Linguaggio inclusivo e bullismo etico
In primo pianoSocietà“Dilemmi” è, a mio parere, una delle più intelligenti e ben costruite trasmissioni della Rai. L’idea è di scegliere un dilemma interessante, e farne discutere due persone preparate, che la pensano in modo opposto, ma sono disposte a confrontarsi in modo
civile.
È quel che è successo, pochi giorni fa, con il confronto fra lo scrittore Emanuele Trevi (premio Strega 2021) e la linguista Vera Gheno, paladina del linguaggio inclusivo (ma lei preferisce chiamarlo “ampio”) e sostenitrice dell’uso della schwa (ə) per formare il plurale: anziché dire cari spettatori, oppure care spettatrici e cari spettatori, dovremmo dire: carə spettatorə.
La discussione si è animata varie volte, ad esempio quando è stata richiamata la decisione del comune di Bologna di bandire parole come “fratellanza” e “paternità” nel caso si riferiscano a donne, e di sostituirle con “solidarietà” e “maternità” (curioso
parlare della “maternità” di un’opera d’arte, o di uno scritto…). Ma il passaggio più interessante, a mio modo di vedere, è stato allorché Trevi ha spiegato le ragioni per cui il linguaggio politicamente corretto ma artificiale non gli piace.
Una ragione riguarda il suo mestiere di scrittore: il rispetto delle prescrizioni dei guardiani della lingua politicamente corretta vincola, limita, impoverisce la scrittura. Ma l’altra ragione ci riguarda tutti: quando qualcuno ci scrive facendo sfoggio di schwa, asterischi e artifici linguistici vari volti a includere e non offendere, in realtà ci sta anche dicendo che lui “si sente migliore, che sta facendo una cosa per il mondo”.
Detto in modo più crudo di quello usato da Trevi: il linguaggio politicamente corretto, specie se usato nei confronti di qualcuno che parla e scrive in modo naturale (non artificioso), funziona come una forma di bullismo etico, un modo per segnalare
la propria sensibilità morale, o la propria superiore virtù (il cosiddetto virtue signalling).
Si potrebbe obiettare che, dopotutto, gruppi e minoranze che fanno esperimenti sulla lingua sono sempre esistite. Pensiamo ai poeti ermetici, alla letteratura sperimentale, al Gruppo 63, per stare al contesto italiano. Ma proprio questi esempi storici
mostrano la radicale differenza con ciò che succede oggi. In quei casi le istanze di cambiamento della lingua non poggiavano, come ora, su un progetto politico di cambiamento della società, e tantomeno pretendevano di uscire dall’ambito letterario,
coinvolgendo la gente comune.
Oggi al contrario la sperimentazione linguistica ha l’ambizione di propagarsi al resto della società, e grazie a internet ha la possibilità tecnologica di farlo. Contemporaneamente, i suoi destinatari hanno ipso facto la chance di convertirsi, diventare essi stessi propagatori della neolingua, e infine ergersi a censori di chi non si converte.
Certo, per ora l’obbligo di adeguarsi alle regole della neolingua vige solo nelle grandi istituzioni come l’Unione Europea, le università, le amministrazioni locali che vogliono fare sfoggio di virtù. Il singolo cittadino, nella vita come in rete, è
liberissimo di non adeguarsi, e continuare a parlare come prima. Nessuno gli impone nulla. Ma il fatto di sapere che alle sue scelte linguistiche non verrà attributo un significato stilistico, bensì una portata etica e morale, è già sufficiente ad esercitare
una formidabile pressione psicologica. Soprattutto in rete, il rischio di finire in uno shitstorm, coperto di improperi per un aggettivo sbagliato o una desinenza scorretta, è troppo forte. A quel punto, la tentazione dell’autocensura e dell’adeguamento può
diventare irresistibile.
[articolo uscito su La Ragione il 28 maggio 2024]