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Il maschilismo è anche in noi donne?

28 Novembre 2024 - di Paola Mastrocola

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Se vivessimo in un sistema patriarcale, noi donne saremmo tutte chiuse in casa. A pranzo e a cena serviremmo i nostri mariti e parleremmo solo se interrogate. Invece andiamo ogni giorno dove ci pare e parliamo ovunque e a chiunque, dicendo quel che pensiamo.

Se vivessimo in uno stato fascista, saremmo costretti ad andare alle adunate e, se ci opponessimo al regime verremmo incarcerati, torturati e uccisi. Invece mi pare che godiamo ancora e ampiamente di libertà di azione, di pensiero e di parola (sempre che la parola non ce la tolgano dei facinorosi invasati: ma questo è un altro discorso).

Stiamo attenti a usare bene le parole. Se le cause per cui vogliamo combattere sono giuste, non vanifichiamo le nostre lotte usando le parole sbagliate, perché le parole sbagliate rischiano di inficiare la giustezza delle nostre cause.

Se al bell’articolo di Viola Ardone, apparso su La Stampa tre giorni fa, sostituiamo la parola patriarcato con la parola maschilismo, tutto torna. Se non la sostituiamo, in alcuni di noi lettori può insinuarsi qualche perplessità. Per una semplice e banale ragione lessicale, e cioè perché nella parola patriarcato c’è sì la parola àrchein che vuol dire detenere il potere, comandare; ma c’è anche la parola pater. E se c’è una cosa che è sparita da decenni nel nostro mondo, è proprio il potere del padre. Già
solo andando a una sessantina d’anni fa, se penso a mio padre, non mi viene in mente la parola patriarcato. Mio padre, abruzzese, figlio di contadini, emigrato a Torino e poi grazie alle scuole serali ragioniere assunto alla Fiat, non m’impediva né di uscire né di parlare. Mi imponeva di tornare a mezzanotte, questo sì. Non era un patriarca, però faceva il padre. Un padre severo che educa i figli ponendo delle regole, ovvero insegnando loro l’esistenza di un limite: se lo oltrepassi, avrai un rimprovero o una punizione. Punto e basta. Allora esistevano i padri. Oggi fior di studiosi e psicanalisti ci avvertono da tempo che la figura del padre è evaporata. E questo è, semmai, uno dei problemi che affligge la nostra attuale società.

Che certe frange di patriarcato ancora esistano, in qualche anfratto del mondo occidentale e quindi anche da noi in Italia, non si può negare. Certamente esiste un macroscopico patriarcato nel mondo islamico, e quindi nelle famiglie di origine islamica che vivono da noi in Italia. Ed è terribile che non stiamo facendo niente per contrastarlo. È la loro cultura, diciamo. Quindi, in nome del nostro illuminato multiculturalismo, lasciamo imperterriti che certe atrocità dei maschi contro le donne si compiano sotto i nostri occhi. Imperterriti. Indifferenti. E, aggiungerei, ipocriti.

Di maschilismo invece è sacrosanto parlare. Non solo, è sacrosanto combatterlo.

Il maschilismo è un concetto più sfuggente e sottile, legato anche, a fattori naturali insiti nell’essere umano. È il risultato di una combinazione complessa di tratti storici, psicologici, sociali, ma anche biologici. E introdurre nel dibattito il fattore natura non ci piace. Preferiamo pensare che la civiltà sia un fatto solo di cultura. Anzi, che la cultura consista proprio nel riuscire a debellare quei rimasugli di natura che ancora restano in noi.

Maschilismo è l’idea che l’uomo debba essere virile, forte, dominante.

Da cui la violenza sulle donne, ma anche certa avversione o fastidio, ancora ahimè serpeggiante, verso il mondo omosessuale che palesemente contravviene a tale modello.

Combattiamo dunque il maschilismo. Ma in che modo?

Siamo sicure, noi donne, di combatterlo sempre e in ogni forma?

Penso alla nostra accettazione passiva di fronte ai messaggi pubblicitari che inondano ogni giorno le nostre vite, attraverso la televisione, i giornali e i social su cui passiamo tanto amenamente ore intere. Lì domina un’immagine della donna inequivocabile: femmina oggetto delle brame maschili, dove strumento primo e unico della seduzione è la bellezza, intesa in senso univoco e totalizzante, una bellezza dove giocano un ruolo principale il trucco, gli abiti, il corpo esposto. È un’immagine che portiamo
stampata dentro durante la nostra giornata, quando siamo al lavoro, a scuola, a casa, al bar, in palestra. Ovunque. Un modello a cui, forse inconsapevolmente, aderiamo in molte, un modello che abbiamo introiettato e a cui non ci sogniamo minimamente di opporci. Noi ci adeguiamo a quel modello, lo facciamo nostro. Se no perché mai decideremmo di uscire, di andare al cinema, al ristorante o a un convegno, truccandoci per ore, mettendo i tacchi 12, e scegliendo abiti con spacchi e scollature?

Non mi si venga a dire che lo facciamo per piacere a noi stesse. Non ci mettiamo i tacchi 12 per stare tutto il giorno in casa da sole a leggerci un libro. Lo facciamo per piacere agli altri, maschi o femmine che siano. E questo va benissimo, s’intende. La cosa deleteria è che pensiamo che, per piacere agli altri, occorra uniformarsi al modello femminile imperante. Eccolo, l’impero del maschio, il dominio maschile, il maschilismo: che è prima di tutto in noi donne.

Se volessimo combattere il maschilismo, ci sarebbe una strada più facile e ben più efficace che scendere in piazza con gli striscioni contro il patriarcato riempiendoci la bocca di slogan. Sarebbe uscire vestite come ci pare, senza ogni volta comporre (mettendoci quanto tempo e denaro!) il quadro artefatto di una bellezza omologata, così come la vuole il maschio dominante. Sarebbe l’idea che la bellezza vera di una donna passa attraverso ben altro, è infinitamente più composita, misteriosa. E potente.

Non sarebbe una grande rivoluzione?

Articolo uscito su La Stampa il 27/11/2024

Il fantasma del patriarcato

25 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Domani è la “Giornata internazionale contro la violenza sulle donne”. Possiamo star certi che, fra gli slogan, non mancheranno quelli contro il patriarcato. Del resto ne abbiamo avuto un assaggio in questi giorni: chiunque neghi l’esistenza del patriarcato
viene guardato con stupefatto rimprovero, come se avesse osato negare la Shoah.

La ragione è semplice: siamo stati talmente martellati dalla tesi che la violenza sulle donne dipende dalla sopravvivenza del patriarcato che, per molti, negare il patriarcato suona come negare la violenza sulle donne.

Eppure, se lasciamo per un attimo gli ardori ideologici dei credenti nel patriarcato, e ci concediamo il minimo sindacale di lucidità, non possiamo non vedere le ottime ragioni dei negazionisti. Che sono tante e solidissime.

La più importante è che, a parte alcune specifiche enclave di cui parlerò fra poco, nelle società occidentali sono scomparsi quasi interamente i tratti distintivi delle società patriarcali: il potere dispotico del capofamiglia, il matrimonio combinato, la
sottomissione dei figli (anche dei figli maschi) all’autorità genitoriale, più in generale il primato dei doveri sui diritti in quasi ogni campo della vita sociale (lavoro, famiglia, guerra). Il processo è durato secoli, ma ha avuto due impulsi fondamentali: l’ascesa del matrimonio d’amore fra Settecento e Ottocento, in epoca romantica, e le rivoluzioni libertarie e anti-autoritarie degli studenti e delle donne negli anni ’60 e ’70 del Novecento. Un aspetto fondamentale di questi processi è l’evaporazione della figura del padre, e più in generale di ogni autorità, tempestivamente annunciata da Alexander Mitscherlich con il suo libro Verso una società senza padre, uscito in lingua tedesca fin dal 1963. Su questo, fra i sociologi, gli psicologi sociali e gli psicoanalisti sussistono ben pochi dubbi.

Di qui un’ovvia domanda: come si fa a parlare di società patriarcale, quando la figura del padre è scomparsa non solo nella famiglia, ma più in generale nella società?

La realtà è che la nostra società è profondamente maschilista, o machista, o basata sul “dominio maschile” (titolo di un importante libro di Bourdieu), a dispetto della scomparsa del patriarca, del padre, di ogni autorità. E anzi, l’ipotesi che dovremmo
prendere seriamente in considerazione è che la violenza di cui le donne sono vittime sia semmai il risultato – controintuitivo e paradossale – della sconfitta del patriarcato.

Sono sempre più numerose le voci che attirano l’attenzione sul fatto che potrebbero essere proprio le grandi conquiste di libertà e di autonomia delle donne negli ultimi 50 anni, combinate con il crescente individualismo, consumismo, ipertrofia dei diritti
– tutti tratti tipici del nostro tempo – ad avere reso gli esautorati maschi sempre più aggressivi, insicuri, fragili, possessivi, e in definitiva incapaci di reggere la minima sconfitta, o di accettare un semplice rifiuto. Insomma: l’odierno maschilismo sarebbe
anche una sorta di contraccolpo a conquiste delle donne per cui i maschi non erano pronti, né disposti a farsi da parte. La violenza maschile non sarebbe il segno della sopravvivenza del patriarcato, ma semmai della sua agonia, e del disordine che da quest’ultima deriva.

Questa linea di pensiero, su cui mi paiono convergere anche importanti settori del femminismo (vedi il recentissimo coraggioso intervento di Marina Terragni sul sito Feminist Post), ha un importante vantaggio concettuale: spiega il “paradosso nordico”, ovvero il fatto – a prima vista sorprendente – che la violenza sulle donne, dagli stupri ai femminicidi, sia maggiore nei paesi più civilizzati (come quelli scandinavi) e che un paese come l’Italia, in cui il gender gap è ancora relativamente ampio, sia fra i meno insicuri del continente europeo.

Ma quali sono le implicazioni pratiche di questo schema interpretativo, che distingue nettamente fra patriarcato e maschilismo?

La prima, e più ovvia, è di combattere il patriarcato ovunque sopravvive davvero, e cioè nelle enclave religiose e culturali che, all’interno delle società occidentali, ospitano famiglie davvero patriarcali, come quella di Saman Abbas, che ha pagato con la vita il suo rifiuto di un matrimonio combinato. I dati del Ministero dell’interno sulle vittime di reati gravissimi, come la costrizione al matrimonio, lo stupro di gruppo, la violenza sessuale, il revenge porn, mostrano con grande nettezza che le ragazze straniere corrono rischi enormemente maggiori di quelli delle ragazze italiane. Forse ci vorrebbe, accanto alla ultra-meritoria “Fondazione Giulia Cecchettin”, anche una “Fondazione Saman Abbas”, che aiuti le ragazze straniere oppresse a liberarsi dei rispettivi patriarchi, della cui nefasta influenza si possono trovare indizi anche nelle scuole, ad esempio ogniqualvolta il tasso di partecipazione ad attività sociali delle ragazze straniere è sensibilmente inferiore a quello delle ragazze italiane.

Ma la implicazione più importante del passaggio dalla lotta al patriarcato alla lotta al maschilismo, è quella di sollecitarci a cercare, individuare e combattere le vere determinanti del maschilismo stesso. Che a me paiono almeno due. Innanzitutto,
l’uso sistematico del corpo delle donne per promuovere la commercializzazione di ogni genere di merce, servizio, evento, spettacolo: una prassi più che gradita ai maschi, ma non di rado assecondata dalle donne stesse, e che solo una parte del
femminismo osteggia. E poi, una determinante più sfuggente, ma forse ancora più impattante: gli eccessi della cultura dei diritti, a partire dal diritto a non soffrire, né patire sconfitte, né subire scacchi, né vivere frustrazioni, né sostenere sacrifici o lunghe attese.

Se il maschio si rivela incapace di reggere un rifiuto, o non sa rinunciare a prendersi con la forza quello che vuole, è anche perché vive in una società nella quale – sul piatto della bilancia – il peso dei diritti è diventato incomparabilmente maggiore di quello dei doveri.

[articolo uscito sul Messaggero il 24 novembre 2024]

In margine all’8 marzo – Sexting, trionfo del maschilismo

10 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

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Se ripercorriamo i quasi 80 anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale, il cammino delle donne ci appare lastricato di conquiste legislative e di vittorie, alcune eclatanti e ben note, altre meno vistose ma non prive di importanza. Fra le prime: diritto di voto (1946), legge sul divorzio (1970, e referendum 1974), legge sull’aborto (1978, e referendum 1981). Fra le seconde: accesso ai pubblici uffici e alle professioni (1963), riforma del diritto di famiglia (1975), abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore (1981), parità salariale (2010), contrasto alla violenza di genere (2013), codice rosso (2019).

Se però abbandoniamo il piano normativo, e ci interroghiamo sui cambiamenti effettivi della condizione della donna, il quadro si fa più complesso. Intanto, è difficile non vedere che, con l’importante eccezione del diritto di voto, la maggiore libertà di cui godono oggi le donne dipende assai più da processi sociali che da cambiamenti legislativi. Alla libertà sessuale, ad esempio, hanno dato un contributo decisivo la larga disponibilità di contraccettivi (e, con molti ostacoli, l’accesso alla “pillola del giorno dopo”). Quanto alla libertà economica, moltissimo ha fatto l’autonoma scelta delle ragazze di studiare, impegnarsi, ed entrare nel mercato del lavoro: se oggi per una donna è più facile separarsi o divorziare non è solo perché c’è una legge che lo consente, ma perché in tante, fin dagli anni ’70 e ’80, hanno preferito investire sullo studio e sul lavoro, piuttosto che sulla ricerca di un partner benestante. E i risultati si vedono: dal 1990, le ragazze superano sempre più ampiamente i ragazzi nella corsa alla laurea e, quanto alla scuola dell’obbligo, oggi non c’è una sola materia (nemmeno la matematica) in cui le ragazze non siano più preparate dei ragazzi.

Questi processi di emancipazione e di empowerment (come li chiamano gli psicologi), tuttavia, raccontano solo una parte della storia. Intrecciati ad essi, coesistono meccanismi e tendenze che investono in modo negativo la condizione della donna, e impattano in modo diverso sulle varie generazioni. Anche questi meccanismi  hanno a che fare con la libertà, ma in modo per così dire imprevisto: non come conquiste, ma – semmai – come effetti collaterali delle conquiste.

Una prima tendenza è la moltiplicazione del numero di donne che crescono i loro figli da sole, o comunque senza il padre. In una società in cui il numero di separazioni e di divorzi ha superato quello dei matrimoni, e in cui i giudici quasi sempre assegnano il figlio alla madre, si tratta di una conseguenza inevitabile. Una conseguenza che tocca soprattutto le madri della cosiddetta generazione X (1965-80), intermedia fra quella dei baby boomers (1946-1964) e quella dei millennials (1981-1996).

Una seconda tendenza, invece, ha a che fare soprattutto con le ultime generazioni (zeta e alpha), e più esattamente con quanti hanno attraversato l’adolescenza dopo il 2010. Queste due generazioni, da 10-15 anni stanno sperimentando – in tutto l’occidente – una drammatica esplosione di sintomi di sofferenza psicologica o esistenziale: depressione, stress, ritiro sociale, atti di autolesionismo, suicidi tentati e riusciti. Una crisi che investe con violenza la gioventù in tutte le fasce, ma colpisce in modo speciale le adolescenti.

Le cause sono ormai chiarissime, anche se enormi interessi economici e potenti forze psicologiche (e politiche) ostacolano un discorso di verità. Una impressionante mole di ricerche ha dimostrato che a mettere a repentaglio la salute mentale e la felicità di tanti ragazzi (e soprattutto ragazze) sono i vissuti di inadeguatezza che la pubblicità e i social alimentano in continuazione mediante i modelli di perfezione – soprattutto fisica ed estetica – che vengono fatti circolare in rete: un meccanismo infernale, al cui centro si trovano il materiale pornografico, che viaggia senza restrizioni, e la pratica del sexting (invio di testi, immagini e video – privati e non – sessualmente espliciti), che coinvolge un numero sempre più alto di adolescenti (ma anche di giovani e adulti).

Con milioni di persone che praticano il sexting (di cui 1/3 vittime di diffusione non consensuale di materiale intimo), con milioni di ragazze e ragazze che passano una frazione sempre più alta della loro giornata sui social, e incautamente affidano ai like la costruzione della propria identità e auto-stima, non stupisce che psichiatri, psicanalisti e psicologi sociali denuncino l’esplosione – dopo il 2010 (anno di uscita dell’iPhone 4) – di un’epidemia di disturbi mentali e sofferenza psicologica. Un’epidemia che, non a caso, colpisce innanzitutto le ragazze, che della pratica del sexting e del revenge porn(diffusione di immagini osé per vendetta) sono le principali vittime, come tristemente insegnò a suo tempo il suicidio di Tiziana Cantone.

In queste circostanze, non si può non provare ammirazione per il lavoro di chi, come la giovane giurista Francesca Florio, mette in guardia e insegna come denunciare (suo lo splendido libro Non chiamatelo revenge porn), ma forse si dovrebbe pure sollevare un interrogativo: perché i maschi progressisti – anziché autoflagellarsi per ogni femminicidio compiuto da altri, e difendere il sexting di immagini private come pratica normale, se non come suprema manifestazione della libertà sessuale della donna – non si decidono a dire la verità?

Che è tanto amara quanto semplice: la produzione, condivisione, diffusione di immagini sessualmente esplicite è la forma più aggiornata e ubiqua di sopraffazione del maschio sulla donna.

Le diverse forme della primitiva dominanza maschile sulle donne: l’interazione tra natura e cultura

20 Febbraio 2023 - di Silvia Bonino

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Non solo cultura

La condizione delle donne è stata segnata storicamente, in tutto il mondo, da gravi disparità di trattamento, con sopraffazione e dominio maschili. Tale situazione perdura oggi anche nel mondo occidentale, teoricamente egualitario. In Italia, per esempio, si va dal minore stipendio a parità di mansione fino agli abusi, alle violenze sessuali e alle uccisioni, il cui numero non accenna a diminuire. Se spostiamo lo sguardo, troviamo diffusissima in tutto il mondo quella che l’antropologa francese Françoise Héritier (1996) ha definito la “valenza differenziale dei sessi”, cioè l’attribuzione di un maggiore valore al sesso maschile, che si traduce in supremazia su quello femminile, codificata a livello giuridico e religioso. Tutto questo nei confronti non di una minoranza, ma di metà della popolazione umana.

Le differenze di valutazione e di trattamento sono in genere spiegate con il perdurare della cultura patriarcale. Questa interpretazione non riesce a spiegare perché il modello patriarcale dell’uomo dominante e della donna subordinata sia così ampiamente diffuso in culture diverse e in tempi storici e luoghi molto differenti. Essa si fonda, inoltre, sull’implicito presupposto che l’essere umano sia influenzato solo dalla cultura, dimenticando due evidenze. La prima è che noi siamo dei mammiferi – se pure dotati di particolarissime caratteristiche cognitive e sociali – con un corpo e un cervello che sono il risultato di una lunga evoluzione filogenetica; in concreto, ciò significa che abbiamo delle disposizioni biologiche –non rigide predeterminazioni al comportamento – che non possono essere ignorate. La seconda evidenza riguarda la cultura stessa, che è il frutto delle specifiche capacità del cervello e della mente umana. Quest’ultima emerge, con modalità sconosciute, da un cervello che si è plasmato nel corso di una lunga storia filogenetica; è stato lo sviluppo della neocorteccia a rendere possibili il pensiero, la parola e l’autocoscienza, consentendo agli esseri umani di comunicare tra loro e di elaborare idee che sono diventate patrimonio di una comunità, poiché potevano essere trasmesse in forma orale, e in seguito anche in forma scritta, superando i limiti di spazio e di tempo. Di conseguenza la cultura, nata dalle potenzialità del cervello umano, è diventata uno strumento di adattamento che non solo si affianca alle disposizioni biologiche ma interagisce continuamente con esse, contribuendo a plasmare il cervello e la mente di ognuno di noi. Ne deriva che le influenze culturali, in continuo divenire, non possono essere considerate in modo separato e isolato da quelle biologiche: occorre invece studiare le reciproche interazioni tra patrimonio biologico e patrimonio culturale, tra natura e cultura, senza riduzionismi di alcun tipo. Occorre inoltre ricordare che il singolo individuo non è il risultato meccanico dell’interazione tra influenze biologiche e influenze culturali; egli, grazie alle capacità di autocoscienza e riflessione su di sé, contribuisce con le proprie scelte e comportamenti a plasmare il proprio cervello e la propria mente.

Da quanto detto deriva che i comportamenti di svalutazione e dominanza degli uomini sulle donne non possono essere spiegati facendo riferimento solo alla cultura, o viceversa solo al patrimonio biologico. Occorre superare le semplificazioni e prendere atto della nostra realtà di mammiferi molto speciali, dotati di un corpo e di un cervello, ma anche di capacità simboliche e di cultura; le relazioni tra uomini e donne vanno quindi studiate nella complessità delle interazioni tra influenze biologiche e culturali. È un compito molto ampio e appena avviato, ma oggi siamo già in grado di delineare un quadro sufficientemente fondato, sulla base di conoscenze scientifiche che ci provengono da discipline diverse (per approfondire: Bonino, 2019).

L’evoluzione della socialità umana e delle relazioni tra uomini e donne

Per comprendere la socialità umana – di cui la diffusa svalutazione e la dominanza degli uomini sulle donne è un aspetto – partiamo dunque dal corpo e dal cervello, realtà che sovente sono prese in minore considerazione o addirittura negate, ma che sono comuni a tutti gli appartenenti alla specie umana. Come è ormai assodato (Blundo e Ceccarelli, 2011), il cervello umano è il risultato di una lunga evoluzione filogenetica, che parte dai primi vertebrati (i rettili), prosegue con i mammiferi primitivi e poi con i neomammiferi, cui la specie umana appartiene. Di conseguenza, nel nostro cervello coesistono tre livelli, corrispondenti a diverse fasi di progressione filogenetica: strutture con origini molto arcaiche (cervello rettiliano) coesistono con altre più recenti (cervello limbico o emotivo, comparso con i protomammiferi) e con altre recentissime (neocorteccia, comparsa con i neomammiferi e massimamente sviluppata nella specie umana). La dominanza degli uomini sulle donne è riconducibile alle disposizioni biologiche sedimentate nella parte più arcaica del nostro cervello come possibilità, non certo come istinto o determinazione al comportamento. Nei rettili le interazioni sociali tra i sessi sono limitate al momento dell’estro, in funzione della riproduzione, e sono caratterizzate da aggressione nei maschi e da paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione privo di qualunque relazione individualizzata. Questo tipo di relazione è stato superato nel corso della filogenesi: esso non è specifico degli esseri umani e non è più per noi adattivo.  La nostra specie infatti ha sviluppato un’ampia gamma di capacità di socialità positiva, che sono comparse nella filogenesi con il cervello emotivo e si sono poi ampliate enormemente con lo sviluppo della neocorteccia. Si tratta delle capacità di stabilire relazioni individualizzate e personali, legami di attaccamento, sintonia emotiva, cooperazione e altruismo; esse si sono sviluppate a partire non dalla sessualità ma dalla relazione tra la madre e la prole, e si fondano su specifiche disposizioni alla relazione sociale che sono universali e precocissime (per approfondire: Bonino, 2012). Esse sono presenti in tutti gli appartenenti alla specie umana (come le espressioni emotive di base) e fin dalle primissime fasi della vita (come l’imitazione e il contagio emotivo, fondato sui neuroni specchio, precursori dell’empatia vera e propria). Queste disposizioni permettono l’identificazione dell’altro o dell’altra come essere uguale a sé, in cui specchiarsi e ritrovare la stessa comune umanità, indipendentemente dal sesso. Questa identificazione primaria può essere rafforzata dal pensiero, e quindi dalla cultura, capaci di elaborare e trasmettere idee di uguaglianza; essa può, però, anche essere inibita quando questi sviluppano idee di disuguaglianza, che giustificano la dominanza rettiliana primitiva a favore del potere maschile.

Per quanto riguarda in senso stretto la sessualità, questa si è disgiunta nel corso della filogenesi dalla connessione con l’aggressione nei maschi e con la paura nelle femmine, in un rapporto di dominanza-sottomissione. La sessualità si è congiunta sempre più alla capacità di stabilire legami personali fino a perdere nella nostra specie la sua funzione unicamente riproduttiva per diventare uno strumento al servizio del mantenimento della relazione affettiva. E’ così comparso l’amore sessuale, specifico degli esseri umani, nei quali l’esercizio della sessualità è del tutto sovrabbondante ai soli fini riproduttivi. Infatti non esistono specifici e riconoscibili periodi di estro e la disponibilità sessuale sia nei maschi sia nelle femmine è continua, in presenza anche di alcune modificazioni corporee che favoriscono l’attrazione sessuale (come il seno femminile) e il reciproco piacere sessuale. Questa trasformazione della sessualità umana è avvenuta per rispondere alle esigenze non solo di cura prolungata di una prole con un’infanzia lunghissima, che richiedeva l’impegno continuativo di entrambi i genitori e non solo della madre, ma anche per quelle di relazione affettiva degli esseri umani, dotati di altissima socialità e di un’articolata vita di gruppo con i propri simili. Ciò che è specifico degli esseri umani è quindi la capacità di stabilire relazioni personali paritarie e durature, che coniugano sesso e affetti, basate sul riconoscimento reciproco della comune e uguale umanità.

Esistono dunque in noi, come uomini e donne, disposizioni biologiche diverse e con differente valore adattivo. Quelle arcaiche primitive (aggressione e dominio nei maschi, sottomissione e paura nelle femmine) non sono proprie della nostra specie: nessuno può giustificare la violenza sessuale o il predominio maschile sulle donne invocando la “natura” umana, perché non è più quella la nostra natura. Di conseguenza, le disposizioni arcaiche non svolgono più alcuna funzione adattiva; al contrario, come la quotidiana esperienza ci mostra, creano solo sofferenza a livello individuale e sociale. Esse sono una zavorra che ci portiamo dietro, nel nostro cervello, da un antico passato filogenetico e che dobbiamo imparare non solo a controllare e a non sollecitare, ma anche a non giustificare e legalizzare.

Gli uomini non sono necessariamente dei prevaricatori e dei violenti, ma possono diventare tali se non prendono consapevolezza delle tendenze arcaiche dentro di loro e di quanto la cultura spesso le favorisca, a scapito della socialità evoluta, specificamente umana, l’unica capace di dare benessere ai singoli e alla società. Le donne, a loro volta, non sono condannate per destino biologico alla sottomissione, ma possono facilmente subirla e accettarla se lasciano prevalere in loro l’arcaica disposizione alla paura, in presenza di una cultura che ostacola il riconoscimento delle relazioni paritarie. Le disposizioni sociali proprie della nostra specie sono quelle egualitarie, di riconoscimento della comune umanità: sono queste che la cultura deve favorire per dare benessere. E sono queste che ogni individuo, mai in balia né della natura né della cultura, deve coltivare in se stesso, se vuole davvero esprimere e realizzare la sua umanità.

Le molte forme della dominanza maschile

Nel funzionamento unitario del cervello e della mente, le parti più arcaiche interagiscono con quelle più evolute; di conseguenza, cultura e disposizioni primitive si influenzano reciprocamente.   Cultura significa pensiero, vale a dire parole, sistemi simbolici, idee, ideologie, credenze religiose, costruzioni giuridiche, espressioni artistiche, tecnologia, e molto altro ancora. Può accadere che la cultura giustifichi e cerchi di rafforzare la primitiva supremazia del maschio sulla femmina, a danno delle disposizioni egualitarie più evolute e recenti. In questi casi, il pensiero mette le proprie sofisticate modalità di funzionamento al servizio non delle predisposizioni alla socialità positiva, proprie della nostra specie, ma della sopraffazione primitiva; ciò avviene allo scopo di perpetuare il dominio di alcuni uomini, o di alcuni gruppi di uomini, sulle donne. E’ quindi nell’alleanza tra pensiero, cultura e tendenze primitive di dominio, che si favorisce e si rafforza in modo forte e stabile la prevaricazione degli uomini sulle donne; si determina infatti un giro vizioso in cui il pensiero e la cultura sostengono le tendenze preumane arcaiche e queste ultime, anziché venire inibite e controllate a vantaggio di quelle egualitarie, prevalgono.

Quest’alleanza prende forme diverse nelle varie culture e nei vari tempi storici. Essa emerge nelle forme più brutali di dominanza maschile primitiva, quando si impone la volontà sessuale maschile a una donna, sottomessa con la forza fisica. In questo tipo di sopraffazione sembrerebbe essere in gioco solo l’attivazione della parte più primitiva del cervello maschile, con un prevalere cieco e incontrollato della disposizione biologica arcaica per carenza di controllo dell’impulsività. In realtà anche la cultura ha un ruolo importante, sia perché offre stimoli (come la pornografia) che possono favorire l’emersione di modalità primitive di sessualità predatoria, sia perché sovente giustifica il violentatore, anche nelle sentenze di tribunale, attribuendo la colpa alla donna.

Altre forme di dominanza primitiva sono codificate dalla cultura di appartenenza, in particolare dai sistemi giuridici. E’ facile riconoscere questa dominanza nelle svariate leggi che oggi, in diverse parti del mondo, impongono la segregazione delle donne, la loro subordinazione giuridica al maschio (padre, fratello, marito), il divieto di istruzione, l’imposizione di un vestiario che le occulta. E’ invece più difficile identificare le forme di prevaricazione maschile primitiva nella cultura occidentale, che riconosce formalmente, a livello giuridico, l’uguaglianza di uomini e donne. Eppure sono molte le forme di dominio accettate e intellettualmente giustificate con svariati ed elaborati argomenti. Una delle più diffuse, antiche e persistenti, è la prostituzione, che proprio per il suo intrinseco carattere di dominanza è stata definita “stupro a pagamento”. Oltre a essere accettata come inevitabile o regolamentata per legge, oggi essa viene giustificata da alcune correnti di pensiero come semplice “lavoro sessuale”, al pari di qualunque altra prestazione lavorativa retribuita (per approfondire: Pazé, 2023). Oppure viene rivendicata come liberazione della sessualità femminile, dimenticando che la sessualità umana si è evoluta come relazione individualizzata tra persone uguali, frutto di una libera scelta e caratterizzata dal mutuo coinvolgimento emotivo di entrambi partner. In queste interpretazioni ancora una volta il pensiero elabora teorie al servizio della dominanza maschile primitiva.

Tra le forme più recenti di dominanza maschile c’è la pratica dell’utero in affitto da parte delle coppie omosessuali. Di fronte all’intrinseca impossibilità biologica, per due maschi, di concepire un embrione e di condurre una gravidanza, si ricorre all’inseminazione di una donna utilizzata come gestante; alla nascita, questa dovrà per contratto cedere il neonato ai committenti. La pratica è resa possibile dalla tecnologia, quindi ancora una volta dalla cultura e dal pensiero, i quali vengono inoltre utilizzati per elaborare giustificazioni concettuali volte a legittimarla. Il tentativo di rendere accettabile tale pratica passa anche attraverso il linguaggio – strumento culturale per eccellenza – con l’uso di termini meno crudi, come “gestazione per altri” o addirittura “gestazione altruistica”. Anche quando è una coppia eterosessuale a ricorrere a questa pratica, si tratta sempre dell’esercizio del dominio maschile primitivo sul corpo femminile da parte di chi ha un potere economico schiacciante. In questi casi, la donna acquirente soggiace ai modelli di comportamento maschili e li fa propri, grazie alle giustificazioni che la mente umana è in grado di costruire.

In tutte queste forme di riproposizione in chiave moderna dell’arcaica dominanza maschile, il pensiero svolge un ruolo decisivo: esso veicola posizioni ideologiche storicamente consolidate, di cui garantisce il mantenimento, e allo stesso tempo ne costruisce di nuove, che possono diventare parte del bagaglio di una cultura. E’ sempre il pensiero che giustifica, legittima, trova spiegazioni, argomenta sulla normalità del dominio maschile, spesso con l’acquiescenza delle donne, non sempre consapevoli del loro atteggiamento di sottomissione. Paradossalmente, è la manifestazione ritenuta più elevata, distintiva, nobile e creativa della nostra mente (il pensiero), che emerge dalla parte più evoluta del nostro cervello (la neocorteccia), a fare i maggiori danni, alleandosi con le parti più primitive di noi, nell’interesse di alcuni uomini che difendono così il proprio potere di dominio sulle donne.

 

Prendere consapevolezza

Per superare questa situazione credo si debba prendere atto, anzi tutto, che abbiamo un corpo, realtà che non possiamo ignorare: negarne l’esistenza non ci aiuta risolvere i problemi di rapporto tra uomini e donne e non ci aiuta a trovare un maggiore benessere, che sarebbe invece possibile raggiungere, viste le nostre disposizioni di socialità positiva, biologicamente radicate. Di conseguenza, occorre superare le forti resistenze sia degli uomini sia delle donne, nella nostra cultura, a riconoscere le disposizioni biologiche primitive, per prendere consapevolezza della presenza di tendenze arcaiche di dominanza aggressiva nei primi e di sottomissione paurosa nelle seconde. Riconoscerle è il primo passo per non favorirle con il pensiero e la cultura. Infatti, prendere consapevolezza non significa giustificare, ma al contrario combattere meglio i rapporti di dominanza e sottomissione, svelando ciò che nella cultura e nell’esercizio del pensiero si allea con le nostre disposizioni arcaiche e disadattive e non con quelle all’uguaglianza, alla condivisione emotiva, alla cooperazione e all’altruismo. Gli uomini non sono necessariamente dei prevaricatori e dei violenti, ma possono diventare tali se non prendono coscienza delle tendenze arcaiche dentro di loro e di quanto la cultura spesso le favorisca, a scapito della socialità evoluta, specificamente umana, l’unica capace di dare benessere ai singoli e alla società. Le donne, a loro volta, non sono condannate per destino biologico alla sottomissione, ma possono facilmente subirla e accettarla se lasciano prevalere in loro l’arcaica disposizione alla paura, in presenza di una cultura che ostacola il riconoscimento delle relazioni paritarie.

Le disposizioni sociali proprie della nostra specie sono quelle egualitarie, di riconoscimento della comune umanità, di socialità positiva, di relazioni sessuali e affettive paritarie; dobbiamo quindi impegnarci perché la cultura si allei con queste e non con le tendenze al dominio aggressivo degli uomini sulle donne. Si tratta allora di lavorare, sia come individui sia come società, per una cultura che, interagendo con la nostra natura, favorisca l’emergere delle disposizioni sociative specificamente umane e in grado di far vivere bene sia gli uomini che le donne. E’ un compito che non avrà mai termine, poiché le disposizioni arcaiche non possono essere eliminate e tenderanno sempre a riproporsi in nuove forme e nuovi camuffamenti; esso ha però buone possibilità di successo, perché la nostra vera natura come esseri umani – questo lo possiamo dire con fondamento scientifico – non è quella dei rapporti di dominanza e sottomissione tra uomini e donne.

Silvia Bonino

 

 

Riferimenti bibliografici

Blundo C., Ceccarelli M. (2011). L’organizzazione gerarchico-funzionale del sistema nervoso centrale: lo sviluppo dei processi mentali. In C. Blundo. Neuroscienze cliniche del comportamento. Edra, Milano, pp. 89-121.

Bonino S. (2012). Altruisti per natura. Laterza, Roma-Bari.

Bonino S. (2019). Amori molesti. Natura e cultura nella violenza di coppia. Laterza, Roma-Bari.

Héritier F.  (1996). Masculin/Féminin. La pensée de la différence. Odile Jacob, Paris (trad. it. Maschile e femminile. Il pensiero della differenza. Laterza, Roma-Bari 1997).

Pazé V. (2023). Libertà in vendita. Il corpo fra scelta e mercato. Boringhieri, Torino.

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