Follemente corretto – LGBTQIAPK+

Che fra sesso e cibo vi sia una stretta relazione è noto da tempo: medici, psicologi, sessuologi ci spiegano che le aree del cervello attivate sono le stesse, e che il meccanismo chiave del piacere è il rilascio di dopamina. E certo non stupisce il fatto
che, nelle nostre società opulente, in cui la maggior parte della popolazione si è lasciata alle spalle i problemi della mera sussistenza, una quota altissima della vita sociale sia dedicata al cibo e al sesso, processati, ostentati, condivisi in innumerevoli
forme e varianti. Sul versante del food: ricette di cucina, tornei fra aspiranti chef, festival gastronomici, circolazione impazzita di foto che riprendono quel che si sta mangiando o cucinando. Sul versante del sesso: sfruttamento intensivo del corpo femminile nella pubblicità e nel cinema, pornografia on line, sexting (invio di immagini osé) più o meno spinto e più o meno precoce. Cibo e sesso sono diventati i capisaldi delle nostre società, e occupano una frazione sempre maggiore del nostro tempo.

Non è una novità. È dagli anni ’80, dalla stagione del riflusso nel privato, che il trend è quello. Però c’è una differenza, fra allora e oggi. Allora la società edonistica, basata sul piacere, sul sesso e sul cibo, era vista come una espressione delle politiche liberiste di Reagan e della signora Thatcher, una equazione che, nel decennio successivo, parrà confermata con l’ascesa di Berlusconi e della tv commerciale, visti come coronamento e perfetti interpreti dell’ “Edonismo Reaganiano” (copyright Roberto D’Agostino). L’ossessione per il sesso, insomma, era una cosa di destra. Oggi non più. Oggi il sesso, anzi le infinite sfumature della sessualità, in tutte le loro manifestazioni – orientamento sessuale, identità di genere, percezione del corpo, relazioni di coppia, genitorialità, aspirazioni e fantasie varie – hanno progressivamente monopolizzato l’attenzione del mondo progressista. Se nel primo ventennio della seconda Repubblica il sesso e tutto ciò che gli ruota intorno sono stati la marca distintiva del berlusconismo, dalla metà degli anni ’90 l’ossessione sessuale ha cambiato campo e forma: da allora è nel mondo della sinistra che le tematiche del sesso e del genere trovano sempre più spazio e ascolto. Alle lotte per i diritti sociali, centrate sugli interessi dei ceti popolari, subentrano quelle per i diritti civili, a partire da quelli di due specifiche minoranze sessuali: i gay e le lesbiche. Poco per volta, la stella polare dell’uguaglianza, che aveva sempre guidato i partiti progressisti, cede il passo a quella dell’inclusione.
Ma che vuol dire inclusione?

Apparentemente, significa allungamento della lista delle minoranze sessuali protette. Prima GLB, ossia gay, lesbiche e bisessuali. Poi, in omaggio al gentil sesso, LGB, ossia la medesima sigla a 3 lettere con inversione di posto fra G di gay e L di lesbiche. Poi LGBT, con l’aggiunta della T di transessuali. Fin qui tutto abbastanza chiaro e comprensibile. Le lotte a tutela di queste minoranze hanno condotto, in molti paesi, a riconoscere sempre nuovi diritti, talora anche per altre categorie: matrimonio ugualitario, unioni civili, leggi a supporto della genitorialità (adozioni, fecondazione in vitro, inseminazione artificiale), legalizzazione della gestazione per altri (GPA), leggi per favorire il cambiamento di sesso, nuovi reati per punire i crimini d’odio verso le varie minoranze sessuali. Poi però le cose hanno preso una piega strana. La sigla LGBT si è arricchita di nuove lettere: Q per queer (o questioning), I per intersessuale, A per asessuale, da cui l’acronimo allungato LGBTQIA+, il più usato degli ultimi anni. E infine ci sono le proposte più audaci, che da qualche tempo insistono per allungare ancora la lista delle minoranze sessuali con le lettere P di pansessuale e K di kinky, fino all’acronimo-mostro LBGTQIAPK+.

Vediamo il significato di alcune di queste parole recenti. La parola queer allude all’incertezza sulla propria identità sessuale o di genere. Asessuale vuol dire persona che non ha interesse per il sesso. Pansessuale, che prova attrazione per persone di qualsiasi sesso: maschi, femmine, non binari. Kinky che è appassionato di pratiche sessuali non convenzionali (comprese quelle sadomaso).

Siamo sicuri che tutte le lettere del super-acronimo individuino categorie oppresse, perseguitate, vittime di odio, e quindi degne di protezione? Che senso ha, con tutte le minoranze fragili, oppresse, emarginate, iper-sfruttate che affollano la vita sociale,
continuare ad allungare la lista delle minoranze sessuali? Perché la sinistra, come a suo tempo (e a modo suo) la destra, è così ossessionata dai problemi del sesso?

[Articolo uscito sulla Ragione il 17 luglio 2024]




L’eterna illusione liberale

Luca Ricolfi è un analista politico che ha scelto “il lavoro intellettuale come professione” e lo pratica seguendo la lezione di Max Weber. ”Sì rade volte, Padre, se ne coglie” nel nostro paese in cui gli scienziati politici, che collaborano ai grandi giornali, sono diventati  banditori al servizio dei partiti  o dell’establishment politico-culturale. Nell’editoriale del  ‘Messaggero’ del 27 ottobre u.s., “Conoscere le culture per lavorare per la pace”, ha scritto che dovremmo fare uno sforzo per entrare nella testa di israeliani e palestinesi” per renderci conto “che sia la società israeliana sia la società palestinese sono (ancora) società ’durkheimiane’ in cui l’individuo è meno importante dell’entità collettiva cui appartiene (comunità, stato, nazione”. Non si può che essere d’accordo. E tuttavia bisogna stare in guardia dall’eterna illusione liberale che i due opposti, la ‘comunità chiusa’ dei potenziali martiri della fede e la ‘società aperta’, la società degli individui, siano i due brodi di coltura alla base dello Stato autocratico, teocratico, totalitario etc., nel primo caso, e dello stato democratico, liberale, tollerante nel secondo. In realtà, “ ci son più cose in cielo e in terra  di quante ne sogni la filosofia” occidentalista. Lo Stato liberale classico non guardava agli individui, uti singuli, ma alle persone nella ricchezza delle loro determinazioni storiche, culturali, etiche. Era lo Stato, sì, al servizio delle persone, e non viceversa, ma essere al servizio delle persone non significava soltanto garantire ai cittadini la ricerca della felicità ovvero le libertà civili e politiche e il perseguimento dei loro interessi privati ma proteggere, custodire, arricchire le tradizioni e le  istituzioni all’interno delle quali “ci si sentiva a casa”, per citare Isaiah Berlin. Non si muore per la Francia perché in Francia ognuno può arricchirsi e dire liberamente la sua: anche in altri paesi europei questo accade e, forse, meglio che a Parigi o a Marsiglia. Il dramma dei paesi euro-atlantici è il venir meno delle motivazioni ideali che portano la gente a sacrificare vita, tempo e denaro per  una causa. Sennonché le civiltà fondate sull’individualismo libertario e mercatista non soprav-vivono a lungo.




Giovanni Amendola eroe del liberalismo che amava la nazione (e capì il fascismo)

Giovanni Amendola. Una vita in difesa della libertà (Ed. Rubbettino) è il titolo del volume collettaneo, a cura di Elio d’Auria, lo storico che ha dedicato un’esistenza allo studio e alla raccolta di scritti del leggendario capo dell’opposizione aventiniana al fascismo. Della complessa e poliedrica personalità di Amendola vi vengono analizzati quasi tutti gli aspetti: dal filosofo (Girolamo Cotroneo, Angelo Sabatini), al pubblicista (Mario Pendinelli, Sandro Rogari, Gerardo Nicolosi), dallo statista (Federica Guazzini) al teorico di una nuova democrazia (Fabio Grassi Orsini, Luigi Compagna). Non mancano capitoli di grande interesse sulle ‘amicizie politiche’ di Amendola (Sergio Zoppi, Lucio D’Angelo), sulle sue idee economiche (Guido Pescosolido), sulla sua analisi del fascismo (Giuseppe Bedeschi).

Sintetizzando il significato più profondo dell’impegno etico-politico amendoliano, ha scritto d’Auria: «La battaglia che egli combatté in difesa della libertà e della democrazia, si concentrò nel ridare allo Stato l’autorità di organismo al disopra delle parti che risolveva i conflitti sociali e politici attraverso la libera partecipazione dei cittadini all’esercizio degli affari pubblici» Alla forte valenza mazziniana di tale battaglia si era richiamato il prestigioso storico cattolico Gabriele De Rosa: «Tutta la pubblicistica amendoliana—si legge in un saggio del 1961— si muove attorno a una concezione mazziniana della democrazia, attorno a una concezione, cioè, in cui l’istanza parlamentare è subordinata all’idea dello Stato nazionale, come espressione degli interessi e delle aspirazioni ideali di una comunità che non esaurisce la sua vita pubblica in quella delle classi e dei partiti».

In un’epoca, come la nostra, in cui il Risorgimento, i suoi ‘eroi’, i suoi simboli sembrano tramontati nelle coscienze e nel ricordo degli Italiani, non può che apparire inattuale la lezione del  filosofo napoletano che rivendicava con forza il nesso tra lo stato nazionale, la democrazia e i diritti di libertà: un nesso che le giovani generazioni, va detto francamente, non sentono più, anche per colpa dei petulanti revisionismi storici che, presenti persino in trasmissioni televisive di grande ascolto (v. ‘Made in Sud’), dileggiano la fede dei ‘nostri padri’—di Francesco De Sanctis, di Benedetto, Croce, di Giustino Fortunato, di Gaetano Salvemini, di Gioacchino Volpe, di Rosario Romeo etc. etc.—riproponendo vetusti luoghi comuni come il ‘saccheggio piemontese’.

Introducendo la raccolta dei suoi scritti politici, chiestagli da Piero Gobetti, Amendola ricordava con orgoglio il principio ideale a cui aveva ispirato tutta la sua vita di filosofo e di combattente. «Tale direttiva si riassume in una appassionata ed incrollabile fede nello Stato nazionale, concepito come la sola creazione veramente rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano, e come la sola garanzia efficace del suo avvenire; ed in una consapevole volontà di azione rivolta ad introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato, allargando, profondando e consolidando le sue fondamenta in tutta 1’estensione spirituale della coscienza italiana». Di qui, altro motivo della sua inattualità, il suo liberalismo anti-individualista che lo portava a scrivere: «L’individuo non ha diritti assoluti contro la tradizione e contro la società; perché tradizione e società entrano a costituirlo in larga misura. Pertanto l’autonomia del singolo, su cui è fondata la libertà civile, non assolve l’individuo dalle sue responsabilità verso il passato, il presente e l’avvenire della società in cui egli vive; ma anzi le rende più precise ed imperative».

Ne derivava una strategia dell’attenzione verso Mussolini—v. il magistrale saggio Bedeschi—nutrita di illusioni comuni a gran parte dei liberali del suo tempo (sulla possibile costituzionalizzazione del fascismo) ma, altresì, capace di porre problemi cruciali che la retorica antifascista e resistenziale ha azzerato. Non si tratta per lui solo di riconoscere che contro la ‘minaccia del bolscevismo dissolvitore’ il fascismo (siamo nel 1922!) «rappresenta una tutela, la cui persistenza continua ad essere necessaria, una garanzia per l’avvenire del nostro Paese» ma di ben altro: del tentativo, appunto, di «introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato», nella fattispecie, «l’Italia di Vittorio Veneto». Per Amendola la vera tragedia italiana sta nel fatto che una reazione ‘sana’, quella fascista, si sia trasformata nella demolizione dello ‘Stato di diritto’ e che il rimedio sia risultato peggiore della malattia. Risposta sbagliata a un problema reale, quindi: è quanto una storiografia anpista e faziosa si ostina ancora a non vedere.

Alla luce di questi rilievi, ci si chiede davvero chi possa essere interessato al pensiero di Amendola: non gli antisovranisti duri e puri, per i quali lo Stato nazionale è un fantasma di cui ci si deve disfare al più presto; non i neo-liberali per i quali un liberalismo anti-individualista sarebbe un ossimoro; non gli idolatri del nuovismo, per i quali destra e sinistra non stanno sullo stesso piano, giacché l’una è la reazione e l’altra il progresso (Amendola aveva denunciato il ‘bacillo deleterio’ che portava a non riconoscere più nello stato democratico il garante della civile competizione tra destra e sinistra); non i fanatici della globalizzazione, che non intendono più il nesso aristotelico, chiaro ad Amendola, tra la forza delle classi medie e la vitalità della democrazia liberale. (v. l’opportuno cenno di Pescosolido).

E tuttavia il ‘superato’ Amendola fuori d’Italia non si troverebbe oggi in cattiva compagnia. Da anni, infatti, in Francia come nei paesi anglosassoni, la demonizzazione dello Stato nazionale è oggetto di profonda revisione critica. Autori come Abigail P. Aguilar, Yoram Hazony, Pierre Manent, David Miller, Roger Scruton, Yael Tamir parlano di «liberal nationalism» in un senso che sarebbe piaciuto molto al grande antifascista. Uno dei più importanti sociologi del nostro tempo, Edward Shils  nel 1995 aveva scritto in Nazione, nazionalità, nazionalismo e società civile: «I diritti nascono dall’essere membri di una collettività indipendentemente dal fatto di venire etichettati come ‘diritti umani’. Essi sono rivendicazioni nei confronti degli altri membri della collettività, non sono diritti che un individuo  possiede per il semplice fatto di appartenere alla specie homo sapiens; egli chiede e ottiene diritti come conseguenza dell’essere membro di una collettività.». Amendola avrebbe condiviso toto corde.

Articolo pubblicato su Il Giornale del 5 aprile 2019