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Melonomics – La necessità di una seconda fase

7 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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A oltre due anni dal suo insediamento, qual è la cifra del governo Meloni?

Se lasciamo da parte le opinioni degli osservatori più prevenuti, possiamo notare una certa convergenza su un concetto: il governo Meloni è stabile e rispettato, ma lo è anche, se non soprattutto, perché la sua politica economica è in sostanziale continuità con quella di Draghi e con le raccomandazioni dell’Europa. Su questo tipo di diagnosi, nei giorni scorsi, si sono ritrovate due voci molto diverse, entrambe autorevoli per la loro indipendenza, come quella dell’economista Veronica De Romanis e quella del filosofo Marcello Veneziani. È vero che quel che l’una e l’altro rimproverano alla Meloni è molto diverso (troppo poco europeismo l’una, troppo europeismo l’altro), ma resta il fatto che per entrambe il bilancio di questi primi due anni di governo non è esaltante.

Difficile dissentire sul fatto che, sul versante della politica economica, non abbiamo assistito a svolte clamorose, salvo ovviamente la rimodulazione del reddito di cittadinanza e la graduale cancellazione del Superbonus 110%. È vero, in particolare, che finora la pressione fiscale non è affatto diminuita (anzi gli ultimi dati Istat rivelano un lieve aumento), e resta fra le più alte d’Europa (solo Francia e Danimarca fanno peggio di noi). È vero anche che i dati del 2023 sulla povertà assoluta (i più recenti disponibili) non segnalano alcun miglioramento. Ed è vero, infine, che alcune promesse in materia pensionistica – come il superamento della legge Fornero e un forte innalzamento delle pensioni minime – sono state finora disattese.

E tuttavia, se guardiamo attentamente al rapporto Istat sui conti pubblici appena uscito, il quadro che emerge è assai meno immobilistico (e negativo) di quello fin qui richiamato. I conti pubblici sono in miglioramento, e nel 3° trimestre del 2024 il saldo primario, per la prima volta dalla fine del 2019, è tornato positivo (anche grazie allo stop al Superbonus). Gli investimenti fissi lordi delle Pubbliche Amministrazioni, in un solo anno, sono cresciti del 17.3%. Ma soprattutto: il potere d’acquisto delle famiglie consumatrici è in crescita da 7 trimestri, e non è mai stato così alto dal 2012. E tutto fa pensare che a beneficiare di tale crescita siano stati soprattutto i ceti medio-bassi, che fin dall’inizio della legislatura sono stati i principali beneficiari di sconti, sgravi, decontribuzioni, bonus vari (come del resto è logico, con la “destra sociale” al governo).

Tutto bene, dunque?

Non esattamente. Ancora una volta non sono state trovate le risorse per abbassare la pressione fiscale sui ceti medi. Gli ultimi dati rilasciati dall’Istat segnalano la sofferenza delle imprese sui principali versanti: quota di profitto, investimenti, dinamica (calante) della produzione industriale.

Insomma, sul versante del sistema produttivo le cose non sembrano andare a gonfie vele. Si potrebbe obiettare: ma l’occupazione va benissimo, sono stati creati quasi un milione di posti di lavoro in 2 anni, il peso dei precari è diminuito, mai – dall’Unità
d’Italia – sono state così numerose le donne con un lavoro.

Ma è proprio qui il problema. Nell’era Meloni (e pure nell’era Draghi) l’occupazione cresce al ritmo del 2% l’anno, ma il Pil in termini reali cresce a un ritmo inferiore all’1%. E il divario è ancora più grande se al posto dell’occupazione mettiamo il numero di ore lavorate, che crescono a un ritmo ancora più elevato. In concreto questo significa una cosa soltanto: la produttività media del lavoro diminuisce, verosimilmente perché i nuovi posti di lavoro vengono creati soprattutto in settori a basso valore aggiunto per addetto.

Torniamo così all’annoso, anzi storico, problema dell’Italia nella seconda Repubblica: una dinamica troppo lenta della produttività, cui contribuiscono anche un insufficiente sostegno da parte dello Stato agli investimenti privati, nonché un livello
ancora troppo alto dell’imposta societaria e più in generale del cosiddetto total tax rate (imposte e contributi obbligatori totali sull’impresa).

Preso atto che, tutto sommato, la destra ha fin qui saputo ben onorare la sua vocazione sociale (un aspetto del tutto incompreso dalle forze di opposizione), forse è giunto il momento di chiedersi se, nella seconda metà della legislatura, non sia il mondo delle imprese, e il connesso problema della produttività, a meritare un’attenzione speciale. Anche perché è solo da lì, da un rilancio della crescita sostenuto dalla dinamica della produttività e non solo dagli incrementi occupazionali, che possiamo sperare di rimuovere i due macigni – debito pubblico e bassi salari – che da trent’anni pesano sulle sorti dell’Italia.

[articolo uscito sul Messaggero il 5 gennaio 2025]

Perché Meloni vola e Schlein arranca – L’insostenibile pesantezza del welfare

1 Gennaio 2025 - di Luca Ricolfi

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Come di consueto, l’anno si conclude con bilanci e riflessioni sull’operato del governo. E gli immancabili sondaggi. I quali restituiscono un’immagine di sostanziale stabilità dei rapporti di forza fra i partiti. Il consenso a Giorgia Meloni è un po’ più basso che un anno fa, e sensibilmente minore che all’inizio della legislatura, ma la maggior parte degli osservatori considera fisiologica la fine della luna di miele della premier con l’elettorato. Che anzi pare essere durata ben più a lungo di quella di altri governi. A sinistra il Pd di Elly Schlein gode di buona salute, e conferma la sua netta supremazia rispetto ai Cinque Stelle.

Il dato di fondo, però, resta quello dei mesi scorsi: rispetto alle elezioni del 2022, i quattro partiti di centro-destra (Fdi, Fi, Lega, Noi moderati) hanno circa 4 punti di consenso in più. Si può discutere se questa crescita dipenda anche dalla scomparsa di Italexit (il partito di Gianluigi Paragone), e dal conseguente travaso di voti verso i partiti di governo, ma resta il fatto che tutti i sondaggi danno il blocco di centro-destra più forte di due anni fa.

La solidità del consenso verso il centro-destra lascia increduli molti dei suoi critici, che non riescono a capacitarsi che il governo di Giorgia Meloni, pur “non avendo fatto nulla”, continui a risultare popolare nei sondaggi. E tuttavia un certo stupore serpeggia pure tra gli osservatori meno prevenuti, che non possono non registrare che: (1) gli sbarchi continuano; (2) la pressione fiscale non diminuisce; (3) le liste di attesa negli ospedali non si sono accorciate; (4) la promessa di superare la legge Fornero non è stata mantenuta (5) gli aumenti delle pensioni sono irrisori.

Dunque la domanda resta: come mai il consenso a Meloni tiene?

Una possibile risposta è che l’elettorato è sempre più consapevole dei vincoli europei, non pretende la luna, e ha apprezzato l’orientamento di sinistra – cioè pro-ceti popolari – di tutte le manovre varate fin qui (non solo l’intervento sul cuneo fiscale, ma i molti bonus e sconti riservati ai ceti medio-bassi).

Una ulteriore risposta è che, in materia di immigrazione, all’elettorato non è sfuggito il calo degli sbarchi fra 2023 e 2024, ma soprattutto è piaciuta la volontà di non fermarsi con l’operazione Albania, a dispetto dell’azione contraria della magistratura.

Ma forse la vera risposta è che molti elettori si rendono conto che lo stato penoso della sanità non dipende (solo) da questo governo, e che qualsiasi governo futuro potrà convogliare risorse verso la sanità solo se avrà il coraggio (o l’incoscienza?) di aumentare sensibilmente la già altissima pressione fiscale.

E qui veniamo, forse, al vero nodo della tenuta di Giorgia Meloni e del suo governo.

Se il consenso regge non è solo perché la gente riconosce alcune cose buone fatte fin qui, ma perché non si vede alcuna alternativa all’orizzonte. Le critiche di Elly Schlein e di Giuseppe Conte possono anche essere (qualche volta) retoricamente efficaci, ma mancano di tramettere agli elettori il messaggio fondamentale, ovvero la risposta alla domanda: ma se al governo ci foste voi, che cosa fareste, con i vincoli di finanza pubblica dati?

Questa tendenziale impotenza programmatica dell’opposizione non è casuale, ma dipende dalla scelta di puntare quasi tutte le carte su sensibili aumenti di spesa pubblica corrente, innanzitutto in materia di sanità e scuola, senza però spiegare chi dovrebbe sostenere il peso dei sacrifici necessari per un’ulteriore espansione del welfare: una nuova patrimoniale, permanente ed esosa, come in Francia? tagli alle spese militari, mentre l’Europa (e Trump!) ci chiedono di aumentarle? una spending review lacrime e sangue? Per non parlare della transizione green, che sta mettendo in ginocchio l’industria dell’auto europea, e non è mai stata rinnegata dalle forze politiche progressiste.

Insomma, per ora la vera forza del governo Meloni non sembra risiedere nei suoi successi (che riguardano prevalentemente la politica estera), quanto nel vuoto di idee delle opposizioni. Un vuoto che non dipende solo dal deficit di cultura politica della sua classe dirigente, drammaticamente meno preparata di quella dell’antico Partito Comunista, ma poggia sulla insostenibilità – economica e sociale – di qualsiasi programma il cui pilastro sia l’espansione della spesa pubblica.

[articolo uscito sulla Ragione il 31 dicembre 2024]

I giudici e l’Albania

23 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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E così anche i 12 migranti (maschi, maggiorenni, non fragili) trasferiti in Albania sono stati riportati in Italia, infliggendo un duro colpo – non sappiamo ancora se fatale – al progetto di (parziale) esternalizzazione delle frontiere del governo Meloni.

La base di questa decisione della magistratura è presto detta. I giudici hanno ritenuto che, per stabilire se i paesi di rimpatrio (Egitto e Bangladesh) potessero essere considerati sicuri, non bastasse la legislazione nazionale (che considera esplicitamente sicuri quei 2 paesi), ma si dovesse tenere conto di una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea (4 ottobre 2024), che ricalca la legislazione italiana, ma se ne discosta su un punto cruciale.

Partiamo dalla legislazione italiana, che si basa su un decreto legislativo del 2008 (e suoi successivi aggiornamenti). Secondo questa fonte un paese può essere considerato sicuro “se sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge
all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa
di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

Fin qui non ci sono radicali scostamenti con la Direttiva europea. Le differenze sorgono al momento di esplicitare se il requisito di sicurezza debba valere per tutto il territorio e per qualsiasi categoria di persone, o possa invece prevedere eccezioni (territori insicuri o categorie perseguitate).

La formulazione italiana afferma che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.

La formulazione europea, invece, afferma che le condizioni di sicurezza “devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato”.

Come si vede, si tratta di due approcci decisamente diversi. Se ne potrebbe dedurre che, se deve prevalere l’approccio europeo, in quanto sovraordinato a quello nazionale, bene ha fatto il tribunale di Roma a considerare non sicuri Egitto e Bangladesh, ad esempio perché in entrambi i paesi l’omosessualità è reato, o per le torture inflitte a Giulio Regeni in Egitto.

Le cose, però, non sono così semplici. Una valutazione non faziosa della vicenda Albania dovrebbe prendere in considerazione alcuni aspetti problematici.

Il primo è che, se interpretata letteralmente, la sentenza europea dovrebbe condurre a considerare non sicuri la maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia: più di metà dei paesi del mondo non sono democratici; in più di metà degli stati africani
l’omosessualità è reato; anche nei paesi democratici vi sono porzioni di territorio insicure, controllate dalla criminalità, in cui nemmeno la polizia osa entrare; per non parlare degli abusi delle forze dell’ordine, dal caso Floyd negli Stati Uniti al caso
Cucchi in Italia.

Si potrebbe obiettare che la norma europea non va interpretata letteralmente. Giusto, ma allora salta fuori il secondo aspetto problematico: può essere un giudice, o un collegio giudicante, a decidere quando le eccezioni sono abbastanza lievi da
consentire di qualificare un dato paese come sicuro, e quando sono così gravi da obbligarci a qualificarlo come non sicuro?

Insomma, anche fossimo in presenza di una magistratura imparziale, equilibrata, non politicizzata, è sensato conferirle un potere così spropositato?

Che la risposta sia no si può dedurre da un parallelo e da una considerazione collaterale: ci sono innumerevoli situazioni in cui, nonostante le questioni da decidere siano meno complesse di quella della sicurezza di un intero paese, la legge prevede il
ricorso a periti, esperti, tecnici, specialisti di qualche materia, disciplina o ambito scientifico. Nel caso del problema dello “sicurezza” di un paese, la figura che viene immediatamente in mente è quella del sociologo, e subito dopo quelle degli esperti di
diritto internazionale e di scienza politica. Di qui la domanda: come mai per problemi molto più semplici e circoscritti, come le valutazioni psichiatriche su un imputato, appare ovvia le necessità di ricorrere a un esperto, possibilmente non prevenuto, e
invece, per un problema enormemente più complesso e multidimensionale come la valutazione complessiva della sicurezza di un paese straniero, si presume che possa essere un magistrato a emettere un parere vincolante, nonostante la questione su cui
deve decidere abbia ovvie connotazioni politico-ideologiche?

E il bello è che, se a un sociologo serio si ricorresse, la prima obiezione che farebbe sarebbe la seguente: cari signori, la vostra definizione di “paese sicuro” è troppo vaga, per non dire confusa (noi diciamo fuzzy, ossia sfumata, mal definita) per consentirmi di formulare una risposta; siate molto più precisi, datemi una “definizione operativa”, e allora proverò, entro qualche mese, a fornirvi una valutazione.

Così parlerebbe il nostro ipotetico sociologo interpellato. E, nel caso dei migranti portati in Albania, non riuscirebbe a non chiedere: ma scusate, come avete fatto voi giudici, su una questione così complicata, a decidere in poche ore?

[articolo inviato alla Ragione il 20 ottobre 2024; battute: circa 5200]

Elezione di Ursula von der Leyen – L’arroccamento

20 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Con 401 voti favorevoli Ursula von der Leyen è stata rieletta alla presidenza della Commissione Europea. Ne bastavano 361, ne ha avuti 40 in più. Il numero di voti ottenuti è quasi identico al numero di seggi (401) di cui dispongono i tre partiti – popolari, socialisti, liberali – che da sempre reggono le sorti dell’Unione Europea. Ma la corrispondenza aritmetica è fallace: in realtà, contro von der Leyen hanno votato diverse decine di franchi tiratori della sua stessa maggioranza, ed è solo grazie al soccorso dei Verdi che la maggioranza è risultata ampia. Quanto al partito di Giorgia Meloni, dopo molti dubbi e incertezze, ha finito per votare contro, insieme alle destre-destre.

L’ampio discorso con cui von der Leyen ha chiesto la riconferma conteneva, tra le altre cose, alcune robuste aperture ai Verdi sul Green Deal, e qualche timido segnale ai Conservatori di Giorgia Meloni sul problema migratorio. È abbastanza logico che i
Verdi non si siano fatti sfuggire l’opportunità di entrare in maggioranza, è meno chiaro se abbia fatto bene o male Giorgia Meloni a votare contro.

Le due letture che ascolteremo nei prossimi giorni sono entrambe ragionevoli: gli ultra-europeisti diranno che così l’Italia si è isolata, gli euro-scettici diranno che von der Leyen ha concesso troppo poco sul contrasto all’immigrazione e quasi nulla sui problemi degli agricoltori. Quel che mi sembra difficile negare è che le aperture ai Verdi sul Grean Deal sono state più significative di quelle ai Conservatori sul contrasto all’immigrazione (è mancato, in particolare, qualsiasi riferimento all’esternalizzazione delle frontiere e al modello Albania).

Quanto ai partiti italiani, è interessante notare che il voto su von der Leyen ha spaccato sia la maggioranza di governo sia l’opposizione. Fra i partiti di governo Forza Italia ha votato convintamente a favore, la Lega convintamente contro, mentre Fratelli d’Italia è rimasto incerto fino all’ultimo (salvo poi votare come la Lega). Fra i partiti di opposizione il Pd ha votato a favore, i Cinque Stelle contro, mentre l’alleanza Verdi-Sinistra si è già spaccata fra Verdi (a favore) e Sinistra (contro).

Sul piano internazionale, un aspetto molto importante – e non del tutto scontato – del discorso di von der Leyen è stato il suo netto posizionamento pro-Ucraina (sostegno a oltranza) e il suo altrettanto netto richiamo anti-Israele sugli eccidi di civili nella
striscia di Gaza. Una presa di posizione che non meriterebbe particolare attenzione se non avvenisse nelle stesse ore in cui le dichiarazioni del neo-nominato vice di Trump, il sentore James David Vance, delineano una linea politico-militare statunitense
diametralmente opposta: compromesso territoriale con la Russia di Putin, disco verde a Israele per Gaza. Dobbiamo prepararci, in caso di vittoria di Trump, a un inedito quanto drammatico contrasto strategico-militare fra Europa e Usa?

Non meno gravido di implicazioni è quanto Ursula von der Leyen ha annunciato sul piano politico interno, e cioè il suo impegno nella “lotta agli estremismi”. Un monito chiaramente rivolto a Viktor Orbán e ai nuovi gruppi dei Patrioti e dei Sovranisti, piuttosto che ai Conservatori di Giorgia Meloni o al piccolo gruppo della sinistra estrema. Quel che la neo-presidente ha delineato, per molti versi, è la variante europea della strategia francese del “cordone sanitario” contro la destra estrema, con la sola importante differenza di non aver chiesto i voti dell’estrema sinistra.Questa linea politica non è priva di senso, specie se si crede che la posta in gioco sia la democrazia, che le destre estreme costituiscano una seria minaccia all’ordine democratico, e che la santa alleanza delle forze democratiche – dai Verdi ai Popolari – sia in grado di erigere una robusta e duratura barriera contro la “marea nera” montante. Ma siamo sicuri che sia la lettura giusta, o l’unica possibile? I risultati elettorali mostrano che i tre raggruppamenti di destra cui von der Leyen ha chiuso la porta sono i medesimi che il voto popolare ha premiato. E che il gruppo cui invece la ha aperta (i Verdi) è fra quelli puniti dal voto. Insomma: la nuova Commissione europea ha scelto di muoversi nella direzione opposta a quella dell’opinione pubblica, pur avendo l’opportunità – grazie alla presenza dei Conservatori – di dare un sia pur piccolo segnale di sintonia con le preoccupazioni degli elettori. Quasi che l’avanzata simultanea delle destre – di tutte le destre, compresi Conservatori e Popolari – fosse il sintomo di una malattia, piuttosto che un segnale di preoccupazioni più o meno legittime dei cittadini, come quelle in materia di immigrazione e di politiche agricole.

Che questa scelta di arroccamento dell’establishment europeo sia stata lungimirante o miope, lo vedremo fra qualche anno, quando si tornerà al voto. Per ora sia lecito sollevare il dubbio.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 luglio 2017]

Onda nera e dilemma migratorio

13 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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A guardarle da lontano, le elezioni europee forniscono un risultato molto chiaro: indietro liberali, verdi, socialisti, avanti tutte e tre le destre: Popolari di Ursula von der Leyen, Riformisti di Giorgia Meloni, Identitari di Marine Le Pen. E altrettanto
chiaro, anche se non a tutti, è il triplice messaggio che è stato recapitato a Bruxelles: non ci convince la velocità (eccessiva) della transizione green, non ci va l’inconcludenza in materia di flussi migratori irregolari, non ci piace il politicamente
corretto dei burocrati europei.

Complessivamente, gli equilibri politici si sono spostati verso destra, in alcuni casi in modo clamoroso: in Francia è crollato il partito di Macron, e quello di Marine Le Pen ha toccato la quota stratosferica del 32%; in Germania sono crollati i
Socialdemocratici del cancelliere Scholtz, superati dalla AFD (Alternative für Deutschland), un partito di destra così estrema da essere stato espulso da Identità e Democrazia, il gruppo più a destra del Parlamento Europeo. Tutto ciò ha suggerito ai
commentatori più pittoreschi di parlare di un’onda nera che starebbe sommergendo le fragili istituzioni europee.

A guardarle più da vicino, ovvero paese per paese, le elezioni europee raccontano una storia assai meno univoca, forse più interessante. Ci sono paesi, anche importanti, in cui i socialisti sono cresciuti sensibilmente: in Francia sono rinati, dopo essere quasi scomparsi nelle elezioni del 2022; in Italia, con il 24% del Pd, hanno ottenuto il miglior risultato dai tempi dell’exploit di Renzi, che rialse a dieci anni fa (41% alle Europee del 2014).

Anche il mito dell’onda nera andrebbe ridimensionato. Se, ad esempio, prendiamo i due paesi scandinavi (Finlandia e Svezia), attualmente governati da coalizioni di destra, non mancano le sorprese: in entrambi i paesi i partiti di estrema destra (Veri
Finlandesi e Democratici svedesi) hanno ottenuto risultati elettorali pessimi, a fronte di buoni risultati delle forze progressiste.

I casi più interessanti, però, a mio parere sono quelli della Danimarca e della Germania. Questi due paesi, infatti, illustrano bene quanto cruciale sia, per gli equilibri elettorali della sinistra, il modo in cui viene affrontato il tema migratorio.

In Danimarca, nel 2022, la premier socialdemocratica Mette Frederiksen aveva vinto le elezioni politiche su una linea securitaria, ventilando addirittura il trasferimento dei migranti irregolari in Ruanda, sulla linea del premier britannico Rishi Sunak. Il
risultato, però, è stato che due anni dopo, alle elezioni Europee, il suo partito è stato scavalcato dall’Alleanza di sinistra, un partito di sinistra-sinistra.

La vicenda è interessante perché ricalca, in un arco di tempo molto più breve, quel che in Italia è capitato al Pd nel decennio 2014-2024. La svolta riformista impressa da Renzi e Gentiloni con il Jobs Act e la linea dura sull’immigrazione (ministro Minniti) hanno innescato una progressiva crisi di rigetto, con la scissione di Leu, i tormenti del dopo-Renzi, la riconquista della “ditta” da parte di Bersani e compagni, la sconfitta di Bonaccini, l’ascesa finale di Elly Schlein, coronata dal successo alle Europee. La
differenza con il caso danese è che lì la reazione alla sinistra moderata e riformista è stata rapida e affidata a un a partito più a sinistra dei socialdemocratici, mentre da noi è stata lunga e affidata alla scalata interna al Partito Democratico.

In Germania le cose sono andate in un modo ancora più inedito. Qualche mese fa, di fronte alla irresolutezza dei socialdemocratici in tema di migranti, e al connesso deflusso di voti popolari verso l’AFD, Sahra Wagenknecht, politica proveniente dalla Linke (il partito più a sinistra della Germania), ha deciso di fondare un partito al tempo stesso di sinistra e anti-migranti. Alla prima prova elettorale, le Europee dei giorni scorsi, il suo partito nuovo di zecca ha totalizzato il 6.2%, che sommato al 15.9% della AFD porta oltre il 22% la quota di elettori che hanno espresso un voto innanzitutto anti-immigrati.

Il caso tedesco e il caso danese illustrano nel modo più chiaro la crucialità che, per la sinistra di governo, assume il dilemma migratorio. Snobbare o negare il problema aliena le simpatie dei ceti popolari, e finisce per ingrossare le file dei partiti di
estrema destra. Prenderlo su di sé, rende meno ardua la conquista del governo, ma alla lunga crea divisioni nel campo progressista, alimentando la crescita della sinistra-sinistra. Anche di questo, prima o poi, dovrà farsi carico Elly Schlein.

[articolo uscito sul Messaggero il 12 giugno 2024]

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