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A proposto di migranti e campo largo – I silenzi della sinistra

24 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Chi si augura che il centro-sinistra arrivi unito e preparato alle prossime elezioni politiche (previste per il 2027), forse dovrebbe nutrire qualche preoccupazione per i silenzi del Pd e dei Cinque Stelle in materia di politiche migratorie. Silenzi che sono
divenuti assordanti nei giorni scorsi, quando Elly Schlein non ha speso nemmeno una parola sull’incontro fra Giorgia Meloni e Keir Starmer (premier laburista britannico), dal quale era emersa una notevole e imprevista convergenza di vedute in fatto di
governo dei flussi migratori.

Quella sintonia ha spiazzato Elly Schlein e Conte, perché la sinistra che Starmer rappresenta, severa con gli immigrati e aperta alle ipotesi di “esternalizzazione” della questione migratoria (come il modello Albania di Meloni e Rama), è lontanissima dalla sinistra che Schlein sta cercando di mettere insieme con Cinque Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra.

Ma il caso di Starmer non è isolato. La realtà è che in Europa da qualche anno stanno prendendo forma nuovi tipi di sinistra, fondamentalmente differenti da quella che, per decenni, è stata egemone nel Vecchio Continente.

Questi tipi inediti di sinistra si sono palesati poco per volta, a partire dal 2021, quando la Danimarca (governata dai socialdemocratici) ha cominciato a prendere in seria considerazione l’idea di affiancare alle norme molto severe già vigenti nuove
procedure di trasferimento dei richiedenti asilo (verso il Ruanda) e dei detenuti stranieri (verso il Kosovo). Da allora i passaggi più significativi sono stati: nel Regno Unito, lo spostamento del partito laburista su posizioni legalitarie per opera di Keir Starmer, successore del massimalista Jeremy Corbyn; in Germania, la fondazione del partito di sinistra anti-migranti di Sahra Wagenknecht (BSW), nato da una costola della Linke (formazione di estrema sinistra); sempre in Germania, la recentissima
spettacolare inversione a U della politica dell’SPD del cancelliere Scholtz che – specie dopo il recente attentato di Solingen – ha assunto tratti molto severi (promesse di rimpatrio degli irregolari, ripristino dei controlli alle frontiere); in Spagna, la sinistra socialista di Pedro Sanchez, che dopo l’esplosione degli arrivi dalla rotta atlantica (via isole Canarie), appare sempre più impegnata a rallentare le partenze e rafforzare i rimpatri.

Oltre a questi sviluppi, è il caso di ricordare la lettera alla Commissione Europea inviata a maggio di quest’anno dai governi (alcuni progressisti) di ben 15 paesi europei su 27, in cui si prospetta non solo un rafforzamento della politica dei rimpatri, ma pure la cosiddetta esternalizzazione delle frontiere (in stile Italia-Albania), con la creazione di hub in cui rinchiudere parte dei richiedenti asilo.

Che cosa c’è, alla base di queste metamorfosi all’interno del campo della sinistra?

Probabilmente non una cosa sola, e comunque non la medesima nei diversi paesi. Un fattore è sicuramente il recente (2023) aumento degli arrivi irregolari su specifiche rotte, un aumento che seguiva altri aumenti nei 3 anni precedenti. Un altro fattore è il
moltiplicarsi di episodi di violenza o terrorismo messi in atto da stranieri. Ma il fattore cruciale, verosimilmente, sono i crescenti successi elettorali delle destre anti-immigrati nella maggior parte dei paesi europei, un trend che non può non preoccupare le forze di sinistra.

In alcuni paesi, i dirigenti della sinistra si stanno rendendo conto che la questione migratoria non può più essere elusa con formule – accoglienza, integrazione, diritti umani – tanto generose quanto incapaci di andare al nocciolo dei problemi. Che
sempre più sovente non sono solo economici, o di sicurezza, ma sono di identità delle comunità locali, messe a dura prova dalla concentrazione di immigrati (spesso senza lavoro e senza fissa dimora) in specifiche porzioni del territorio nazionale, siano esse
le grandi stazioni ferroviarie, i parchi urbani, le periferie delle città, i piccoli centri rurali. Un processo che può far sì che i nativi, specie se appartengono ai ceti bassi, si sentano “stranieri in patria”.

E in Italia?

Qui da noi la sinistra non prova nemmeno ad avviare una riflessione. Ripropone le solite formule, che aggirano il problema anziché affrontarlo. Non perde occasione per demonizzare l’unico politico di sinistra – Marco Minniti – che aveva provato a fare
qualcosa (giusta o sbagliata che fosse). Soprattutto, non si chiede come mai, a due anni dal voto, i partiti di destra sono più forti che mai.

Si potrebbe pensare che sia solo cecità, o estrema convinzione di essere nel giusto, o che basti essere nel (presunto) giusto per vincere le elezioni. La mia impressione è che ci sia anche dell’altro. Forse Schlein e Conte si rendono conto che, ove toccassero sul serio il tema migratorio, il progetto del campo largo incontrerebbe le prime difficoltà vere. Tradizionalmente, infatti, le posizioni di Grillo e dei Cinque Stelle sono state sempre ondivaghe, e meno indulgenti di quelle del Pd (dopotutto, è a Di Maio che dobbiamo la formula delle ONG come “taxi del mare”). E questo per una ragione molto semplice: i cinque Stelle, a differenza del Pd, sono radicati nei ceti popolari, e oggi i partiti a base popolare tendono a diventare populisti, e in quanto tali ostili all’immigrazione. Possono adottare ideologie di destra o di sinistra, ma in entrambi i casi tendono a vedere l’immigrazione come un problema.

Può darsi che non parlare mai delle preoccupazioni popolari in tema di immigrazione e sicurezza, o ignorare le idee delle nuove sinistre securitarie in Europa, aiuti a tenere unito il campo largo. Ma resta il dubbio che, a differenza di quel che potrà succedere
su altri temi (salario minimo legale e sanità), sulla questione migranti gli elettori progressisti possano non accontentarsi dei soliti slogan e delle solite formule politiche astratte.

[articolo uscito sul Messaggero il 23 settembre 2024]

Forza Italia e il destino del centro

29 Agosto 2024 - di Luca Ricolfi

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Che succede in Forza Italia?

In questi ultimi giorni si sta parlando di una imminente proposta di legge di Forza Italia che agevolerebbe l’acquisizione della cittadinanza italiana ai ragazzi stranieri che hanno completato uno o più cicli di studio. L’idea è già stata bocciata da Lega e
Fratelli d’Italia (non è nel programma di governo), mentre una significativa apertura sul cosiddetto Ius scholae – ovvero la cittadinanza in base agli anni di scuola in Italia – è arrivata da Giuseppe Conte con un articolo sul Corriere della Sera.

La cosa interessante è che Conte non solo ha appoggiato l’idea, attribuendone la paternità ai Cinque Stelle, ma ha anche attaccato il massimalismo di Pd e Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), che punterebbero sullo Ius soli (basta nascere in Italia per ottenere la cittadinanza), ossia su una proposta non solo impraticabile (mancano i numeri in parlamento) ma anche politicamente sbagliata.

Una lettura congiunta di questi due episodi suggerisce un’ovvia osservazione: sia a destra (con Forza Italia) sia a sinistra (con i Cinquestelle) è in atto un tentativo di differenziarsi dalle forze più radicali, spostandosi verso il centro.

Questo doppio movimento, tuttavia, è molto più credibile a destra che a sinistra. La mossa di Forza Italia, infatti, non è estemporanea come quella dei Cinque Stelle, ma segue una serie di recenti mosse dello stesso tipo. Pochi giorni fa Tajani, leader di Forza Italia, ha fatto significative e assai esplicite aperture anche su un’altra proposta non gradita agli alleati di governo, quella di varare un provvedimento svuotacarceri, misura peraltro perfettamente in linea con la tradizione garantista del partito berlusconiano. Ancora più significativamente, un paio di mesi fa Marina Berlusconi, presentando i progetti della casa editrice Silvio Berlusconi Editore, ha fatto una dichiarazione molto impegnativa: “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi
sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere”.

Sono tre mosse significative, che convergono su un unico obiettivo: salvare Forza Italia rafforzandone il profilo moderato garantista, liberale, e pure laico-libertario. Alla luce delle ultime mosse, non vi sarebbe nulla di strano se domani Forza Italia dovesse farsi promotrice di una legge sul fine vita, o desse disco verde al matrimonio egualitario.

È realistico un simile progetto di riposizionamento politico?

Secondo me sì, ma per spiegare perché occorre tornare ai Cinque Stelle e al loro speculare progetto di distacco da Pd e AVS. La differenza fra le due situazioni è che a sinistra qualsiasi forza moderata suscita una crisi di rigetto di natura ideologica, aggravata dal ricordo della stagione renziana. Mentre a destra un analogo rigetto non avviene perché i partiti di centro-destra, ormai da decenni, sono abituati a ricercare un equilibrio fra loro in modo pragmatico, lungo linee negoziali, senza scontri sui principi ultimi.

Ecco perché a destra c’è posto per una robusta gamba moderata, mentre a sinistra non c’è.

E la Margherita? potrebbe obiettare qualcuno, pensando a quando il centro sinistra la gamba moderata ce l’aveva eccome.
Ma è precisamente questo il punto. Per essere pienamente accettati nello schieramento di centro-sinistra, i moderati dovettero creare un loro partito, dotato di una massa elettorale critica, vicina a quella della componente post-comunista, e puntare su un “papa straniero” (Romano Prodi). È così che riconquistarono la maggioranza nel 2006, dopo il quinquennio berlusconiano.
Oggi siamo lontanissimi da quelle condizioni. La Margherita non esiste più, inabissata nel Pd; il progetto di dare al centro-sinistra una gamba moderata è fallito con la dissoluzione del Terzo Polo; la massa elettorale di Renzi è ridicola; il partito di Conte ha ben poco di moderato; quello di Calenda lotta per non scomparire; Elly Schlein è tutto tranne che un papa straniero.

Allo stato attuale il duo Tajani-Marina Berlusconi è di gran lunga l’offerta più credibile per gli elettori che guardano al centro.

[articolo per la Ragione, inviato il 19 agosto 2024]

La coerenza non è più una virtù, né tra i politici né tra gli elettori

25 Giugno 2024 - di Paolo Natale

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Negli ultimi 30 anni, come sappiamo, i sondaggi hanno iniziato ad occupare un posto rilevante in tutti gli ambiti, in quello politico come in quello economico, nel marketing come nell’analisi della società. Ma i sondaggi sono infidi, non è semplice né saggio guardare alle stime che vengono prodotte come ad una sorta di oracolo, come a risultati privi di qualsiasi distorsione (o bias), immediatamente rappresentativi delle opinioni della popolazione cui si fa riferimento. Perché esistono molti motivi per osservarli con una certa diffidenza, per non credere (troppo) alle opinioni che vengono espresse in una indagine demoscopica.

Uno di questi motivi, che diventa talvolta cruciale nel campo della comunicazione politica, è quello della mancanza di opinioni “costanti” da parte degli elettori: nell’epoca in cui regnavano incontrastate le ideologie, esisteva una sorta di pensiero esclusivo, opinioni e atteggiamenti pressoché costanti nell’accostarsi ai fenomeni sociali o politici, guidati dalla propria ideologia, dalla
propria visione del mondo, che difficilmente mutavano: parallelamente alla fedeltà di voto, rimaneva fedele anche il modo di vedere le cose, di manifestare la propria adesione quasi incondizionata ad una scelta specifica. Come cantava Giorgio Gaber: “Mio nonno si è scelto una parte che non cambia in ogni momento, voglio dire che c’ha un solo atteggiamento” (Gaber, G., Il
comportamento, 1976). Ma poi, con la fine delle ideologie, con la secolarizzazione, con il costante aumento dei mezzi di
informazione e di comunicazione (soprattutto sul Web), con il progressivo indebolirsi delle tradizionali agenzie di socializzazione primarie e secondarie (famiglia, scuola, fabbrica, ecc.), con la atomizzazione lavorativa e dei rapporti individuali le cose sono cambiate. La frammentazione delle esperienze e l’atomizzazione sociale rendono l’individuo più debole nelle sue certezze più
profonde, e propenso a sperimentare identità e opinioni differenti, in una sequenza sempre più rapida e per forza di cose più superficiale. Così, in questo periodo politico-sociale, le possibili visioni del mondo si fanno sempre più labili, aleatorie, preda della “narrazione”, dello story-telling dei leader politici che, anch’essi, cambiano repentinamente idee e opinioni a seconda delle conseguenze o dei mutati scenari politici.

È forse Matteo Salvini l’emblema più riconosciuto dell’incoerenza nel tempo delle proprie opinioni, l’uomo politico che più si è rimangiato affermazioni apodittiche su molti argomenti. Nel corso dell’ultimo decennio, sono state parecchie le idee da lui espresse su alcuni temi che verranno completamente ribaltate dopo poco tempo. Tra i numerosi ultimi esempi, quello sul
ponte sullo Stretto: pochi anni orsono il segretario leghista si era dichiarato fermamente contrario alla sua costruzione, mentre da qualche mese continua – ai giorni nostri – ad esserne il principale sponsor. Ancora più ravvicinato nel tempo il cambiamento di opinione sull’abbassamento dei limiti di velocità nelle grandi città: giusto un anno fa ha indicato come prima cosa “l’implementazione di zone 30”, al fine di “mitigare le differenze di velocità esistenti tra pedoni e traffico motorizzato”; oggi si scaglia in maniera veemente contro Bologna, in particolare, paradossalmente rea di aver aderito e applicato proprio la sua direttiva. Un comportamento che somiglia molto allo stesso trasformismo della Lega, tempo fa soltanto “Nordista” e con una netta ostilità nei confronti della destra estrema e neo-fascista, oggi coalizzata con tutte le forze politiche europee di quell’area: una “Lega Nazionale”. Ma poi ancora, dopo il recente provvedimento sull’autonomia differenziata, paiono ritornare presenti le “bandiere” regionaliste, in un continuo ribaltamento degli accenti. Ma ammettiamo pure che un leader politico possa mutare opinione su una serie di argomenti, spesso difendendo questo mutamento con l’idea che soltanto gli stolti non cambiano mai idea, il che è tutto da dimostrare, peraltro.

La cosa però interessante, e forse un po’ preoccupante, è che nel tempo anche il suo elettorato tenda poco alla volta ad uniformarsi anch’esso alla “nuova” opinione che professa il suo partito o il suo segretario. Gli esempi che si possono fare sono alquanto indicativi, e non riguardano soltanto Salvini e il suo partito, ma anche molte delle altre forze politiche. Il Partito Democratico, ad esempio, quando nel 2019 venne ratificato il Reddito di Cittadinanza, votò a sfavore con dichiarazioni molto pregnanti e sdegnate, come se fosse un’elemosina di stato; poi nell’ultimo anno, quando il governo Meloni lo abolì, si schierò al contrario contro l’abolizione, anche in questo caso con prese di posizione molto sdegnate. Ebbene, l’elettorato del PD nel corso degli ultimi tre-quattro anni ha progressivamente mutato anch’esso il proprio pensiero, passando da un livello di favore per il reddito di cittadinanza del 25% nel 2020 alla quota del 70% espresso nel momento della sua abolizione del 2023 (Tab.1).

Tab. 1 – GIUDIZIO SUL REDDITO DI CITTADINANZA – ELETTORATO PARTITO DEMOCRATICO

 

 

 

Allo stesso modo, le opinioni prevalenti nell’elettorato Pd qualche settimana dopo l’invasione russa (marzo 2022) parevano nettamente contrarie all’invio di aiuti militari all’Ucraina, mentre oggi la stragrande maggioranza, dopo la costante campagna favorevole del partito, è dell’idea praticamente opposta (tab.2).

Tab. 2 – SOSTENERE LA RESISTENZA UCRAINA FORNENDO AIUTI MILITARI ELETTORATO PD

 

 

 

L’elettorato del Partito Democratico, ovviamente, non è certo il solo a venir condizionato così fortemente dalle giravolte dei vertici di partito. Sempre a proposito della guerra in Ucraina, gli elettori vicini al Movimento 5 stelle erano inizialmente allineati con il resto degli italiani nell’appoggiare l’impegno ucraino nella resistenza contro l’invasione russa (78%); passati alcuni mesi, con la ripetuta presa di posizione di Giuseppe Conte contro il coinvolgimento italiano, la maggioranza dei pentastellati passa in maniera evidente su posizioni “equi-distanti”, molto più favorevoli ad un abbandono delle armi da parte degli ucraini (72%), rispetto al passato.

Ma il caso certamente più eclatante di cambiamento di opinione è quello degli elettori di Fratelli d’Italia, da sempre contrari – con una maggioranza vicina al 65% – a restare nella UE e nell’orbita Euro, ma approdati dopo la svolta atlantista ed europeista di Giorgia Meloni alla rapida accettazione di entrambi gli obiettivi. Una situazione molto simile a quella dei simpatizzanti per il
Movimento 5 stelle, protagonisti di una veloce trasmigrazione dal No-Euro al Sì-Euro, sebbene rimanga ancora qualche remora, nel 20-25% degli attuali votanti di Giuseppe Conte (Tab.3). Per tacere infine sulle opinioni relative alla guerra in Ucraina o sul conflitto tra Israele e Hamas, opinioni mutevoli a volte solamente per avallare mutazioni di convenienza politica.

Tab. 3 – FAVOREVOLI ALLA PERMANENZA DELL’ITALIA NEL SISTEMA DELL’EURO , IN %

 

 

 

Una situazione come si è visto abbastanza paradossale: se i leader politici cambiano spesso idea per motivi più che altro tattici o strategici, non certo per profonde conversioni, rimane piuttosto difficoltoso comprendere queste stesse ri-conversioni in cittadini, uomini e donne, che non sono chiamati a rispondere in prima persona a progetti o alleanze tra le forze politiche che a volte
“impongono” queste micro-rivoluzioni di pensiero. È come se gli elettori non avessero maturato opinioni nel profondo e, solamente, si adeguino a ciò che per loro decidono i loro partiti di riferimento: una volta, si diceva che questi ultimi “dettavano la linea” cui occorreva adeguarsi, rinunciando alle proprie idee, se per caso ci fossero state. Pensiamo ad esempio all’evidente
conflitto sul divorzio che esisteva tra elettori democristiani (ma anche comunisti) e vertici di DC e PCI.
Ma se allora esistevano ancora Weltanscauung, visioni del mondo forti, solide e discriminanti, oggi pare che gli elettorati di (quasi) tutte le forze politiche, senza più grandi ideologie di riferimento, siano in balìa dello storytelling dei propri leader, a volte in perenne mutazione.

Fonte dei dati: Ipsos

Sinistre in fuga dal centro

17 Giugno 2024 - di Dino Cofrancesco

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Le elezioni europee dell’8-9 giugno hanno confermato la crisi profonda in cui versa la democrazia italiana: che si tratti di ’mal comune mezzo gaudio’ non consola molto, dimostrando solo come il nostro abbia reazioni sempre più simili a quelle degli altri paesi dell’area euro-occidentale.

Quali sono i sintomi più gravi della malattia? Ne elenco solo due.

Il primo è la spaccatura profonda che da anni divide ormai le nostre società civili. In Italia alla coalizione di centro-destra, egemonizzata da un partito postfascista che ha espresso una sincera adesione ai valori della democrazia liberale, e si trova a Palazzo Chigi, grazie a due alleati, Forza Italia – una formazione centrista della cui anima liberale nessuno potrebbe dubitare – e la Lega Salvini – un composito movimento populista che non ha affatto tradito le sue origini, come attestano le sue battaglie per le autonomie differenziate; corrisponde una coalizione egemonizzata da un PD, quello di Elly Schlein, sempre più lontana da una filosofia riformistica e costantemente tentata da un’alleanza, più o meno organica col Movimento 5 Stelle, che al suo qualunquismo (né destra/né sinistra) dovette i suoi inaspettati successi elettorali, e che oggi, con Giuseppe Conte, fa pensare a un neo-peronismo giustizialista. Ancora più a sinistra si colloca l’Alleanza Verdi Sinistra (vicina a un non trascurabile 7%) che con
il liberalismo classico non ha alcun rapporto (non è, a mio avviso, una colpa).

Le sinistre unite hanno retto all’onda lunga della destra grazie anche ai grandi quotidiani, che un tempo si dicevano dei padroni’, come quelli del Gruppo Gedi («Stampa», «Repubblica» etc.) e a una stampa furiosamente antigovernativa, tipo «Domani» e «Il Fatto quotidiano». Partiti, stampa, movimenti di protesta, finte associazioni ecologiche – che, in realtà riversano sul nemico di sempre, il capitalismo, le loro apprensioni per gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici – centri sociali vari, associazioni LGBT, pacifisti scatenati contro il sionismo, minoranze universitarie emule del ’68, aficionados di Ilaria Salis, parrocchie ribelli: è, questo, un mondo vario e composito che attesta che la sinistra è viva e vegeta e nulla ha perso delle sue caratteristiche d’antan.     È una constatazione, la mia, che non ha nulla di moralistico: il mondo è pieno di valori in conflitto e la loro dialettica è il sale della democrazia. E tuttavia, ci si chiede, può una democrazia ‘a norma’ sopravvivere quando gli attori principali in competizione trovano consensi elettorali allontanandosi dal centro? È una buona notizia che i riformisti e gli ex margheritini del PD siano destinati ad essere emarginati? Che le sinistre parlino con la voce di Claudia Fusani, di Daniela Preziosi, di Massimo
Giannini, di Ezio Mauro? Che le ali mediane del sistema politico, Azione di Carlo Calenda o Stati Uniti di Europa del duo Emma Bonino/Matteo Renzi non abbiano alcun potere di riassestare verso il centro l’asse della politica italiana? (Negli ultimi tempi della campagna elettorale, va pur detto, le loro critiche al governo erano così spietate da portare acqua al mulino di Elly Schlein, allontanando potenziali elettori, pur lontani dalla Meloni, ma vicini a un’opposizione corretta e non delegittimante).

L’altro dato emerso dalle urne è anch’esso poco rassicurante.

«In queste elezioni, ha scritto Augusto Minzolini – la politica estera, in presenza di due guerre, ha pesato come non mai in passato». Verissimo, ma fa sorridere l’analisi l’editorialista del «Giornale» quando parla di Un voto contro Putin (ma in quale beato paradiso caraibico vive Minzolini?) e giudica la più grave sconfitta di un partito di governo che si sia verificata dal dopoguerra a oggi – quella subita in Francia da Macron e in Germania da Scholz – il prezzo pagati per “qualche fuga in
avanti” (sic!). In realtà, la difesa a oltranza dell’Ucraina e gli Stati Uniti d’Europa sono stati i cavalli di battaglia di columnists e di scienziati politici dei grandi quotidiani ma non hanno toccato nessun cuore. Ma di quale Europa stiamo parlando se gli stati del vecchio continente sono tutti appiattiti (ammettiamo pure, con qualche buona ragione) sulle direttive di Washington e della Nato,
se nelle guerre che si stanno svolgendo sotto le nostre case i rappresentanti degli stati europei si sono astenuti da ogni iniziativa autonoma, da ogni tentativo di contribuire al farsi degli eventi, sia pure a fianco della Casa Bianca? Stati Uniti d’Europa! Siamo europei! ma davvero si poteva credere che, con queste genericità retoriche, si sarebbero ottenuti i voti dell’uomo della strada?     In un esemplare editoriale del «Corriere della Sera» dell’8 giugno u.s., L’Europa non è solo un’idea, Ernesto Galli della Loggia ha fatto rilevare: «le élite europee hanno finito per credere (…) che per radicarsi e legittimarsi nella coscienza dei propri cittadini, bastassero i grandi principi e i vantaggi concreti assicurati dall’Unione. Ma nessun corpo politico è stato mai tenuto insieme solo
da queste cose».

Non mi sembra che questa saggezza storica faccia parte della political culture dei Calenda, dei Renzi, dei Della Vedova. Il contrappeso centrista e moderato al trionfo della sinistra tendenzialmente illiberale è affidato alle mani di attori politici moralmente e intellettualmente affetti dal morbo di Parkinson.

[commento elettorale uscito su Paradoxa-Forum il 13 giugno]

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