Il governo della continuità

Non passa giorno senza che gli esponenti dell’esecutivo gialloverde sottolineino la sua radicale discontinuità con il passato. Talora cadono nel ridicolo (“stiamo scrivendo la storia”), talora più sobriamente dichiarano che quel che fanno è completamente diverso dal passato, e che il loro è il “governo del cambiamento”. Ma è così?
Per certi versi sì, suppongo. Intanto perché in Italia il clima è cambiato. Con la consueta cecità, intellettuali, scrittori e artisti credono che il nuovo governo susciti razzismo e xenofobia, mentre quel che succede è molto più banale: la gente pensa più o meno quel pensava già prima, con la cruciale differenza che ora si sente autorizzata a dire quel che pensa. E’ esattamente quel che accadde 25 anni fa con la vittoria di Berlusconi, alle Politiche del 1994. Ricordo come fosse ieri un Consiglio di Facoltà in cui il preside, noto storico antifascista, ci gridava “in Italia sta tornando il fascismo”, mentre quel che era successo, anche allora, era ben più banale: le persone di destra, che erano sempre esistite in Italia, ora ritenevano di poterlo dichiarare, senza tema di scomuniche.
Se poi guardiamo al futuro, nessuno può escludere a priori che il governo Salvini-Di Maio venga ricordato come il governo del cambiamento, o in chiave positiva (se la flat tax dovesse far ripartire l’economia), o in chiave negativa (se il dissesto dei conti pubblici dovesse far precipitare l’Italia in una situazione greca, turca, o argentina).
Ma se restiamo all’oggi? Se ci limitiamo ai provvedimenti concreti, a ciò che il governo ha già fatto o si appresta a fare con la prossima legge di bilancio?
Beh, se stiamo alla bassa cucina della politica e dell’economia io vedo più continuità che rottura con i due ultimi governi.
Come il governo Renzi, anche il governo gialloverde ha iniziato annunciando provvedimenti simbolici contro la cosiddetta casta. Allora si vendevano come “lotta agli sprechi” misure di scarsissimo impatto macroeconomico quali la rottamazione delle auto blu e la riduzione del numero di parlamentari, ora si fa lo stesso identico gioco con il taglio dei vitalizi dei parlamentari e la smobilitazione del cosiddetto “Air Force Renzi”, l’aereo presidenziale voluto dal “ragazzo di Rignano”.
Come tutti i governi precedenti, anche questo preferisce lottizzare la Rai piuttosto che mettere sul mercato una o due reti. Per non parlare delle nomine nei posti chiave dello Stato, dove le appartenenze e le fedeltà politiche continuano a giocare un ruolo chiave.
Quanto ai migranti, la riduzione degli sbarchi è in gran parte merito (o demerito, per alcuni) del ministro Minniti e degli organismi internazionali (Unione Europea e Onu), cui si devono gli accordi con la Libia e l’apertura dei primi corridoi umanitari per entrare in Europa legalmente, senza la pericolosa traversata del Mediterraneo.
Ma è sulla politica economica che, almeno a prestar fede alle importanti dichiarazioni del ministro Tria, la continuità è quasi perfetta.
Gli 80 euro di Renzi vengono confermati. Il decreto dignità sposta pochissimo, e quel poco che sposta in parte è in contrasto con la filosofia del Jobs Act (più rigidità sui rinnovi dei contratti), in parte è in sintonia (reintroduzione dei voucher), come si capisce dalle critiche – di segno opposto – che arrivano dalla Cgil e dalla Confindustria. Del resto è stato lo stesso Tommaso Nannicini (economista Pd) a dichiarare che il decreto dignità lascia il Jobs Act “sostanzialmente intatto”. Forse è troppo ottimista (una modesta frenata occupazionale non è da escludere), ma in ogni caso non siamo di fronte a una restaurazione, a un ritorno a prima del Jobs Act.
Come negli anni passati, il cardine della manovra è il disinnesco di qualche clausola di salvaguardia ereditata da governi precedenti (in questo caso l’aumento dell’Iva). E poi ci sono tante piccole cose, più o meno le solite. Un po’ di alleggerimento delle tasse sulle imprese (ieri l’Irap, oggi il regime fiscale delle partite Iva); un rafforzamento del reddito di inclusione (misura caldeggiata dal Pd), prontamente ridenominato “reddito di cittadinanza”; qualche limatura delle spese, sotto al pomposa etichetta della lotta agli sprechi.
Persino sulle grandi opere, Tav e Tap, e sulle grandi crisi aziendali, Ilva e Alitalia, potrebbe esserci continuità più che rottura. E’ possibile che, alla fine, per la maggior parte di esse si assista solo a un ennesimo rallentamento dei processi decisionali, più che a uno stop definitivo, di nuovo in sostanziale continuità con la lentezza dei governi precedenti.
E infine il debito. I governi di Renzi e Gentiloni, nonostante la ripresa, si sono ben guardati dal ridurre il rapporto debito-pil o l’indebitamento netto strutturale, preferendo chiedere ogni anno nuovi margini di flessibilità per poter continuare a spendere in deficit. Esattamente quel che intendono continuare a fare i nuovi governanti, decisi ad andare in Europa a negoziare qualche concessione in materia di spesa pubblica e di investimenti.
Se il ministro Tria dice il vero, alla fine ci troveremo con il solito aumento del debito pubblico, un rapporto debito-pil sostanzialmente invariato, un deficit ampiamente al di sotto del 3%, ma altrettanto ampiamente al di sopra degli obiettivi fissati dall’Europa, che come si sa non pretende solo il rispetto del 3%, ma la progressiva discesa verso il pareggio di bilancio. Insomma la solita manovra da 25-30 miliardi, con spostamenti di pochi decimali nell’allocazione delle risorse e dei costi.
Tutto bene, dunque?
Niente affatto. Se il fatto che il governo, grazie al ruolo assunto da Tria, si muova con prudenza e gradualismo non può che rassicurarci, non possiamo d’altra parte ignorare i segnali che arrivano dai mercati finanziari. Che sono tutti negativi: capitali in fuga dall’Italia, borsa fragile, spread dei titoli di Stato in aumento. E si noti che l’aumento dei rendimenti non è solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Spagna, al Portogallo, e persino alla Grecia. Non era mai successo, nemmeno nel 2011, che i titoli di Stato italiani fossero i più cari dell’Eurozona dopo quelli della Grecia. Oggi il rendimento dei titoli italiani sfiora il 3%, quello dei titoli greci oscilla intorno al 4%, mentre Portogallo e Spagna (gli altri due Pigs mediterranei) sono entrambi nettamente sotto il 2%.
Ecco perché la prudenza del ministro Tria potrebbe non bastare. L’esperienza del passato dovrebbe aver insegnato che il destino di un paese dipende molto di più dalla sua capacità di rassicurare i mercati che dalla sua capacità di ingraziarsi le autorità europee. E’ già successo nel 2011, quando la manovra Tremonti ricevette le lodi dell’Europa e due settimane dopo venne fatta a pezzi dai mercati. Potrebbe risuccedere nei prossimi mesi, se agli investitori l’Italia cominciasse a sembrare un mercato ancora meno appetibile di quanto appare oggi.
Oggi questo è il vero pericolo, per il nostro paese. Un pericolo rispetto al quale le forze politiche avrebbero il dovere di vigilare, senza guardare al proprio piccolo tornaconto elettorale. Vale per chi ci governa, ma vale anche per l’opposizione. Perché anche su questo, sul rischio di un’impennata dello spread, la continuità è impressionante. Contrariamente a quel che molti credono, il deterioramento dei differenziali fra l’Italia e gli altri paesi dell’euro, in particolare Spagna, Portogallo e Grecia, non è iniziato il 4 marzo, ma oltre un anno prima, più o meno in concomitanza con la sconfitta referendaria e il passaggio del testimone da Renzi a Gentiloni.
Ancora un segno di continuità, o forse il vero tratto distintivo, il marchio di fabbrica, del ceto politico degli ultimi cinquant’anni: diviso su tutto ma, con pochissime eccezioni, assolutamente unito nella scelta di non contrastare la crescita del debito pubblico.

Articolo pubblicato su Il Messaggero l’11 agosto 2018



I poveri votano a destra, i ricchi a sinistra

Che il voto del 4 marzo, e quelli successivi nelle elezioni amministrative, sia stato un voto di protesta, di alterità verso la “casta”, contro l’establishment, e contro i governi che hanno coinvolto il Pd, dal 2011 ad oggi, ci sono pochi dubbi. E le motivazioni che hanno condotto verso questo comportamento elettorale ce ne hanno dato ampia conferma; sulle cause del successo della Lega c’è una sostanziale omogeneità di pensiero: il traino decisivo è giudicato unanimemente la volontà leghista di combattere efficacemente i problemi di insicurezza derivanti dai postumi della crisi economica, dall’immigrazione incontrollata e dall’aumento, in generale, del clima di pericolosità sociale.

La parole d’ordine di tipo economico-occupazionale, e fiscale, le battaglie sulla legittima difesa e per un controllo più duro nei confronti dei clandestini sono state fondamentali per l’avanzata elettorale del partito di Salvini in tutte le aree settentrionali e centrali del paese, anche in zone dove nel passato la Lega (Nord) era elettoralmente inesistente. E per il suo successivo radicamento, fino a farla diventare, oggi, la forza politica con i consensi più elevati nelle dichiarazioni di voto raccolte nelle ultime indagini demoscopiche, superando il Movimento 5 stelle.

Anche i motivi prevalenti del successo pentastellato possono essere individuati nella volontà di “mandare a casa” la vecchia classe politica, per cambiare radicalmente le politiche pubbliche. Per un nuovo inizio: un orientamento che accomuna le tendenze più diffuse nell’elettorato italiano, dal nord fino al sud del paese. Hanno per questa ragione avuto successo le due forze politiche che maggiormente si fanno paladini della volontà di cambiamento, assieme alle due tematiche ricordate, il rifiuto delle vecchie modalità di fare politica e, soprattutto, il bisogno di maggior sicurezza economica e sociale.

Da questi elementi è nato nel giugno scorso il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, un esecutivo che gode attualmente di un consenso talmente elevato, vicino al 70% della popolazione italiana, che sarà difficile nei prossimi mesi immaginare una opposizione capace di contrastarlo efficacemente. Anche perché, tralasciando l’indubbia capacità comunicativa del leader leghista, il motivo più profondo del favore per il governo è che gli elettorati delle diverse forze politiche sono attenti alla risoluzione di problemi piuttosto differenti tra loro. Per l’elettorato di sinistra (o di centro-sinistra), le cose più urgenti da risolvere sono il tema del lavoro e quello dell’insorgente razzismo nel nostro paese, veicolato dai costanti proclami di Salvini stesso. Per gli elettori di centro-destra (e della Lega in particolare) sono invece: l’immigrazione, più o meno clandestina, le tasse e la sicurezza, insieme ovviamente agli effetti della crisi economico-occupazionale.

Ancora differente è la gerarchia degli elettori pentastellati, tra cui soltanto il tema del lavoro tende ad essere egemonico, mentre gli altri problemi non sono considerati rilevanti. Ora, dal momento che l’occupazione, la creazione di nuovi posti di lavoro, la crescita dell’economia, la messa a punto di un quadro di efficace regolamentazione del frastagliato mondo del lavoro (e, se vogliamo, lo stesso problema del razzismo) sono tutte cose che non possono avere una rapida risoluzione, va da sé che la comunicazione di Salvini, così presente e costante, riesca in questo momento a convogliare su di se, e sul suo partito, una crescente quantità di potenziali elettori, cui egli si rivolge.

Durerà nel tempo? Suppongo di sì, perché il suo discorso tocca le corde giuste della popolazione, molto più delle argomentazioni di Di Maio e molto molto di più di quelle della sinistra e del Partito Democratico. Soprattutto perché i destinatari di questa comunicazione e di queste proposte politiche sono in particolare i settori sociali maggiormente in difficoltà, sia dal punto di vista economico che da quello sociale, e che sono certo quelli numericamente più numerosi nel nostro paese, dopo le crisi dell’ultimo decennio. E trovano nelle forze politiche oggi al governo, i 5 stelle ma soprattutto la Lega, un elevato livello di attenzione proprio nei loro confronti.

Non a caso i motivi che, secondo gli elettori italiani, hanno portato alla sconfitta del Partito Democratico, nonostante il premier Gentiloni non fosse così malvisto nemmeno dagli elettori leghisti e pentastellati, risiedano principalmente sull’incapacità del Pd di pensare (anche) ai cittadini con problemi economici e sociali. Viene sottolineato ancora una volta come le proposte e le politiche della sinistra o del centro-sinistra siano percepite – da chi non li vota – come più vicine alla società più garantita, quella dei ceti medi o medio-alti, mentre la fascia più debole della popolazione non viene tenuta in sufficiente considerazione. E il buon successo elettorale in alcune delle aree più benestanti del paese ne è una indiretta conferma, mentre i leader e gli stessi elettori della sinistra non paiono rendersene pienamente conto.

Un’analisi empirica che mette in relazione, a livello comunale, le scelte di voto ed il reddito pro-capite dei cittadini lombardi mostra in maniera evidente quanto è stato finora argomentato. La correlazione tra il voto al centro-sinistra e la ricchezza pro-capite appare significativamente alta e positiva (con un coefficiente pari a +0.45): all’incremento del reddito si incrementa anche la percentuale di consensi aggregata (Partito Democratico + LeU + Potere al Popolo) per le formazioni di sinistra; risulta al contrario negativa (r = -0.52) la stessa correlazione con i partiti di centro-destra, mentre non è significativa – benché con un segno positivo –  la correlazione tra voto ai 5 stelle e il reddito pro-capite.

Mentre nei comuni della provincia di Milano nessuna delle correlazioni, per nessuna delle formazioni politiche, appare significativa, e occorre quindi operare un’analisi più approfondita, esse sono non a caso particolarmente accentuate nelle province pedemontane (Brescia, Bergamo, Sondrio, Varese, Como e Lecco), vale a dire nelle maggiori roccaforti della Lega e del centro-destra, con coefficienti (negativi) che si avvicinano a 0.60. Come dire: più i comuni sono poveri, più si vota Salvini; più sono ricchi, più si vota Partito Democratico.




Decreto dignità?

Non so se sia vero che nella predisposizione del “decreto dignità” abbia avuto un ruolo significativo la Cgil. Certo l’ipotesi non è inverosimile, vista l’impostazione del decreto nella parte che riguarda il mercato del lavoro. Non entro qui nei dettagli (lo ha già fatto ottimamente ieri (3 luglio ndr) Oscar Giannino su questo giornale), se non per ricordare che il decreto rende la vita più dura alle imprese sia sotto il profilo dei costi sia sotto quello della flessibilità. E infatti il governo è stato sommerso dalle proteste delle associazioni delle imprese, comprese quelle piccole che il partito di Di Maio tanto aveva corteggiato in campagna elettorale.

L’impressione è che il Movimento Cinque Stelle, recuperando alcune idee della sinistra dura e pura, stia cercando di allargare il proprio consenso verso l’elettorato progressista, sottraendo consensi sia a Leu sia al Pd, i cui elettori non sono tutti entusiasti del Jobs Act. Del resto un certo collateralismo fra una parte del mondo sindacale e i Cinque Stelle non è una novità di oggi, sia a livello locale sia a livello nazionale. Quali che siano le intenzioni dei Cinque Stelle, sta di fatto che il Pd è stato preso in contropiede dall’iniziativa di Di Maio, come si vede bene dalle prime dichiarazioni, che oscillano fra la drammatizzazione (il decreto “farà diminuire l’occupazione ovunque”) e la minimizzazione (il decreto “non cambia niente”, perché “l’impianto del Jobs Act non viene neanche scalfito”).

Come spesso accade, credo che la verità stia nel mezzo. Dire, come ha fatto il capo dei Cinque Stelle, che il decreto dignità è “la Waterloo del precariato” è semplicemente ridicolo. Il precariato in Italia è fatto di circa 6 milioni di posti di lavoro, abbastanza equamente suddivisi fra 3 milioni di regolari (quelli contro cui combatte il “decreto dignità”) e altri 3 milioni in nero (quelli di cui nessuno intende occuparsi). E’ ragionevole pensare che il principale effetto del decreto sarà un aumento della quota in nero del lavoro precario, piuttosto che l’inizio di una serie di trasformazioni di posti a tempo determinato in posti stabili. Quanto alla ventilata diminuzione dell’occupazione, anch’essa mi pare un’esagerazione: la crescita dei posti di lavoro rallenterà un po’, ma se si fermerà sarà per altri motivi, non certo a causa del decreto dignità.

Quel che mi colpisce, tuttavia, non è tanto l’apparente ingenuità della promessa di sconfiggere il precariato, quanto la diagnosi che sembra star dietro le prime mosse del governo in materia economica. L’idea che 3 milioni di posti di lavoro a tempo determinato ma regolari, pari al 17% degli occupati dipendenti, siano un dramma, un’anomalia assoluta, o addirittura la priorità fondamentale in campo economico-sociale, è piuttosto bizzarra. Se si dà un’occhiata alla situazione nell’Unione Europea si vede che non è certo il precariato il nostro problema: la nostra posizione in graduatoria è a centro classifica, facciamo peggio di Germania e Regno Unito, ma meglio di Francia e Spagna, giusto per stare ai quattro grandi paesi con cui di solito si fanno le comparazioni. Il nostro vero problema, semmai, è il numero di posti di lavoro, specie nella componente giovanile: fra i paesi Europei solo la Grecia ha un tasso di occupazione totale più basso del nostro.

Ma c’è anche un altro aspetto che lascia perplessi nella filosofia del decreto dignità. Il pugno duro contro i contratti a termine pare ignorare un aspetto cruciale del funzionamento del mercato del lavoro in Italia, ovvero il fatto che la percentuale di posti di lavoro regolari ma a termine (oggi vicina al 17%) si muove in sincronia con il ciclo economico: quando l’economia tira aumenta il peso dei contratti temporanei, quando l’economia va male aumenta il peso dei contratti stabili. Un aumento del tasso di occupazione a termine può non piacerci, ma è anche il segno di un’economia che cresce, mentre un aumento del tasso di occupazione stabile può rallegrarci, ma è anche il segno che il ciclo economico sta perdendo colpi: nella grande recessione del 2008-2009 il tasso di occupazione precaria era in diminuzione, ma non era certo una buona notizia. Da questo punto di vista l’attuale impetuoso aumento del numero di posti di lavoro a termine andrebbe, quantomeno, guardato come una moneta a due facce, negativa sul versante delle tutele, ma positiva su quello dei livelli occupazionali.

Tornando al punto centrale, ovvero gli effetti prevedibili del decreto dignità, credo che essi saranno essenzialmente tre. Il primo, ovvio per chi guarda il mercato del lavoro senza lenti ideologiche, è di rallentare la formazione di nuovi posti di lavoro. Il secondo effetto è di convincere le autorità Europee che l’Italia è entrata in un’era di contro-riforme, e quindi non merita ulteriori concessioni sul versante della flessibilità di bilancio (da questo punto di vista enfatizzare l’entità della retromarcia sul Jobs Act è semplicemente autolesionistico).

Il terzo effetto è più sottile, ma non meno importante. Se questo decreto indica la strada che si intende percorrere anche in futuro, dobbiamo aspettarci che il mito del reddito di cittadinanza finisca per rivelarsi una sorta di profezia che si autorealizza. A forza di misure che, in nome dei diritti dei lavoratori, mettono sabbia negli ingranaggi dell’economia, la formazione di posti di lavoro potrebbe prima rallentare e poi diventare negativa, e così convincere gli elettori che l’unica strada sia il reddito di cittadinanza: in un paese in cui il lavoro non c’è, non resta che dare un reddito a tutti, che lavorino o no.

Ecco perché ci andrei piano, con l’espressione “decreto dignità”: in Italia c’è ancora moltissima gente che un reddito preferirebbe guadagnarselo, piuttosto che ricevere un sussidio grazie alla benevolenza del Principe.




I due elettorati del nuovo governo

Dopo il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, e l’avvio nel giugno 2018 di quella inedita collaborazione, gli analisti hanno cercato di comprendere se e quanto le due forze politiche protagoniste dell’intesa avessero decisivi elementi in comune, dal punto di vista del programma e delle scelte politiche che intendevano effettuare in questo loro primo cammino comune. Elementi che, se presenti, potessero effettivamente prefigurare la formazione di un’alleanza più stabile, al di là delle esigenze più contingenti di dotare il nostro paese di un esecutivo dotato di una forte maggioranza parlamentare, e potesse dunque durare nel tempo, prendendo la forma di una proposta politica unitaria.

All’indomani della consultazione elettorale del 2018, era stato sottolineato come il bipolarismo M5s-Lega avrebbe potuto divenire una originale frattura politica: da una parte una nuova destra “sociale”, che cerca di porre un freno, almeno contingente, a mutamenti epocali, che non possono peraltro essere fermati con qualche provvedimento estemporaneo; dall’altra un movimento di “cittadini”, che si presenta quasi come una sommatoria di proposte mono-tematiche, aliena nel contempo di un progetto complessivo di società, di nuove regole economiche e di welfare. Sarà questa la contrapposizione futura del nostro paese, si chiedevano in molti? o non assisteremo al contrario a ciò che numerosi commentatori ipotizzano, vale a dire una frattura elettorale tra i cosiddetti “sovranisti” e gli “europeisti”? Una netta contrapposizione cioè tra partiti che credono (ancora) nelle capacità di una Unione Europea di farsi interprete delle politiche economiche e sociali del vecchio continente, da una parte, e partiti o movimenti che tendono a rivalutare l’alveo nazionale, senza farsi troppo condizionare dai dettati della Banca Centrale Europea e della stessa UE, dall’altra.

L’avvio del nuovo governo M5s-Lega, varato pur tra molte difficoltà tre mesi dopo le elezioni, darebbe per il momento ragione alla seconda ipotesi, in attesa di comprendere l’evoluzione del quadro politico e della politica delle alleanze future, o degli intenti comuni, a partire già dal prossimo importante appuntamento elettorale, le europee del 2019.

Al di là del “contratto di governo” stipulato tra i vertici dei partiti, è interessante interrogarsi sul livello di vicinanza o di lontananza tra i loro rispettivi elettorati. Vediamo innanzitutto come viene giudicato l’attuale partner di governo. Occorre sottolineare che i dati si riferiscono a indagini compiute da Ipsos durante gli ultimi tre mesi di campagna elettorale, quando cioè gli accordi tra le due forze di governo attuale erano difficilmente pronosticabili. In generale, valutazioni positive sugli altri partiti vengono espresse solamente dal 5% dei pentastellati (oltre 10 punti in meno della media nazionale, già molto bassa). L’unico che riscuote un buon successo è proprio la Lega, giudicata favorevolmente da oltre un terzo degli elettori 5 stelle. È questa peraltro la più rilevante trasformazione intercorsa tra il 2013 ed il 2018: il differente appeal leghista tra i votanti del M5s, che cinque anni prima giudicavano al contrario il partito – allora di Maroni – in maniera non dissimile da quello di Berlusconi, individuando nelle due principali forze politiche di centro-destra una forte comunità di intenti. È probabile che l’avvento del nuovo segretario leghista Matteo Salvini, con l’abbandono dell’enfasi nordista e le sue parole d’ordine maggiormente pragmatiche e meno “ideologiche”, abbiano prodotto un effetto positivo anche nelle opinioni di una parte molto significativa degli elettori pentastellati. La stessa (limitata) positività si riscontra anche per l’elettorato leghista, tra cui il M5s ottiene valutazioni comunque egregie, considerando che era il principale nemico da battere nelle imminenti elezioni, di poco inferiori al giudizio sull’alleato di Forza Italia.

Esistono poi alcune sotterranee sintonie tra i due elettorati, al di là delle evidenti differenziazioni territoriali e, di conseguenza, dell’enfasi delle proposte politiche che hanno come differenti bacini elettorali di riferimento. Tra queste, sono sicuramente le più indicative il tipo di rapporto con l’Unione Europea e la moneta unica; l’interesse per le fasce relativamente più deboli della popolazione, declinate nelle forme più consone alle aree geografiche di riferimento; l’alterità nei confronti dei presunti “poteri forti” ai quali il popolo, e con loro i loro rappresentanti, dovrebbe apertamente ribellarsi. Accanto a queste, ci sono però importanti tematiche che allontano in maniera significata i rispettivi elettorati, e che sottolineano l’impossibilità di attribuire facili valutazioni di stampo “populista” a coloro che hanno scelto il Movimento 5 stelle.

Sono nello specifico gli atteggiamenti nei confronti dei diritti civili, della pena di morte e, in parte, dell’immigrazione che differenziano l’elettorato pentastellato in particolare da quello della Lega, ma in generale anche dalle opinioni medie della popolazione nel suo complesso, il che getta una luce forse inedita sulla diffusa percezione della natura dei votanti 5 stelle. Se non tutte, sono diverse le “anime” che popolano i 5 stelle ad essere attente alla modernizzazione della società in senso più liberal; occorre sottolineare come sia parzialmente errato guardare a questo nuovo movimento politico come si trattasse di un “blocco” elettorale unico e compatto, e non invece composto da diversi tipi di cittadini, alcuni più progressisti accanto ad altri certamente più conservatori.

I diritti per le coppie di fatto devono essere identiche a quelle sposate per quasi l’85% degli elettori a 5 stelle (10 punti in più della media della popolazione italiana e ben 15 in più rispetto ai leghisti); la pena di morte per i crimini più gravi è accettabile soltanto dal 45% dei pentastellati (5 punti in meno della popolazione e 20 in meno dei leghisti); la loro opinione infine sugli eccessivi livelli di immigrazione non si discosta da quella degli italiani (70%), ma è inferiore di ben 20 punti rispetto all’elettorato che ha votato Lega.

Difficile ipotizzare se nel futuro questo tipo di alleanza possa durare, o si andrà incontro al contrario a decisive contrapposizioni su alcune politiche non del tutto condivise (quanto meno dai rispettivi elettorati) come ad esempio quelle più sopra citate relative ai diritti civili. Quello che è certo è che numerose sono le basi per una possibile convergenza, magari limitata nel tempo, pur accanto a temi che evidenziano alcune differenze di fondo tra i votanti leghisti e pentastellati. Forse, l’elemento maggiormente dirimente è proprio la diffusa volontà di cambiamenti importanti e decisivi nella gestione della cosa pubblica, con una netta cesura con le esperienze dei governi passati e con le tradizionali forze politiche, che accomunava Lega e M5s già al momento del voto.

* Una versione ridotta di questo articolo è uscita il 3 giugno sul sito de “Gli Stati Generali”



L’alibi dei vincoli europei

Finora, in Europa occidentale, si era visto un solo governo populista puro, quello greco rosso-nero guidato da Tsipras, un governo di coalizione fra il principale partito di sinistra (Syriza) e un piccolo partito nazionalista e conservatore (Anel). Ora anche l’Italia ci prova: salvo imprevisti, nei prossimi giorni si insedierà un governo populista giallo-verde che, come primi “assaggi” di sé stesso, ha già dato segnali del proprio convinto anti-europeismo.

In buona sostanza: in Italia facciamo quel che ci pare, e dei vincoli europei su debito e deficit ben poco ci importa. C’è stata l’austerità fino ad oggi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, è giunto il momento di cambiare rotta. Salvini si è spinto a dire, in polemica con il ministro francese dell’economia che aveva richiamato l’Italia al rispetto degli impegni assunti, che il nuovo governo avrebbe fatto semplicemente il contrario dei governi precedenti.

Sul rapporto con l’Europa la si può pensare in tanti modi, però – comunque la si pensi – forse una domanda dovremmo farcela: il rispetto dei vincoli europei, giusti o sbagliati che siano, è davvero il macigno che impedisce all’Italia di ripartire?

Oggi la polemica anti-europea sta diventando il biglietto da visita del nuovo governo, il cui unico vero colore politico è di non essere di sinistra, però non possiamo dimenticare alcuni fatti storici. Il 17 ottobre 2002, stiamo quindi parlando di sedici anni fa, fu lo stesso Prodi – allora presidente della Commissione europea – a definire “stupido” il patto di stabilità, un parere ribadito nel 2014, poche settimane dopo la nascita del governo Renzi. Quanto a quest’ultimo, ci ricordiamo tutti che i suoi tre anni di governo sono stati spesi a battagliare contro le regole europee, e a deridere i burocrati europei e le loro fissazioni sui decimali (del rapporto deficit-Pil). Né possiamo dimenticare che la critica delle politiche di austerità, e l’invocazione continua di investimenti pubblici anche in deroga ai vincoli di bilancio, è il leitmotiv dell’estrema sinistra in tutta Europa.

Quindi la prima cosa che vorrei dire, a chi è sbigottito di fronte all’assalto dell’ircocervo populista contro le regole europee, che se Salvini e Di Maio si muovono agevolmente sul terreno dell’antieuropeismo è perché quel terreno è stato a lungo dissodato, concimato e innaffiato dalla sinistra stessa. Ciò detto, tuttavia, la domanda resta: sono le regole europee che ci impediscono di uscire dal pantano?

Per certi versi senz’altro. Se sull’immigrazione un paese geograficamente esposto non può fare molto è anche a causa delle regole europee, peraltro liberamente sottoscritte, e qualche volta anche caldeggiate. Se il mercato europeo è troppo regolamentato all’interno, con conseguente lievitazione dei costi per le imprese, e troppo aperto verso l’esterno, senza validi strumenti di difesa nei confronti delle importazioni (e delle merci contraffatte) dalla Cina e dai paesi emergenti, sicuramente una notevole responsabilità ce l’ha l’Europa.

Per altri versi, però, no. L’Europa c’entra poco. Chi racconta che abbiamo avuto 10 anni di austerità, e che è ora di cambiare strada, non sa di che cosa parla. Se avessimo davvero avuto 10 anni di austerità, saremmo riusciti a ridurre non dico l’ammontare del debito, ma almeno il rapporto debito-Pil. Il fatto è che si continua a confondere due cose nettamente distinte: la capacità di un paese di risanare i conti pubblici, con politiche che possono essere di austerità “buona” (meno spesa pubblica) o di austerità “cattiva” (più tasse), e il cambiamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, che quando peggiorano fanno gridare all’austerità, ma che sono tutt’altra cosa.

Il fatto è che, nei sette anni della crisi (da 2007 al 2014), l’Italia è riuscita nella duplice impresa di non risanare i conti pubblici, e al tempo stesso non far recuperare ai cittadini il tenore di vita pre-crisi. Di qui il cortocircuito logico: dato che stiamo peggio, ci raccontiamo che sono stati anni di austerità.

La realtà, purtroppo, è che le regole europee spiegano forse perché i paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno degli altri paesi dell’Unione, o perché l’Europa nel suo insieme cresce meno del resto del mondo, o cresce meno degli Stati Uniti, ma non possono spiegare – proprio perché sono regole comuni – come mai certi paesi europei crescono a ritmi accettabili e altri, come l’Italia, la Grecia o la Finlandia, invece ristagnano. Soprattutto non spiegano perché l’Italia, in questi gloriosi anni renziani, sia scivolata all’ultimo posto come tasso di crescita del Pil, e al penultimo come tasso di occupazione.

Perciò, è vero: con altre regole potremmo (forse) crescere un po’ di più, ma non raccontiamoci che il vero ostacolo alla crescita dell’economia italiana è l’Europa. No, sfortunatamente se l’Italia cresce di meno degli altri paesi europei è solo perché ha fatto ben poco di quel che avrebbe dovuto fare per ridare fiato all’economia e risanare il bilancio pubblico, non certo perché la cattiva Europa non le ha permesso di spendere in deficit quanto le sarebbe piaciuto.

E’ questo, purtroppo, l’equivoco su cui il nascente governo giallo-verde sembra intenzionato a puntare molte delle sue carte.

Articolo pubblicato da Panorama il 24 maggio 2018