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A proposito dell’Ultima Cena – Libertà di espressione e indottrinamento

31 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Ha suscitato un certo scalpore l’idea degli organizzatori delle Olimpiadi parigine di educarci “alla diversità e all’inclusione” allestendo una parodia dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, con sfilata di drag queen e una (alquanto volgare) esibizione di
un attore nella parte di Dioniso, dio pagano del vino, della festa e della trasgressione.

La cosa ha ovviamente turbato una parte del mondo cristiano, suscitato le ire della destra tradizionalista, nonché attivato varie difese di ufficio da parte progressista. La cosa più divertente, però, sono state le giustificazioni degli organizzatori, e in
particolare del direttore artistico Thomas Jolly.

In un primo tempo, la risposta alle critiche è stata che il messaggio dello spettacolo di ballerine e drag queen era che “in Francia abbiamo diritto di amarci come vogliamo e con chi vogliamo”, un chiaro riferimento al mondo LGBTQ+. Nessuno ha messo in
dubbio che l’esibizione parodiasse l’Ultima Cena, mostrando Gesù e gli apostoli in abiti femminili e piuttosto discinti. Anzi non pochi hanno cominciato a tirare in ballo la libertà artistica, paragonando il caso a quello tragicamente celebre delle caricature
di Maometto pubblicate su Charlie Hebdo, che nel 2015 erano costate la vita a 12 persone, fra cui 4 vignettisti.

Passano 48 ore e, improvvisamente, la versione cambia. Anziché rivendicare la libertà artistica e i diritti LGBT, gli organizzatori fanno una clamorosa quanto tardiva marcia indietro. Il direttore artistico dice che no, è stato tutto un equivoco, lo spettacolo non alludeva all’Ultima Cena, in realtà l’idea era solo di mettere in scena “una grande festa pagana, legata agli dei dell’Olimpo”. E la direttrice della comunicazione, per mettere fine alle polemiche, taglia corto e dichiara: “Se qualcuno è stato offeso, noi ce ne scusiamo”.

L’intera vicenda è estremamente istruttiva, perché consente di mettere in evidenza due clamorose falle logiche del politicamente corretto.

La prima falla è che se, in nome dell’arte o del diritto di critica, teorizzi la libertà di canzonare le religioni, allora non puoi farlo con certe religioni (il cristianesimo) e autocensurarti con altre (l’Islam). Da questo punto di vista, sono stati più coerenti i
vignettisti di Charlie Hebdo, che hanno avuto il coraggio di infrangere il tabù che in occidente protegge l’Islam.

La seconda falla logica è che alcuni dei principi generali della wokeness sono reciprocamente incompatibili. L’idea di poter parodiare una religione senza offenderne i fedeli è chiaramente contraddittoria. Analogamente, se in nome dei diritti di alcune minoranze sessuali ne metti in scena le manifestazioni più controverse e divisive, non puoi – contemporaneamente – sostenere che la comunicazione deve essere inclusiva e non offendere nessuno. Il caso paradigmatico, in proposito, sono i vari Pride e pseudo-Pride, che sono certamente più che legittimi, ma palesemente poco inclusivi. Il problema logico è che si vogliono far coesistere due principi incompatibili: il diritto di alcuni di manifestare sé stessi in totale libertà, e il diritto di altri di non venirne offesi.

Come se ne esce?

A mio parere il nodo fondamentale è di tipo per così dire tecnologico: dobbiamo classificare i messaggi in base al supporto comunicativo, skippabile o non skippabile, su cui usano viaggiare.

Un supporto è skippabile, se permette di sottrarsi al messaggio senza costi significativi. Ad esempio, se sono musulmano posso non andare in edicola a comprare il settimanale Charlie Hebdo. Se sono un po’ bigotto, posso non andare a vedere il gay Pride. Se ho un minimo di buon gusto, posso non guardare programmi tv come Il grande fratello, L’isola dei famosi, o Temptation Island. Se m disturba la pornografia, posso evitare certi siti, certi canali, certi film.

Un supporto, invece, è non skippabile, se per sottrarsi a un messaggio indesiderato mi costringe a rinunciare ad altri messaggi, che invece mi interessano. Tipici esempi le Olimpiadi, il festival di Sanremo, il concertone del 1° maggio, eventi che la gente segue per guardare le gare di atletica e ascoltare le esibizioni, ma che sempre più spesso contengono anche messaggi “pedagogici” che una parte del pubblico può non gradire, o da cui può sentirsi offeso, turbato, o indebitamente indottrinato. Lo stesso discorso, su scala molto minore, vale per i numerosi pop-up che ci balzano addosso mentre leggiamo un articolo o navighiamo in un sito.

Ebbene, se si usa la distinzione fra messaggi skippabili e non skippabili diventa chiaro perché il parallelo fra le caricature di Maometto su Charlie Hebdo e la parodia del cristianesimo alle Olimpiadi parigine non regge. Le vignette su Maometto erano skippabili, anche se potenzialmente virali. La parodia del Cristianesimo era non skippabile perché parte integrante dello spettacolo in cui era stata impiantata. Non solo, ma quella parodia, a differenza delle vignette di Charlie Hebdo, aveva un chiaro intento pedagogico, di indottrinamento e di cosiddetta sensibilizzazione.

È questa la scorrettezza, la mossa subdola cui le direzioni artistiche non riescono più a sottrarsi: approfittare di un grande evento, come possono essere le Olimpiadi o il Festival di Sanremo, per imporre a tutti un messaggio di parte, che finge di voler includere ma offende chi non lo condivide.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2024]

Diffamazione, l’incertezza della legge

22 Maggio 2024 - di Luca Ricolfi

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12 ottobre 2023. Il tribunale penale di Roma condanna Saviano per diffamazione, infliggendogli una multa poco più che simbolica (1000 euro). Aveva dato dei “bastardi” a Salvini e Meloni per le loro posizioni anti-migranti. La mitezza della pena è dovuta al fatto che il giudice ha riconosciuto le attenuanti generiche, tra cui l’aver agito per “motivi di particolare valore morale”.

15 maggio 2024. La filosofa Donatella Di Cesare, querelata dal ministro Lollobrigida con l’accusa di diffamazione, viene prosciolta. Il ministro aveva usato l’espressione “sostituzione etnica” (presente nel lessico nazista), e lei aveva affermato che “quello del ministro non può essere preso per uno scivolone perché ha parlato da Gauleiter, da governatore neohitleriano”.

Nelle stesse ore del proscioglimento di Di Cesare, si apprende che il tribunale di Napoli ha condannato il giornalista Pasquale Napolitano a 8 mesi di carcere (pena sospesa) più una multa di 6500 euro per diffamazione a mezzo stampa: in un articolo
pubblicato sulla testata Anteprima24 aveva raccontato la vicenda del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola, rimasto in carica “attaccato alla poltrona” nonostante la mancanza di una maggioranza.

Parrebbe dunque sussistere una gerarchia: “attaccato alla poltrona” è un insulto gravissimo, che ti fa meritare il carcere “bastarda” è un po’ meno grave, specialmente se lo dici per motivi di particolare valore morale; invece “governatore
neohitleriano” si può dire tranquillamente, se sei un professore e fai un paragone storico.
Ma c’è una logica, in tutto questo?

Non saprei. Se proprio dovessimo trovarne una, si potrebbe ipotizzare che nella testa dei giudici viga una sorta di sottile scala di gravità, che distingue fra offese alla persona in quanto tale, offese alla persona in quanto ha fatto qualcosa, e offese alla
persona in quanto somigliante a una persona negativa:
(i) sei un bastardo;
(ii) ti sei comportato da bastardo;
(iii) parli come quel bastardo di…

Forse capiremo meglio dopo il 7 ottobre di quest’anno, quando il prof. Luciano Canfora andrà a giudizio per aver affermato in pubblico (in un liceo di Bari) che Giorgia Meloni è “neonazista nell’animo”. Se Canfora dovesse essere condannato, potremmo forse inferirne che quel che il giudice punisce sono gli attacchi diretti alla persona in quanto tale, a prescindere dalla gravità dell’accusa (incollato alla poltrona, neonazista nell’animo). Se Canfora dovesse essere assolto dovremmo forse inferirne
che gli intellettuali, come lui e la professoressa Di Cesare, godono di speciali immunità quando le loro offese (neohitleriano, neonazista nell’animo) sono pronunciate nell’ambito di un ragionamento storico, sociologico, o filosofico.

Vedremo. Quel che resterà comunque in piedi è il problema di conciliare libertà di espressione e rispetto della persona umana, due principi inevitabilmente destinati a confliggere fra loro. Sarebbe già un grande progresso, però, che i giudici non peggiorassero le cose spostando continuamente – e soprattutto soggettivamente – il confine fra quel che si può dire e quel che non si può dire in pubblico. Perché oggi l’unica certezza che ci accompagna è la consapevolezza che, da qualsiasi lato ci troviamo – accusati o accusatori – il nostro destino molto dipende dal giudice nelle cui mani siamo capitati.

[articolo inviato a La Ragione il 19 maggio 2024]

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