Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)




Dissenso e libertà di parola

La libertà di parola è sacra, sentiamo dire spesso. Guai impedire a qualcuno di parlare. Ma quando a qualcuno viene impedito di parlare, altrettanto spesso sentiamo replicare: anche il diritto al dissenso è sacro.

Questo schema, nelle ultime settimane, si è ripetuto molte volte. A Firenze, la giornalista e scrittrice Elisabetta Fiorito è stata contestata al grido Free Palestine, perché colpevole di presentare un libro su Golda Meir (socialista sì, ma ebrea israeliana). All’università di Napoli il direttore di Repubblica Maurizio Molinari non ha potuto parlare, in quanto colpevole di essere ebreo. Stesso trattamento all’università di Roma, e per il medesimo motivo (la colpa di essere ebreo), è toccato a David Parenzo. Sempre a Roma, alcuni giovani di Forza Italia, muniti di fotografie delle vittime delle Br, hanno interrotto una lezione della prof.ssa Donatella Di Cesare per protesta contro un suo post, non abbastanza critico sulla stagione del terrorismo.

Non è la prima volta che succede, nelle università, nelle librerie, al Salone del libro. E non è la prima volta che gli “interrotti” parlano di squadrismo, attacco alla libertà di espressione, violenza, intolleranza, e gli “interrompenti” replicano: è la democrazia, bellezza! non potete sopprimere il dissenso e la contestazione.

Di qui un problema importante: qual è il confine? Fino a che punto contestare un oratore, o più in generale qualcuno che espone le sue idee, è un diritto, e da quando in poi diventa una prevaricazione?

Molti, a queste domande, rispondono: il confine è la violenza, in una società democratica la violenza non è mai accettabile.

Io non sono tanto sicuro che sia una risposta soddisfacente, almeno finché per violenza si intenda solo la violenza in senso stretto, ossia l’aggressione fisica nei confronti di chi parla (o di chi lo sta ascoltando). In realtà, molto spesso a chi parla viene impedito di parlare semplicemente fischiando, tamburellando, urlando, producendo suoni in modo più o meno tecnologico. È questo il modo in cui, negli ultimi anni, sono state interrotte e impedite innumerevoli lezioni, conferenze, dibattiti. Talora fino al punto di costringere i relatori invisi ad andarsene, o ad autolicenziarsi (è il caso, solo per fare un esempio, della prof.ssa Cathleene Stock, dell’università del Sussex).

Dunque qual è il confine?

Io rispondo con un esempio laterale, ma secondo me illuminante, quello del teatro. Qual è, a teatro, il confine?

A teatro ci sono due diritti speculari, quello di applaudire e quello di fischiare. Ma di norma, dentro lo spettacolo, entrambi vengono esercitati per intervalli di tempo brevi, che consentono la prosecuzione: non si applaude così a lungo da impedire allo spettacolo di andare avanti e, per il medesimo identico motivo, non si fischia così a lungo da annullare la performance in corso. È anche una questione di rispetto degli spettatori, che hanno tutto il diritto di fruire interamente dello spettacolo per cui hanno pagato un biglietto.

In breve: il dissenso non diventa inaccettabile solo nel momento in cui ricorre alla violenza, ma già quando impedisce l’espressione. È la cancellazione della parola, non l’impiego brutale della forza, a segnare il confine invalicabile.

Che cosa cambia?

Apparentemente poco, in realtà moltissimo. Se adottiamo il criterio della cancellazione della parola, risultano inammissibili le contestazioni a Elisabetta Fiorito, a Maurizio Molinari, a David Parenzo, ma anche le passate contestazioni a Capezzone (alla Sapienza), alla ministra Roccella (al Salone del libro), tutti casi in cui il dissenso ha impedito a uno o più oratori di prendere la parola. Al tempo stesso, diventa ammissibile una contestazione come quella dei giovani di Forza Italia alla prof.ssa Di Cesare, perché l’interruzione – per la sua brevità e compostezza – non ha impedito di portare a termine la lezione.

Ma c’è anche un’altra cosa che cambia, se adottiamo il criterio della cancellazione della parola: fra i nemici della libertà di parola dobbiamo annoverare anche la maggior parte dei conduttori di talk show, che permettono sistematicamente che gli ospiti si parlino uno sull’altro, impedendo a chi (in teoria) avrebbe la parola di completare il suo pensiero. Questa pratica, con cui ci si ripromette di alzare gli ascolti, è palesemente intenzionale, come si deduce dal fatto che viene abbandonata solo nel momento in cui la gazzarra dei politici e giornalisti presenti raggiunge livelli di rumore tali da rendere inascoltabile il programma.

A quanto pare, i nemici della libertà di parola non sono solo i collettivi studenteschi con le loro bandiere e i loro slogan.

(uscito sul Messaggero il 29 marzo 2024)




I media hanno ridotto la qualità della democrazia in Italia?

Come è noto, nella teoria liberal-democratica dei media, la libertà di parola e la libertà di stampa sono considerate fondamentali per garantire che un’ampia gamma di punti di vista e opinioni siano liberamente espresse: ciò migliora la qualità della democrazia. Questa visione è sostenuta da importanti pensatori liberali, tra cui Tocqueville (1838) e Stuart Mill (1859) e da una letteratura estremamente ampia.Essa, tuttavia, non sempre risponde al vero. In fondo, i giornali sono imprese e, come ogni altra impresa, perseguono la massimizzazione del profitto. Tale obiettivo non sempre collima con il perseguimento del benessere della collettività.Un caso eclatante in questo senso è quanto avvenuto negli ultimi decenni in Italia dove i media, e in particolare i quotidiani, hanno indotto nei cittadini la percezione di una corruzione più estesa di quella effettiva.È un fatto che, stando ai dati raccolti da Transparency International sulla corruzione percepita, emerge che l’Italia ha un livello di corruzione (colto dal Corruption Perceived Index: CPI) molto più alto degli altri paesi avanzati. Nel ranking mondiale del grado di corruzione (che cresce con il grado di corruzione) il nostro Paese si colloca in una posizione molto più alta rispetto agli altri paesi avanzati. Nel 2019 (prima della crisi del COVID-19) l’Italia occupava il 51° posto in questa classifica, mentre nello stesso anno Francia e Germania si collocavano rispettivamente al 23° e 9° posto (Tabella 1). La posizione dell’Italia è analoga, e talvolta persino peggiore, a quella di paesi emergenti o in via di sviluppo, come, ad esempio, Botswana, El Salvador, Gambia, Ghana, Indonesia e Santa Lucia.

Tabella 1- Classifica dei paesi rispetto alla corruzione percepita

1995 2003 2009 2013 2015 2019 2022
Francia 18 23 24 22 23 23 21
Germania 13 16 14 12 11 9 9
Grecia 30 50 71 80 58 60 51
Italia 33 35 63 69 61 51 41
Portogallo 22 25 35 33 28 30 33
Spagna 26 23 32 40 37 30 35
Regno Unito 12 11 17 14 11 12 18

Fonte: Transparency International database. Legenda: Quanto più elevato è il posto in classifica tanto più elevata è la corruzione percepita nel paese.

Tuttavia, se si considerano indicatori oggettivi del livello di corruzione, sembra che la corruzione nel nostro Paese sia poco discosta da quella dei principali Paesi europei e, soprattutto, molto inferiore a quella riscontrabile in Paesi in via di sviluppo o emergenti che hanno una corruzione percepita analoga a quella dell’Italia. Ad esempio, prendendo a riferimento l’indagine campionaria contenuta nello Special Eurobarometer Report on Corruption della Commissione europea, si rileva che, sempre per il 2019, la quota del totale degli intervistati che aveva risposto affermativamente alla domanda “Do you know anyone who takes or has taken bribes?” era del 7 per cento per l’Italia e rispettivamente dell’8 e 13 per cento per Germania e Francia. Anche nella survey del Global Corruption Barometer di Transparency International relativo al 2021[1] risultava che la percentuale di cittadini che nei 12 mesi precedenti avevano pagato una tangente per fruire di servizi pubblici era del 3 per cento per l’Italia e rispettivamente del 3 e 5 per cento per Germania e Francia.[2]Dalla Tabella 1 emerge non solo che il ranking rispetto al grado di corruzione dell’Italia è più elevato di quello degli altri paesi avanzati, ma anche che esso è aumentato in misura molto pronunciata tra il 2008 e il 2012. Tuttavia, se si considera un indicatore oggettivo del grado di corruzione come le condanne per reati contro il patrimonio pubblico di funzionari pubblici si evince che tra il 2000 e il 2017 (ultimo anno in cui l’Istat riporta questi dati), e in particolare tra il 2008 e il 2012, non vi è stato alcun significativo aumento della corruzione effettiva (Tabella 2).

Tabella 2 – Condanne definitive per reati contro la PA di funzionari pubblici

Corruzione (a)

 

 

Concussione

(b)

 

 

Peculato

(c)

 

 

Malversazione

(d)

 

 

Corruzione e Peculato

(a)+(c)

 

Reati contro la PA di funzionari pubblici (a+b+c+d)
Media 2000-2004 309 58 141 19 450 527
Media 2005-2009 226 55 153 72 379 507
Media 2010-2014 177 52 159 46 336 417
Media 2015-2017 190 22 182 93 372 488

Fonte: Istat.

L’esistenza della discrepanza tra corruzione effettiva e corruzione percepita e il suo aumento dopo il 2008 sono evidenziati anche dal Rapporto del governo Monti sulla corruzione del 2012 in cui si scrive: “… il raffronto tra i dati giudiziari e quelli relativi alla percezione del fenomeno corruttivo induce a ritenere la sussistenza di un rapporto inversamente proporzionale tra corruzione ‘praticata’ e corruzione ‘denunciata e sanzionata’: mentre la seconda si è in modo robusto ridimensionata, la prima è ampiamente lievitata, come dimostrano i dati sul Corruption Perception Index di Transparency International, le cui ultime rilevazioni collocano l’Italia al sessantanovesimo posto (a pari merito con Ghana e  Macedonia), con un progressivo aggravamento della corruzione percepita negli ultimi anni”.[3]

È lecito, dunque, chiedersi come si sia generata questa discrepanza e perché sia aumentata tra il 2008 e il 2012.

Un’ipotesi plausibile è che l’elevata percezione di corruzione nel nostro paese sia stata in larga misura “fabbricata” dai media e dai giornali. Conferma di ciò si ha dalla elevata correlazione tra il ranking dell’Italia rispetto al CPI rilevato da Transparency International e il numero di articoli dedicati dai principali quotidiani italiani a casi di corruzione politica (Figura 1).

Figura 1 – CPI ranking e numero di articoli su casi di corruzione politica del Corriere della Sera e de La Repubblica

(a)   CPI ranking dell’Italia secondo Transparency International    

 

(b) CPI ranking dell’Italia secondo lo Special Eurobarometer Report on Corruption

Fonte: Transparency International, Special Eurobarometer Report on Corruption, e archivi elettronici del Corriere della Sera (archivio.corriere.it) e della Repubblica (https://ricerca.repubblica.it/ricerca/repubblica.

Legenda: le linee verdi nella Figura 1(a) e 1(b) indicano rispettivamente la posizione dell’Italia nella rilevazione di Transparency International e in quella del Rapporto Eurobarometer sulla Corruzione; le linee blu e rossa nei due quadranti indicano il numero di articoli dedicati a casi di corruzione politica rispettivamente dal Corriere della Sera e dalla Repubblica. Il numero di articoli è normalizzato ai loro valori massimi; tutte le variabili sono espresse in logaritmi

È un fatto che gli editori di quotidiani dopo la crisi del 2008 e quella del debito sovrano del 2011, a causa della caduta delle vendite e della pubblicità, si trovarono ad affrontare anni molto difficili in termini reddituali. È plausibile che essi, allo scopo di limitare le perdite, sfruttando i pregiudizi dei lettori instillati in essi da Tangentopoli (ovvero di una classe politica corrotta), abbiano deciso di aumentare il numero di pagine e articoli dedicati a scandali politici.

L’elevato livello di corruzione percepita indotto dai quotidiani non è stato privo di effetti sulla democrazia del nostro paese. Esso ha avuto riflessi sulle scelte di policy, sulla fiducia nelle istituzioni democratiche e anche sulla cultura politica e economica degli italiani.

In merito al primo aspetto la classe politica italiana ha adottato una serie di misure di lotta alla corruzione. Si pensi, ad esempio, al Codice degli Appalti proposto dal governo Renzi e approvato nel 2016 dal Parlamento, alle complesse procedure di gara da esso previste, che certamente non hanno favorito l’attuazione di investimenti pubblici e hanno messo a rischio l’uso dei fondi PNRR. Si pensi ancora alla costituzione nel 2014 dell’ANAC, per molti aspetti un doppione della Corte dei Conti. Si pensi alla legge Severino promossa dal governo Monti, nonostante, come si è visto, nel Rapporto sulla corruzione di esso si riconoscesse una discrepanza tra corruzione effettiva e percepita. Si può dire che una buona parte delle leggi emanate negli ultimi 10-15 anni, compresa la legge Gelmini per l’Università, abbiano risentito di questo anelito alla lotta alla corruzione, in molti casi con pregiudizio per l’allocazione efficiente delle risorse del Paese.

Un secondo effetto dell’elevata corruzione percepita è stato l’indebolimento del Parlamento e delle istituzioni democratiche. Infatti, l’elevata corruzione percepita ha infirmato la credibilità del Parlamento. L’indagine Standard Eurobarometer della Commissione Europea mostra che, tra il 2009 e il 2013, in Italia la fiducia degli italiani nel Parlamento si è significativamente indebolita, soprattutto se confrontata con quella rilevata per Francia e Germania (Tabella 3).

 

Tabella 3 – Fiducia nel Parlamento (percentuale degli intervistati)

2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020
Francia 28 31 26 32 19 23 20 19 31 27 27 31
Germania 45 46 42 46 44 49 42 55 58 58 54 55
Grecia 47 17 12 9 12 14 15 12 13 15 23 27
Italia 27 26 14 11 10 18 18 15 20 27 27 27
Portogallo 41 26 22 23 15 20 19 36 42 37 39 40
Spagna 29 21 19 9 8 10 11 17 21 24 19 19

Fonte: Standard Eurobarometer survey, n. 71-94: https://europa.eu/eurobarometer surveys/browse/all.

La sfiducia nel parlamento è derivata dalla convinzione diffusa che la classe politica fosse incompetente e corrotta. In questo contesto, dato il basso status sociale del politico e il rischio di essere coinvolti in indagini giudiziarie e “lapidati” dalla stampa, gli individui di alta qualità professionale sono stati indotti ad evitare la carriera politica. Ciò contribuisce a spiegare perché negli ultimi anni la qualità dei parlamentari in termini di professioni esercitate nella vita civile sembrerebbe essere diminuita significativamente in Italia (Figura 2).

Figura 2 – Qualità professionale dei membri del Senato italiano (quote percentuali)

Fonte: Senato della Repubblica Italiana. Legenda: la linea blu indica la quota percentuale di senatori di elevata qualità professionale (ovvero che nella vita civile esercitano una di queste professioni: Avvocati, Professori universitari, Dirigenti di impresa); la linea rossa indica la quota percentuale di Senatori che nella vita civile esercitano attività impiegatizie e similari.

In terzo luogo, l’elevata corruzione percepita ha favorito tra il 2013 e il 2018 l’eclatante successo elettorale di partiti populisti, in particolare del Movimento Cinque Stelle, che, almeno alle sue origini, invocava la transizione dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta e volle nel governo Conte l’istituzione di un “Ministero per i Rapporti con il Parlamento e la Democrazia diretta”.

Infine, l’elevato livello di corruzione percepita ha determinato cambiamenti “culturali” negli italiani, aumentandone la resistenza a qualsiasi tipo di riforma, in primis di quelle volte ad un riequilibrio della finanza pubblica: in fondo, se i vecchi politici erano incompetenti e corrotti, bastava mandare a casa questi politici e i conti pubblici sarebbero tornati in ordine.

Quanto esposto non implica che nel nostro Paese, soprattutto in alcune sue aree, non vi sia corruzione. Semplicemente si vuol dire che i giornali, contravvenendo a quello che secondo molti è il loro compito in una democrazia, ne hanno esagerato l’entità con conseguenze negative per la qualità delle istituzioni e la crescita economica e culturale del nostro paese

 

[1] Non è disponibile quello relativo al 2019.

[2] Tale percentuale era sensibilmente più elevata nei paesi emergenti o in via di sviluppo che avevano un ranking più basso dell’Italia rispetto alla corruzione percepita come El Salvador, Colombia, Gambia, Indonesia.

[3] Governo italiano, Presidenza del Consiglio dei Ministri, “Rapporto della Commissione per lo studio e l’elaborazione di proposte in tema di trasparenza e prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione”, 2012, p. VIII.




Patria e Libertà. Le colpe non sono soltanto della sinistra – Lettera aperta a Vittorio Feltri

I–Caro Feltri. ho letto con grande diletto e condivisione i brani del tuo ultimo libro, Fascisti della parola (Ed. Rizzoli) riportati dal ‘Giornale’ il 28 ottobre u.s. con una spiritosa introduzione di Alessandro Gnocchi. Mi è bastata questa anticipazione per capire che stiamo sulla stessa lunghezza d’onde. Il ‘politicamente corretto’—rincarerei la dose—è il segno inquietante di una ‘cultura politica’ che non invoca più la ghigliottina né rinchiude gli oppositori nei Lager e nei Gulag, avendo capito che la violenza fisica non paga e che l’uniformità dei cittadini si raggiunge meglio aspirando (nichilisticamente, avrebbe detto Augusto Del Noce) dalle loro anime valori e ideali incompatibili con la civiltà delle ‘magnifiche sorti e progressive’. E’ l’incubo di Tocqueville che sembra divenuto realtà. Nella prima Democrazia in America (1835) si legge: «nelle repubbliche democratiche, la tirannide |..| trascura il corpo e va diritta all’anima. Il padrone non dice più: tu penserai come me o morirai; dice: sei libero di non pensare come me; la tua vita, i tuoi beni, tutto ti resta; ma da questo giorno tu  sei uno straniero tra noi. Conserverai i tuoi privilegi di cittadinanza, |…| resterai   fra gli uomini, ma perderai i tuoi diritti all’umanità. Quando ti avvicinerai ai tuoi simili, essi ti fuggiranno come un essere impuro; e, anche quelli che credono alla tua innocenza, ti abbandoneranno, poiché   li  si  fuggirebbe   a loro volta. Va’ in pace, io  ti lascio la vita, ma ti lascio una vita che è peggiore della morte.  Sotto le monarchie assolute il dispotismo era disonorato; stiamo attenti che le repubbliche democratiche non lo riabilitino e che, rendendolo più pesante per qualcuno, non gli tolgano, agli occhi della maggioranza, l’aspetto odioso e il carattere degradante» .

 C’è, però, un punto del tuo discorso che non mi ha convinto ed è quello che riguarda la patria. Scrivi giustamente: «Oggigiorno, se dichiari di colti­vare il valore della patria, vieni guardato come se fossi Matteo Messina Denaro, o anche con maggiore disgusto e disprezzo. Ami la patria? Benissimo, sei un criminale. Punto. “Patria” è una parolaccia. “Patriota” un insul­to. “Patriottismo”, invece, una sorta di spirito fascista o nazi­sta». Di questa demonizzazione però incolpi solo la sinistra. Quest’ultima  «vorrebbe che la patria venisse odiata, il concetto di patria demolito, il patriottismo av­versato, allo scopo, appunto, di dare luogo a un mondo utopistico e mostruoso, senza confini, senza barriere, senza identità, senza storia (ecco perché si mi­ra a cancellarla o a riscriverla), senza maschi e senza femmine, un mondo dove tutto è genere neutro, nulla ha una propria identità e l’individuo è numero senza opinioni dissonanti rispet­to a quelle della maggioranza». A parte le perdonabili forzature, non hai tutti torti. Sono legione i filosofi del diritto, specie di scuola analitica, che in nome dell’universalismo illuministico (alla francese) non riconoscono alla ‘patria’—o alla nazione che è sostanzialmente  la stessa cosa—alcun valore. Nella rivistina ‘Non Mollare’–quindicinale di ‘Critica liberale’ una sorta di ridotto della Valtellina del post-azionismo duro e puro–Valerio Pocar nell’articolo dio, patria, famiglia nazionali del 23 febbraio u.s—scrive che «la situazione italiana» non consente «di parlare di patria|…|. Appare evidente che in questo Paese non esiste una patria comune, ma piuttosto una pluralità di patrie, nella storia essendo state numerosissime le etnie e le corrispondenti culture che hanno formato la popolazione residente sul territorio, etnie spesso gelose, talora anche giustamente, della loro specificità». Certo Valerio Pocar, come il suo collega Luigi Ferrajoli ,non fa, opinione, essendo noto solo a una ristretta cerchia di lettori e di periodici di nicchia.. Diverso è il caso di Norberto Bobbio che, come ho rilevato in un articolo Gli sfascisti della Nazione. Da Julius Evola a Norberto Bobbio (HuffPost 21 maggio 2023)– ripreso nel libro Per un liberalismo comunitario (ed. La Vela 2023–non solo non amava i termini ‘nazione’ ,’patria’ etc.ma diffidava anche della parola ‘popolo’, che per lui sapeva di ‘organicismo’ ovvero di qualcosa di opposto alla democrazia liberale fondata sugli ‘individui’.

 

II–Detto questo, però, non si può ignorare l’apporto rilevante della cultura conservatrice, tradizio-nalista, cattolica e liberale all’appannamento dell’idea di patria–un’idea divenuta col tempo indi-sgiungibile dall’idea di nazione, da cui si distingue per la dimensione affettiva non necessariamente connaturata alla seconda: si parla, infatti , di ‘amor patrio’ non di ‘amor nazionale’. La nazione è un dato storico oggettivo, che può essere persino percepito come naturale ma che, per definizione, non è oggetto di devozione, di affetto filiale se non come sinonimo di patria.

 Nel tuo scritto, caro Feltri, parli di patria-nazione e ne attribuisci la rimozione nelle coscienze alla sinistra tout court, ignorando ad es. che furono due leader di sinistra, Bettino Craxi, con la sua idea di ‘socialismo tricolore’ e Carlo A. Ciampi a rendere omaggio all’Italia. Ricordo solo l’articolo di Francesco Damato su ‘Formiche’ del 16 settembre 2014, Perché con Carlo Azeglio Ciampo la parola Patria tornò di moda. Furono due operazioni, peraltro che non mi convinsero molto, specie la seconda, ma non è questo il punto. Se si pensa ai due eventi che hanno segnato, l’uno, la nascita dello Stato nazionale—il Risorgimento—e l’altro il suo tramonto–il Fascismo–vien fatto di chiedersi: una subcultura politica, quella della destra ,può davvero sentirsi legata a una comunità di destino se il giudizio su quei due eventi epocali non trova d’accordo tutte le sue componenti? Prendiamo il Risorgimento. Per il mondo cattolico si è trattato di una tragedia giacché aveva posto fine al  potere temporale dei papi, garante dell’indipendenza del Capo supremo della Cristianità. Per ampi strati sociali che votano a destra—e non solo nelle campagne—a nulla è valso che Paolo VI attribuisse agli artefici dell’unità nazionale  il merito di aver liberato la Chiesa dal fardello dello Stato pontificio e, soprattutto, l’impegno etico e la partecipazione attiva alle battaglie risorgimentali da parte di quella borghesia cattolica liberale che aveva espresso un Alessandro Manzoni (“un di quei capi un po’ pericolosi”, per citare Giuseppe Giusti) un Bettino Ricasoli, un Marco Minghetti, un Ruggero Bonghi, un Vincenzo Gioberti etc. etc.

 Se dall’universo cattolico si passa a quello ‘nostalgico’ dei postfascisti, il discorso non cambia poi molto, in fatto di identità nazionale. La sconfitta dell’Asse, per molti, è stata la riprova delle colpevoli fragilità del regime e della necessità di superare gli stati nazionali in direzione di un impero europeo di cui il Terzo Reich aveva in un certo senso fornito il modello (a parte il genocidio ebraico, s’intende, da nessun gruppuscolo rivendicato come ‘cosa giusta e buona’)

 E che dire poi dell’aperto rinnegamento dello Stato unitario da parte di movimenti sorti in regioni come la c.d. Padania o la Campania? Non è il caso di rivangare il passato, ma come dimenticare che il leader e fondatore della Lega si vantava di pulirsi il c.. con la bandiera tricolore? E come ignorare l’agguerrita storiografia neoborbonica che ha ripreso tutte le mitologie relative al prospero Regno delle Due Sicilie, colonizzato, martoriato e impoverito dalla ‘conquista regia’? Ai seguaci di questi movimenti a nulla potrebbe servire la lettura del saggio puntuale e documentato di Dino Messina,  Italiani per forza. Le leggende contro l’Unità d’Italia che è ora di sfatare (Ed. Solferino 2021): l’antitalianismo non si nutre di fatti ma di leggende nere; e dei grandi storici del passato—che hanno studiato il Risorgimento “con occhio chiaro e con affetto puro”—da Gioacchino Volpe a Gaetano Salvemini, da Benedetto Croce a Rosario Romeo, da Adolfo Omodeo a Walter maturi, per limitarci a questi—non potrebbe importargliene meno.

 Ma le cose cambiano radicalmente quando si entra nella ‘casa dei liberali’? Certo qui il richiamo a Cavour, a Vittorio Emanuele II (meno), ai non troppo amati Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi

è quasi obbligatorio. Ma anche qui come ignorare la voglia (segreta) di liberarsi di quelle icone ormai invecchiate per presentare i liberali come gli alfieri di una democrazia liberale, che pone lo Stato al servizio degli individui e lo legittima soltanto come garante dei loro diritti civili e politici mentre proietta l’Italia nel mondo, quasi considerandola una provincia dell’Europa unita? Correttamente Andrea Frangioni, a conclusione della voce Nazionalità (principio di nazionalità) per il ‘Dizionario del Liberalismo Italiano (Tomo I, Ed. Rubbettino 2011) ,ricorda, a partire dagli anni cinquanta «i segnali di una progressiva scomparsa del principio di nazionalità non solo dall’orizzonte della contemporaneità italiana, come notò Rosario Romeo nelle Conclusioni del suo Cavour, ma anche da quello del liberalismo italiano. Basti pensare proprio all’itinerario di ricerca nel secondo dopoguerra di un pensatore liberale importante come Alessandro Passerin d’Entreves, che coinvolse temi inediti per il liberalismo italiano come quelli del diritto all’obiezione di coscienza nei confronti dello Stato e della disobbedienza civile. Ancora si può ricordare la scarsa fortuna della dicotomia chabodiana sulle idee di nazione, confutata, già nel 1949, sulla scia delle posizioni di Hans Kohn, da Salvemini nelle sue lezioni universitarie fiorentine. Non a caso, allora, la riflessione sulla nazione non viene indicata da Nicola Matteucci tra gli elementi di quella ripresa di vitalità del pensiero liberale che a suo giudizio cominciò a manifestarsi a partire dagli anni Settanta del Novecento». Tale mancata riflessione sulla nazione da parte di Nicola Matteucci, però, non  sembra espressione di lungimiranza politica e di profondità teoretica se si pone mente allo spazio che tale tematica occupa  negli scritti di grandi liberali del Novecento come Isaiah Berlin, Raymond Aron, François Furet e, in Italia, Benedetto Croce, Rosario Romeo, Renzo De Felice.

 In Matteucci, in questo vicino a Norberto Bobbio, non c’è il sospetto che la democrazia liberale, come tutte le forme di governo, è, per così dire, una divisa istituzionale che regge nella misura in cui si adatta  al corpo che la indossa ovvero nella misura in cui  si confà alle tradizioni, agli stili di pensiero, ai costumi, alla cultura in senso lato di un popolo. Se non si fanno i conti con ciò che l’Italia è, che è stata, col suo passato drammatico e complesso, se non si medita  sul modo in cui ricostruire su valori comuni l’unità politica lasciataci in eredità dal Risorgimento, si costruisce solo sulla sabbia: la patria—ideale che accomuna—scompare ma null’altro è in grado di  sostituirla. E soprattutto non è in grado di farlo il ‘patriottismo costituzionale’ giacché sui diritti individuali in quanto tali non si fonda niente. I ’diritti universali’ acquistano peso e sostanza se sono quelli di una comunità politica che, grazie anche ad essi, vuole sopravvivere nel tempo e prosperare. L’universalismo etico-giuridico–bisogna abbattere le frontiere giacché il Diritto è eguale per tutti i figli della Terra—non è più corrosivo dell’idea di patria rispetto all’universalismo mercatista—si vende e si compra là dove è più conveniente sicché l’esportazione di capitali e di imprese all’estero non può essere ostacolata da considerazioni sovraniste, come la perdita di posti di lavoro in patria giacché la libertà dell’individuo-imprenditore viene prima della presunta ‘ragion di Stato’. Non è un caso che ormai il liberalismo italiano abbia messo in soffitta l’idea di Stato nazionale, sulla scia di correnti di pensiero che si rifanno a Karl R. Popper, all’ideologia federalista ed europeista, alla scuola austriaca e persino ai libertari anarco-capitalisti americani. Se si ritiene con Popper che < il principio dello stato nazionale |…| è un mito; è un sogno irrazionale, romantico e utopistico, un sogno del naturalismo e del collettivismo tribale> come si può prendere sul serio il culto della bandiera, l’Inno di Mameli, l’orgoglio dell’appartenenza a una comunità di destino? Anche nei quotidiani della destra liberale, grande spazio viene dato ad autori come Elie Kedourie la cui condanna del ‘nazionalismo’ fa pensare all’anti-sionismo così diffuso nella cultura di sinistra. Come l’antisionismo, in realtà, è una maschera dell’antisemitismo ed ha come obiettivo la distruzione dello stato nazionale ebraico, così troppo spesso l’antinazionalismo è il cavallo di Troia che nel suo ventre nasconde l’attacco al principio di nazionalità, sul quale Woodrow Wilson pensava di rifondare il puzzle etnico europeo, suscitando l’entusiasmo di autentici democratici italiani ed europei—v. gli scritti del grande e dimenticato filosofo del diritto, socialriformista, Alessandro Levi nonché di Gaetano Salvemini.

III–E qui cade anche il discorso sul fascismo. Non recupereremo mai il senso, dell’identità nazionale, l’amor di patria, finché il giudizio storico sul regime continuerà ad essere fonti di divisioni e di incomprensioni, finché non avremo elaborato, ma sul serio non retoricamente, il senso di una visione condivisa.

 In un generoso articolo (mai pubblicato e forse non è un caso)—ricordato da Eugenio di Rienzo nella sua bella voce ‘Patria’–sul citato ‘Dizionario del liberalismo italiano’ —Benedetto Croce rilevava, nel 1943, che l’amor di patria era una ‘parola desueta’(allora!!!): ma «deve tornare in onore appunto contro lo stolido nazionalismo, perché esso non è affine al nazionalismo, ma il suo contrario. Si potrebbe che corre tra l’amor di patria e il nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio. L’amore di patria è un concetto morale. Nel segno della patria i nostri più austeri doveri prendono una forma particolare e più a noi vicina, una forma che rappresenta l’umanità tutta e attraverso alla quale si lavora effettualmente per l’umanità tutta. Perciò,  se i nazionalismi aprono le fauci a divorarsi l’un l’altro, le patrie collaborano tra loro, e perfino le guerre tra esse, quando non si riesce ad evitarle, sono non di distruzione reciproca, ma di comune trasformazione e di comune elevamento. E poiché la patria è un’idea morale, essa ha in ciò il suo intimo legame con l’idea della libertà».

 Erano parole nobili ma dettate solo dal cuore, in cui si avvertivano lontani echi mazziniani : non a caso erano parole destinate a cadere nel vuoto. All’interno di una filosofia politica che abbia preso il pluralismo sul serio, la patria, in realtà,  non ha nessun ‘intimo legame con la libertà’ ma costituisce la base terrena su cui le ideologie—quella liberale non meno di quella totalitaria—costruiscono i loro edifici istituzionali. Una patria coesa, vigorosa, abitata da cittadini che sentono fortemente il legame comunitario, sarà una risorsa preziosa sia per il Giappone di Tojo e la Germania di Hitler sia per l’America di Roosevelt e di Eisenhower. Il fascismo volle creare la coesione nazionale sacrificando al valore comunità il valore libertà ovvero privilegiando la dimensione comunitaria sulla dimensione societaria—quella delle libertà individuali, dei diritti dell’89 e dei principi che saranno a fondamento della Carta atlantica. In tal modo rimuoveva la consapevolezza  che nel ‘mondo civile’ ci si sente a proprio agio se le due dimensioni vengono tenute costantemente in equilibrio. Come scriveva Max Weber nel 1918, mettendo in relazione la democrazia inglese con il suo imperialismo (quale linguaggio politicamente scorretto!), «Solo un popolo politicamente maturo è un ‘popolo di signori’ : è tale un popolo che ha nelle proprie mani il controllo dell’amministrazione dei propri affari e che, mediante i propri rappresentanti eletti, determina in maniera decisiva la scelta dei suoi capi politici.  |..| Solo i popoli di signori hanno la missione di intervenire sugli ingranaggi dell’evoluzione mondiale.|..| Ma una nazione che produce solo buoni funzionari, stimabili lavoratori d’ufficio, probi commercianti, eruditi e tecnici valenti, nonché servi fedeli e per il resto sopporti pazientemente una burocrazia libera da controlli sotto frasi pseudo-monarchiche—ebbene questo non è un popolo di signori e farebbe meglio ad attendere alle proprie faccende quotidiane, anziché avere la presunzione di preoccuparsi dei destini del mondo».

 Finché il fascismo , lungi dall’essere riguardato come la negazione di ogni valore (il Male assoluto), non verrà visto come la terra data alle fiamme per il trionfo di un valore unico–‘l’unità e la potenza della nazione’–sarà difficile recuperare un qualsiasi senso della patria. Quest’ultimo è possibile solo se ci si decide di assumersi collettivamente la responsabilità di quanto è accaduto nel demonizzato ventennio, se si riconosce che il fascismo fu un vulnus per la democrazia liberale ma che a prepararlo furono tutte le ‘familles spirituelles’ del paese. I cattolici che. mai del tutto riconciliati con lo stato nazionale, non vollero unirsi ai socialisti di Turati per salvare lo Statuto albertino; i liberali di governo che, come ricordava Rosario Romeo, furono incapaci di imporre la legge e l’ordine nelle piazze, per viltà e/o per opportunismo; le sinistre che ‘volevano fare come la Russia” occupavano le fabbriche, mettevano a soqquadro leghe padronali e sindacati bianchi; gli intellettuali memori del carducciano ‘ahi non per questo’—ovvero ‘non per. questo corrotto regime parlamentare s’è fatta l’Italia’.

 Nel nostro paese, la destra, se liberale, ripete stancamente con Croce che il fascismo e il nazionalismo sono i nemici più pericolosi della patria; se conservatrice o tradizionalista, si limita a riconoscere che le leggi razziali e l’Asse Roma-Berlino furono colpe inespiabili del regime. Nessuna delle due, né la destra liberale né la destra conservatrice, sembra voler acquisire la consapevolezza che il fascismo è stato ‘cosa nostra’, sia di quanti lo hanno sostenuto sia di quanti lo hanno combattuto, e che, per liberarsene davvero, occorre metterne a fuoco le negatività—certo innegabili e inespiabili—ma anche le ragioni storiche e le motivazioni ideali. La destra così gioca in ‘difesa’—non abbiamo nulla a che fare col fascismo. soprattutto con quello della seconda metà degli anni trenta—e la sinistra ‘all’at-tacco’—siete, consapevolmente o meno ,fascisti, sovranisti e populisti e quindi inaffidabili. Una partita deprimente destinata a dividere sine die gli italiani e a distruggere per sempre ogni barlume di amor di patria. Però, caro Feltri, non dare la colpa solo a una parte politica. La sinistra, leggendo le tue pagine sul declino dell’amor patrio, potrà sempre dire: “a ciò non fu’io sol”.




Premessite, la nuova malattia del politicamente corretto

Quando, un anno fa, Paola Mastrocola ed io pubblicammo (sul primo numero de La Ragione) il nostro “Manifesto della libera parola”, non pensavamo che le cose potessero cambiare granché, almeno nel breve periodo. Dopotutto, la cultura (e pure il suo doppio e rovescio: l’anticultura) si modificano lentamente, come la lingua, i costumi, le abitudini.

Ci sbagliavamo. Questi 12 mesi non sono stati tranquilli. Qualche mese dopo l’uscita del nostro manifesto, è esploso uno dei casi più gravi di repressione della libertà di parola: la prof.ssa Kathleen Stock, dell’Università del Sussex, è stata costretta alle dimissioni per le sue posizioni gender-criticalriguardo alla pretesa di scegliere arbitrariamente il genere.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, l’università di Milano-Bicocca – non paga della figuraccia rimediata qualche mese prima dalla Statale, che aveva sospeso dall’insegnamento il prof. Bassani, reo di aver condiviso su internet una vignetta sarcastica su Kamala Harris – si è prodotta in una nuova performance, cancellando un corso dello scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, colpevole di essere russo.

Sorte analoga è toccata al maestro Valery Gergiev, che avrebbe dovuto dirigere un concerto alla Scala di Milano, ma è stato rimosso per non aver preso le distanze da Putin e dall’invasione dell’Ucraina.

Quanto al prof. Orsini, esperto di geopolitica ma critico con la Nato, si è visto coancellare il contratto che lo legava alla Rai e alla trasmissione Carta Bianca, condotta da Bianca Berlinguer. A sua volta finita nei guari per il troppo spazio dato ai critici della linea ufficiale del governo.

Ma questi episodi sono solo la punta dell’iceberg. Nei primi mesi di guerra, sui grandi quotidiani come nei principali programmi televisivi, è calato un clima di censura e autocensura forse ancora più plumbeo di quello avvertito nei mesi cruciali della campagna vaccinale.

Così come, allora, ci si sentiva obbligati, prima di parlare, a premettere che si era vaccinati, si era già fatta la seconda o la terza dose, si aveva il green pass, si era favorevoli alla campagna vaccinale, così oggi – quando si parla in tv – ci si sente obbligati a premettere che Putin è l’aggressore, che l’Ucraina è l’aggredito, che non esistono giustificazioni per quel che ha fatto Putin. Se non lo si fa, o si dice qualcosa che potrebbe essere usato per attenuare le responsabilità di Putin, scatta immediatamente la reazione del conduttore, o dell’ospite più solerte, che interrompe, precisa, puntualizza, invita a chiarire.

La “premessite” è un brutto segno per la salute della libertà di espressione, perché rivela che non siamo veramente liberi di dire quello che pensiamo. Ci vantiamo di vivere in una democrazia, ci compiaciamo della nostra libertà, ma siamo ossessionati dalle conseguenze delle nostre parole. Come se l’importante non fosse se quel che diciamo è vero oppure no, ma solo come potrebbe essere interpretato, usato, strumentalizzato.

Forse il segno più chiaro della nostra illibertà è il destino dei maestri, ossia delle persone che più stimiamo e ammiriamo per il loro sapere. In una situazione normale, se un maestro dice qualcosa che non condividiamo, ci interroghiamo su noi stessi. In una situazione patologica, se un maestro dice qualcosa che infrange l’ortodossia, squalifichiamo il maestro. E’ capitato a Sergio Romano, a Barbara Spinelli, a Lucio Caracciolo di essere accusati di putinismo, solo per aver tentato di spiegare quel che è successo.

E’ il segno che la situazione non è normale, e la nostra libertà è compromessa.

(articolo pubblicato su La Ragione il 2 giugno 2022)