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Macron transfobico?

26 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Chi la fa l’aspetti, verrebbe da dire. A forza di proclamare nuovi diritti, finisce che trovi uno che ne proclama più di te. E ti ritrovi a passare per reazionario-retrogrado-maschilista-nemico delle minoranze.

È quel che è successo a Emmanuel Macron la settimana scorsa, quando ha osato dire che la proposta del Fronte Popolare di sinistra di permettere il cambio di sesso/genere con una semplice visita agli uffici comunali era “grottesca” (ubuesque). Tanto gli è
bastato per finire alla gogna, con l’infamante (per un liberale come lui) accusa di transfobia.

Qui in Italia la vicenda è passata sostanzialmente sotto silenzio. Ma è più seria di quel che sembra. Non perché la proposta sia sensata, ma perché in mezza Europa appare tale. E domani il tema potrebbe prendere piede anche da noi.
Non tutti lo sanno, ma il cosiddetto self-id (ossia la possibilità di scegliere arbitrariamente il genere, anche se minorenni, e anche senza aver avviato un processo di transizione) è ormai legge in molti paesi del mondo, ricchi e poveri, europei e non
europei. Recentemente lo hanno adottato i governi socialisti della Spagna (Ley Trans) e della Germania (Selbstbestimmungsgesetz). Poiché il numero di paesi che introducono il self-id è crescente, e sempre più spesso include paesi che siamo abituati a considerare avanzati, se ne potrebbe ricavare l’impressione di un ordinario processo di modernizzazione, democratizzazione e civilizzazione, come quelli che negli ultimi 80 anni hanno allargato i diritti delle donne. Ma è un’impressione incompatibile con alcuni dati di fatto.

Intanto, bisogna notare che il tema del self-id è strettamente legato a quello della transizione di genere più o meno medicalizzata (bloccanti della pubertà, ormoni cross-sex, operazione chirurgica). Introdurre per legge la possibilità di cambiare precocemente sesso/genere (in alcuni paesi anche più di una volta) aumenta le probabilità che il cambio anagrafico sia l’anticamera di ben più impegnativi percorsi di transizione. Quindi il giudizio sulla sensatezza del self-id dipende anche da quello sulla sicurezza e
opportunità dei protocolli di “autoaffermazione di genere”. E tale giudizio, dopo il recente rapporto Cass e vari studi di revisione della letteratura scientifica, tende ad essere fortemente scettico verso tali protocolli, a partire dal cosiddetto “protocollo olandese”: al punto da indurre il Regno Unito a una precipitosa marcia indietro, in controtendenza rispetto a Spagna e Germania.

Un altro elemento di cui bisogna tenere conto è che, dove non si ascoltano solo le associazioni LGBT+ ma si fanno sondaggi sull’orientamento della popolazione, spesso emerge che la maggioranza dei cittadini è contraria al self-id, in contrasto con
l’orientamento favorevole delle élite politiche, economiche, culturali, mediatiche. È il caso, per fare un esempio recente, della Germania, dove pochi mesi fa il governo ha varato una legge per il self-id a dispetto dell’orientamento dell’opinione pubblica. A
giudicare dal tracollo dei partiti progressisti alle successive elezioni europee, si direbbe che gli elettori non abbiano gradito.

Ma l’elemento empirico fondamentale di cui tenere conto, quando si accusa Macron di transfobia, è che a schierarsi contro il self-id sono innanzitutto molte donne e le associazioni che le rappresentano. L’obiezione che sollevano è tanto semplice quanto
devastante per il progetto politico del self-id: se qualsiasi maschio può proclamarsi femmina, e tale auto-proclamazione ha pieno valore legale, che ne sarà degli spazi e delle speciali garanzie riservate alle donne? Questa obiezione non è teorica, ma parte dall’osservazione che, là dove il self-id è stato introdotto senza forti restrizioni, si sono moltiplicati i comportamenti opportunistici (e talora aggressivi) dei trans MtF, ossia dei maschi transitati a femmine: ex maschi che accedono agli spazi femminili nelle carceri, nei centri antiviolenza, nello sport, ma anche in politica (occupare quote rosa), o nell’accesso al
welfare (andare in pensione prima), o nelle politiche di assunzione (benefici fiscali per i posti femminili), e persino nel processo penale (evitare le aggravanti di pena previste per le aggressioni maschili).

E poi c’è la ciliegina finale. In Germania, dove cresce il timore di un conflitto armato con la Russia, si guarda con preoccupazione a quel che è accaduto in Svizzera, dove un giovane maschio ha evitato il servizio militare sfruttando il self-id. Se molti
maschi tedeschi ne abusassero, la Germania potrebbe essere costretta a mettere restrizioni al self-id, o a introdurre la coscrizione obbligatoria per le donne.

Macron transfobico? Forse solo femminista.

[Articolo uscito sulla Ragione il 25 giugno 2024]

Elezioni francesi – L’occasione di Marine Le Pen

22 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Credo sia accaduto raramente, in Europa, che un appuntamento elettorale in un singolo paese attirasse tanta attenzione anche negli altri. È quello che sta succedendo con le elezioni francesi, che si svolgeranno in due turni, il 30 giugno e il 7 luglio.

Un motivo di interesse è sicuramente il fatto che la posta in gioco è simile, anche se non identica, a quella su cui si sta scommettendo a livello europeo, in questi giorni di grandi manovre per la scelta della Commissione e l’attribuzione degli incarichi più importanti: riusciranno le forze anti-destra a contenere l’avanzata delle destre, e a perpetuare la conventio ad excludendum che finora – in Francia come a livello europeo – è sempre riuscita ad escluderle dal potere?

In Europa, la questione riguarda l’inclusione nel perimetro della maggioranza dei riformisti conservatori (ECR) di Giorgia Meloni, che molti si ostinano a considerare una forza estremista, anti-europea, che deve ancora fare i conti con il fascismo. Il problema si pone perché l’elettorato ha premiato le forze di destra, ma i voti ECR non sono strettamente necessari per formare la nuova maggioranza che guiderà l’Europa.

In Francia la questione è più complessa, perché le poste in gioco sono almeno due, una a breve, l’altra a medio periodo. A breve, c’è l’esito delle imminenti elezioni dell’Assemblea Nazionale, che potrebbe consegnare il governo al partito di Marine Le Pen. A medio termine, incombono le elezioni presidenziali del 2027, che potrebbero essere vinte da Marine Le Pen. Un’eventualità tutt’altro che remota, se pensiamo che alle ultime presidenziali (nel 2022), aveva ottenuto il 41.5%, e da allora il suo partito – il Rassemblement National – ha quasi raddoppiato i consensi, passando dal 18.7% delle Legislative 2022 al 31.4% delle ultime Europee.

Ma le elezioni francesi sono interessanti anche per altri motivi, più strettamente politici.
I sondaggi dicono che, al primo turno, Marine le Pen e alleati dovrebbero ottenere circa il 33% dei consensi, Macron e i centristi circa il 18%, il Nuovo Fronte Popolare di sinistra (che include sia i socialisti di Glucksmann, sia i populisti di Mélenchon), circa il 28%. In concreto, questo significa che al secondo turno – quello che deciderà effettivamente chi verrà eletto e chi no – accederanno quasi esclusivamente candidati di estrema destra (sotto le insegne del Rassemblement National della Le Pen), e
candidati di sinistra (sotto le insegne del Nuovo Fronte Popolare che, oltre a socialisti e populisti, include comunisti ed ecologisti).

E qui sorge il problema politico. Nel Nuovo Fronte Popolare la forza largamente egemone è La France Insoumise (la Francia ribelle), il partito di Mélenchon, che di fatto è percepito come una formazione di estrema sinistra, con tratti populisti, sovranisti e anti-europei. Già questo pone qualche problema all’elettorato moderato, che non ama Marine Le Pen, ma nemmeno è incline a sostenere l’estrema sinistra di Jean Luc Mélenchon. Nei collegi, e non saranno pochi, in cui il Fronte Popolare dovesse essere rappresentato dal partito di Mélenchon, parte dei centristi potrebbero anche preferire l’astensione, e così favorire il successo della Le Pen.

Ma il vero problema, per il progetto “repubblicano” di sbarrare la strada a Marine Le Pen, è ancora un altro. Negli ultimi mesi, e segnatamente dopo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, sia il partito di Mélenchon sia quello di Le Pen hanno subito due
vere e proprie mutazioni. Il partito di Mélenchon si è rifiutato di condannare l’atto terroristico di Hamas, e ha accentuato sempre più il suo profilo “immigrazionista”, che punta ad allargare le maglie dell’accoglienza, anche attraverso il controverso concetto di “rifugiato climatico”. Una mossa, quest’ultima, che gli sta attirando durissime critiche dalla stampa conservatrice, ma anche da parte di Emmanuel Macron, che pure dovrebbe essergli alleato nella crociata contro la Le Pen. Simmetricamente, Marine le Pen ha invece condannato senza esitazione la strage di Hamas, e pochi mesi fa ha appoggiato la mossa di Macron di mettere in Costituzione il diritto all’interruzione di gravidanza.

Il risultato è che Marine Le Pen e il suo partito, ora guidato anche dal giovane Jordan Bardella, appaiono molto più digeribili di quanto lo fossero anche solo un anno fa. Il contrario di quel che sta capitando a Jean Luc Mélenchon, costretto a difendersi sia
dalle accuse di “immigrazionismo” mossegli da Macron, sia da quelle di antisemitismo provenienti dalla comunità ebraica. Il tutto complicato, nelle ultime ore, da un episodio – lo stupro di una ragazzina dodicenne ebrea a motivo del suo essere ebrea – che ha riportato al centro dell’attenzione il problema dell’antisemitismo e della sua diffusione nelle comunità islamiche in Francia.

La strada di Marine Le Pen, naturalmente, resta in salita come sempre. Ma il fatto che Macron sia in campagna elettorale contro Mélenchon, e quest’ultimo sia esposto alle accuse di anti-semitismo, fanno pensare che la partita sia aperta. Molto aperta.

[articolo uscito sul Messaggero il 21 giugno 2024]

Europa al bivio?

14 Febbraio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Mancano meno di 4 mesi al voto europeo, ma quasi nessuno pare interessarsene più di tanto. Eppure, forse per la prima volta, si incrociano tre circostanze cruciali. La prima è che, sul tavolo, c’è una posta di enorme impatto macro-economico e sociale: il futuro del Green deal. Secondo, si tratta di una questione su cui l’opinione pubblica è profondamente divisa, anche se in questo momento – a fronte della protesta degli agricoltori – pare emotivamente schierata da una parte, quella dei frenatori della transizione verde. Terzo, mai come oggi l’esito finale del voto è stato incerto.

Parlo di esito finale perché, come sempre in un regime parlamentare proporzionale, l’esito del voto è un “missile a due stadi”, dove il primo stadio è l’esito del voto in termini di composizione del parlamento, mentre il secondo è il tipo di maggioranza cui le forze in campo decideranno di dar luogo.

Storicamente, questo secondo stadio è sempre stato poco problematico, perché – alla fine – si è sempre trovata una quadra puntando su una sorta di Grosse Koalition, ossia sulla santa alleanza fra i tre gruppi più numerosi e più europeisti (socialisti, liberali, popolari/conservatori), talora puntellati da forze euroscettiche più o meno decisive. Quel che poteva cambiare, era solo che l’equilibrio pendesse leggermente più a destra o leggermente più a sinistra, ma la sostanza era sempre quella.

Ebbene, non è detto che lo schema si ripeta. A suggerire cautela sono i sondaggi degli ultimi mesi condotti nei paesi più popolosi, ovvero Germania, Francia e Italia. In Germania, il vento soffia nelle vele della Afd (Alternative für Deutschland), partito di destra anti-immigrati, che alle ultime politiche aveva ottenuto il 10% ma oggi è dato in prossimità del 24%. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è in crescita ed è dato intorno al 28%. In Italia il partito di Giorgia Meloni, che aveva pochi seggi in Europa, si avvia a rimpiazzare quello di Salvini, che – con il 34% dei consensi – ne aveva conquistati tantissimi. Complessivamente, i due gruppi di destra del Parlamento Europeo – ECR e ID – dovrebbero guadagnare un numero considerevole di seggi.

Contemporaneamente, i partiti della coalizione che governa l’Europa appaiono in difficoltà. In Francia, perde colpi Macron, in Germania i Popolari, in Italia Forza Italia. I Verdi sono in crisi quasi ovunque in Europa, e i sondaggi prevedono una drastica riduzione dei loro seggi al Parlamento Europeo. Quanto ai socialisti, molto dipenderà dalle alleanze, scissioni e ricomposizioni in atto in Francia e Germania, soprattutto quanto alla capacità di attirare o mantenere il voto degli elettori progressisti ma anti-immigrati. In Francia questo tipo di voto è intercettato soprattutto da La France Insoumise di Jean Luc Mélanchon, che non è chiaro se afferirà ai socialisti o all’estrema sinistra. In Germania, proprio per trattenere il voto anti-immigrati è nato poche settimane fa un partito di estrema sinistra – la BSW di Sahra Wagenknecht – che potrebbe sottrarre voti ai socialisti del premier Olaf Scholtz.

In breve, nel prossimo parlamento europeo dovremmo assistere a un significativo ridimensionamento della attuale maggioranza popolari-liberali-socialisti, a un crollo dei Verdi, e a una avanzata dei due gruppi di destra, uno dei quali potrebbe diventare il terzo raggruppamento, dopo i Popolari e i Socialisti.

L’ipotesi tuttora più verosimile è che si ricostituisca la vecchia maggioranza, eventualmente puntellata dai Cinque Stelle, come l’attuale “maggioranza Ursula”. Ma, ove tale maggioranza non ci fosse, o fosse troppo risicata, non si possono escludere due scenari alternativi, divisi essenzialmente dall’atteggiamento verso la transizione ecologica.

Nel primo, la maggioranza potrebbe allargarsi al gruppo ECR, guidato da Giorgia Meloni, e (quasi sicuramente) rimpolpato dall’ingresso di due partiti decisamente controversi, Fidesz dell’ungherese Orban e Reconquête del francese Éric Zemmour. Nel secondo scenario, l’allargamento avverrebbe invece verso i Verdi, a dispetto del loro quasi certo declassamento da terza a quinta forza del Palamento europeo (in quanto scavalcati da ECR e ID).

Difficile immaginare due scenari più antitetici. Nel primo, assisteremmo a un ridimensionamento e a una decelerazione della transizione verde, in sintonia con le richieste del mondo agricolo. Nel secondo, a un rilancio in grande stile del Green Deal, in barba alle rassicurazioni della attuale Commissione. E checché ne pensi la mucca Ercolina seconda.

Perché non festeggio la vittoria di Macron

26 Aprile 2022 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Se avessi la cittadinanza francese, avrei votato anch’io per Emanuel Macron ma non mi associo ai festeggiamenti per la sua vittoria. Macron, infatti, è poco amato dai Francesi, ha uno scarso seguito e solo lo spettro del presunto sovranismo lepeniano (sovranismo sta per fascismo) lo ha riportato all’Eliseo. Mi chiedo, allora, ma che democrazia è quella in cui vince solo chi rimane l’unico candidato presentabile in campo perché l’avversario politico non è considerato un avversario ‘normale’ ma un nemico, l’incarnazione di Satana?

Ho un terribile sospetto: che le sinistre di governo, perdenti su tutta la linea (gli operai francesi hanno votato per Marine), abbiano trovato il modo di rimanere per sempre in sella. Basta evocare ‘Annibale alle porte’ per ottenere un’assicurazione sulla vita ovvero una facile maggioranza elettorale. Non a caso leader postcomunisti che non hanno nessun serio e realistico progetto in mente, che sono a rimorchio, in Italia e in Europa, dei ‘poteri forti’, dedicano tutte le loro energie alla demonizzazione dei ‘populisti’, sostenuti da giornali che sono ‘fogli d’ordine’ al servizio dello squadrismo intellettuale che caratterizza ormai gran parte della political culture — forse non soltanto nel nostro paese.

Un giornalista non certo wertfrei come Gianni Riotta, in un articolo del 22 aprile, Tribalisti contro globalisti (“la Repubblica”) si è quasi compiaciuto per il fatto che alla divisione tradizionale ‘destra/sinistra’ si sia sostituita quella tra patrioti, “rinchiusi in confini ancestrali”, e globalisti “che guardano al mondo”. Nessun sospetto che mettendo, da una parte, gli ”scalmanati che detestano emigranti, culture e identità diverse”, i nostalgici dello “Strapaese italiano, del protezionismo economico” gli odiatori della “ cultura digitale delle piattaforme sociali” e, dall’altra, i cittadini responsabili e assennati, che non hanno paura della globalizzazione ma la giudicano un’opportunità, non stia descrivendo il mondo ma stia facendo il ritratto di Dorian Gray, allo scopo di mettere in guardia contro gli appestati. E’ la fine della dialettica politica e dello stesso spirito — tante volte chiamato in causa retoricamente — dell’Occidente, impensabile senza la consapevolezza che, nel conflitto politico e sociale, ci sono ‘verità’ sia in uno schieramento che nell’altro.

Che dialogo ci può essere, infatti, tra i ‘virtuosi’ globalisti, esaltati da Riotta, e i perversi ‘tribalisti’? I primi, a suo dire, hanno contribuito “a sradicare la miseria da sterminati Paesi ma contraendo lo status di ceti medi e lavoratori” e tuttavia solo loro sanno come porvi rimedio e come si possa essere “veri patrioti, sereni della propria identità, lingua, classici, tradizioni” ma “curiosi di incrociarla con altri, senza paure o nevrosi”. Insomma tutti i civilizzati sulla stessa barca e i barbari buttiamoli pure in mare. Non può esserci vera partita tra il Bene e il Male giacché il secondo va espulso (almeno moralmente) dal campo di gioco.

In realtà, in una vera democrazia liberale quanti competono per il potere non si dividono in eletti, da una parte, e dannati, dall’altra. Se i secondi ottengono voti, vuol dire che vengono incontro a interessi, bisogni, paure — ossessioni, se si vuole — che sono da tenere in seria considerazione giacché si  richiamano pur sempre a valori diversi ma tutti  in sé rispettabili (anche se i modi per metterli in pratica trasformano il vino in aceto). In una società aperta, non si vince mai per ko ma solo ai punti. Avrei preferito Macron a Le Pen non perché la seconda è una creatura satanica (come credono al ‘Foglio’) ma perché, pur non nascondendomi le poche buone ragioni del Rassemblement National, il Presidente uscente mi dava più affidamento in politica estera, oggi divenuta di cruciale, drammatica, importanza.

Sono disposto ad ammettere che i populisti e i sovranisti italiani — per i quali non ho mai votato —ingenerino non poche riserve ma i loro avversari sono forse migliori? Discendono dai lombi di Cavour, di Giolitti, di De Gasperi? Ormai persino nei salotti liberali fare i nomi di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni è come fare il nome di Silvio Berlusconi negli stessi salotti di trent’anni fa. Non parliamo dei Dipartimenti universitari. Se si chiede, però, quali battaglie sovraniste sono intollerabili per un paese civile — quando non si tirano in campo le solite politiche di limitazione delll’immigrazione, ribadite  da Trump come da Biden, che non ha tolto un mattone dal muro fatto  costruire dal primo — si ottengono risposte vaghe e generiche che alludono a presunti razzismi (sull’antirazzismo leggere il grande Pierre-André Taguieff), alla persecuzioni dei ‘diversi’, alla bocciatura — che peraltro ho salutato con un sospiro di sollievo–della  legge Zan, all’apologia di fascismo (che spesso consiste nel riproporre verità scontate per la storiografia revisionista). Vero è che lo snobismo etico-estetico con cui si guarda alla destra italiana ha una sua funzione precisa: quella di farci sentire parte di una ‘comunità di linguaggio’ che ci consente di venir tollerati (se si è liberalconservatori) nei circoli che contano.

Commento a Emanuele Felice. E dei rottamati sociali che ne facciamo?

18 Dicembre 2018 - di Dino Cofrancesco

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Un osservatore acuto e attento delle cose italiane, Emanuele Felice, ha scritto un articolo, Serve un’idea di società (‘Repubblica’ 12 dicembre u.s.) che, come spesso accade, ha un incipit realistico e convincente che, però, quasi subito si perde nelle nebbie della retorica dei ‘buoni sentimenti’.   Leggi di più

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