno si fa carico dei bisogni reali e delle esigenze di una parte della popolazione ci sarà sempre qualcuno pronto ad appropriarsene. Figlie, madri, sorelle, spose che vedono gli assassini dei loro congiunti rimessi presto in libertà—grazie anche alla filosofia del diritto mite di magistrati formatisi nelle Università sessantottesche dove hanno appreso che la responsabilità individuale è un mito giacché crimini e violenze sono prodotti della società borghese—non possono non ripetere, col protagonista di una vecchia sceneggiata napoletana,”chesta non è giustizia, è ‘nfamità!”. Il fatto che delle vittime si occupino solo i giornali del centro-destra—o trasmissioni televisive come quelle di Nicola Porro, di Mario Giordano (sempre sopra le righe), di Paolo Del Debbio—dovrebbe indurre le sinistre a mettere da parte il ‘politicamente corretto’—che spesso le porta a nascondere la provenienza exracomunitaria di chi delinque–e a chiedersi, seriamente, come mai una pronipote del ‘fucilatore’ Giorgio Almirante si trovi oggi a Palazzo Chigi.

Dino Cofrancesco

Presidente dell’Associazione Culturale Isaiah Berlin

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