L’eterna illusione liberale

Luca Ricolfi è un analista politico che ha scelto “il lavoro intellettuale come professione” e lo pratica seguendo la lezione di Max Weber. ”Sì rade volte, Padre, se ne coglie” nel nostro paese in cui gli scienziati politici, che collaborano ai grandi giornali, sono diventati  banditori al servizio dei partiti  o dell’establishment politico-culturale. Nell’editoriale del  ‘Messaggero’ del 27 ottobre u.s., “Conoscere le culture per lavorare per la pace”, ha scritto che dovremmo fare uno sforzo per entrare nella testa di israeliani e palestinesi” per renderci conto “che sia la società israeliana sia la società palestinese sono (ancora) società ’durkheimiane’ in cui l’individuo è meno importante dell’entità collettiva cui appartiene (comunità, stato, nazione”. Non si può che essere d’accordo. E tuttavia bisogna stare in guardia dall’eterna illusione liberale che i due opposti, la ‘comunità chiusa’ dei potenziali martiri della fede e la ‘società aperta’, la società degli individui, siano i due brodi di coltura alla base dello Stato autocratico, teocratico, totalitario etc., nel primo caso, e dello stato democratico, liberale, tollerante nel secondo. In realtà, “ ci son più cose in cielo e in terra  di quante ne sogni la filosofia” occidentalista. Lo Stato liberale classico non guardava agli individui, uti singuli, ma alle persone nella ricchezza delle loro determinazioni storiche, culturali, etiche. Era lo Stato, sì, al servizio delle persone, e non viceversa, ma essere al servizio delle persone non significava soltanto garantire ai cittadini la ricerca della felicità ovvero le libertà civili e politiche e il perseguimento dei loro interessi privati ma proteggere, custodire, arricchire le tradizioni e le  istituzioni all’interno delle quali “ci si sentiva a casa”, per citare Isaiah Berlin. Non si muore per la Francia perché in Francia ognuno può arricchirsi e dire liberamente la sua: anche in altri paesi europei questo accade e, forse, meglio che a Parigi o a Marsiglia. Il dramma dei paesi euro-atlantici è il venir meno delle motivazioni ideali che portano la gente a sacrificare vita, tempo e denaro per  una causa. Sennonché le civiltà fondate sull’individualismo libertario e mercatista non soprav-vivono a lungo.




L’Occidente e il deficit di cultura liberale – Una risposta a Marcello Veneziani

I. Su ‘La Verità’ del 13 ottobre u.s., Marcello Veneziani ha scritto un lungo articolo, in realtà, un vero e proprio saggio storico-filosofico, sull’Occidente peggiore nemico di se stesso. In esso manifesta tutto il disagio di chi, come lui, da un lato, “ama la civiltà da cui proveniamo” e dall’altro  “detesta la sua decadenza e il suo rinnegamento”. Il primato dell’individualismo, dell’economia, della tecnica, “l’assenza di valori salvo i codici woke, black o politicamente corretti” a suo avviso non sono  valori  per cui vale la pena ancora battersi. L’Occidente “che rinnega la sua civiltà, la sua identità e le sue radici greche, romane e cristiane” è un’idea da accantonare. L’occidentalista – di cui  abbiamo tanti esempi sui grandi giornali, soprattutto tra gli scienziati politici divenuti quasi tutti predicatori delle crociate ‘antifasciste’(!) – alla fine difende “solo il suo livello di benessere e la sua potenza, rinunciando a tutto il resto, mettendo a rischio pure la libertà e la democrazia”.

E’ un discorso che non può non far presa su un liberale ‘ottocentesco’, come lo scrivente, per il quale la ‘comunità politica’(ieri lo stato nazionale, domani chissà cosa) non è la nemica dei diritti civili e politici, né della logica del mercato ma costituisce il sostrato terreno che sostiene gli uni e l’altra sicché il suo dissolvimento nell’embrassons nous universalista non rappresenta un progresso ma il temuto trionfo del nichilismo. Condivido anche quanto dice Veneziani in polemica con chi “risolve tutto agitando senza indugi le bandierine del momento, quella ucraina, quella israeliana, come fa il presente governo; accetta l’elementare manicheismo dei media e dei soggetti più forti d’Occidente, non si pone domande critiche, non riconosce i precedenti e i presupposti, non vede le cose da più punti d’osservazione, non calcola gli effetti a lungo raggio, i dolori e i risentimenti di rivalsa che suscita. Divide in assoluto tra vittime e carnefici, senza porsi il problema se i carnefici di oggi sono le vittime di ieri e viceversa; è più facile il messaggio e magari è più vantaggioso, anche sul piano personale” Per chi ama la realtà e la verità e ha a cuore alcuni principi, avverte Veneziani, non ci sono soluzioni semplici e unilaterali al grande conflitto planetario esploso dopo l’invasione russa dello stato ucraino (sovrano e multinazionale) ieri e alimentato a dismisura oggi dall’attentato terroristico di Hamas. Personalmente ritengo che i tagliagole islamici si sono abbandonati a tali atti di crudeltà da far impallidire gli stessi guardiani nazisti dei Lager che incolonnavano uomini, donne, bambini verso i forni crematori ma non infierivano sui loro corpi, non decapitavano bambini, non si esaltavano nel versare il loro sangue. E un discorso analogo va fatto per il comunista Pol Pot che erigeva piramidi di teschi ma si asteneva (sembra) dall’uccidere i bambini. Se fossi un dirigente israeliano non avrei alcuna difficoltà ad applicare ai responsabili dei massacri nel kibbutz Be’eri  la Legge Eichmann, perseguitandoli in ogni angolo del mondo, per poi impiccarli e disperderne le ceneri nel Mediterraneo. Detto questo, però, sono d’accordo anch’io con le conclusioni dell’articolo: “sconfiggere il terrorismo di Hamas è una priorità da condividere, ma il programma non può essere solo la salvaguardia di Israele, sacrosanta, senza considerare la necessità di garantire la vita al popolo palestinese e dar loro uno stato e un territorio. Le frustrazioni e i diritti elementari negati armano gli estremismi e minano il futuro assai più delle trattative e dei negoziati”.

C’è però un punto – cruciale – in cui mi sento di prendere le distanze da Veneziani. Le società occidentali, a suo avviso, ormai condizionate dall’individualismo, dal benessere, dal mercato non hanno altri valori. Posso essere anche d’accordo a patto di aggiungere che, però, hanno una risorsa che manca nel resto del mondo: la libertà di parola, il diritto al dissenso e a far mancare la propria cooperazione al potere. Abbiamo milioni di difetti noi euro-occidentali ma  la libertà di dire nonon ce la toglie nessuno, nonostante  i duri colpi che a tale libertà danno il politicamente corretto e una political cultureche, in Italia ad esempio, in nome dell’antifascismo, dell’antisovranismo, dell’antipopulismo cerca vanamente di mettere a tacere ogni voce fuori dal coro. Se dovessi fare un’ipotesi sulle ragioni di tale risorsa, non le troverei nella dimensione culturale – sovrastrutturale, avrebbe detto il vecchio Marx – ma in quella sociopolitica. Siamo privilegiati del destino giacché, nella nostra parte di mondo, i vari poteri che cementano la coesione sociale – quello spirituale, quello politico, quello economico: oratores, bellatores, laboratores – non sono stati mai monopolizzati da nessuna autorità superiore. E i regimi totalitari (ma anche autoritari) che hanno tentato di farlo sono finiti sempre male. E’ questa base storica oggettivamente ‘ingovernabile’ la garante delle nostre libertà non le retoriche partorite nelle menti degli intellettuali, oggi sedicenti tutti liberali. Questo è vero, soprattutto, del nostro paese in cui l’identità politica è sempre stata un’identità polemica e l’ “altro” è una figura che non si può certo eliminare – la Costituzione sta lì a salvaguardia di tutte le parti in conflitto – ma si può sempre delegittimare moralmente e culturalmente.

II. L’ideale di tanti politici e intellettuali, da noi,  è quello di monopolizzare la legittimità politica, lasciando fuori dalla sua area gli attori, per varie ragioni, poco rispettabili. Sennonché, fino a quando si può votare liberamente le divisioni sociali ‘strutturali’ non consentiranno mai tale appropriazione indebita. Negli anni in cui, in seguito a Mani pulite, la sinistra sembrava ormai venire incontro alle aspettative del paese e pronta a insediarsi nei palazzi del potere chissà per quanti anni, la gioiosa macchina di guerra di Achille Occhetto venne fatta a pezzi da una maggioranza silenziosa che aveva interessi e valori da tutelare molto diversi da quelli che parevano ormai prevalenti e vincenti. L’esempio più emblematico dell’impossibilità di una parte della classe politica di identificarsi con le istituzioni, mettendo alla porta tutti i concorrenti, è la costituzione del PD nel 2007. Conosco non pochi esponenti del PD degni di stima e per i quali  sarei tentato di votare, se li avessi nel mio collegio elettorale ma tale considerazione non m’impedisce di  metterne in luce il fondo inconsapevolmente ‘totalitario’ se non ‘integralistico’ in una delle due accezioni del termine, riferita a “ogni concezione che, in campo politico (ma anche sociale, economico, culturale), tenda a promuovere un sistema unitario, ad abolire cioè una pluralità di ideologie e di programmi, sia appianando contrasti e divergenze tra gruppi contrapposti e conciliando tendenze ideologiche diverse”. Esponendo nelle sezioni di partito i ritratti di Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi i fondatori del PD, in sostanza, si ponevano come asse portante del sistema politico dal momento che nel comune contenitore ideologico (assolutamente inedito nella storia della democrazia in Europa) confluivano le due ‘scuole di pensiero, la cattolica e la comunista, divenute, nel secondo dopoguerra. le aziende più importanti – a livello sindacale, sociale, culturale – del mercato politico nazionale. Saltavano così le linee divisorie garanti di quella dialettica politica che, nelle democrazie a norma, prevede una maggioranza di governo e una minoranza di opposizione, nonché l’alternanza di ruolo in seguito al responso delle urne. Le forze che si coagulavano attorno al PCI e alla DC, espressione dei diversi interessi e valori in competizione nelle società aperte, univano le proprie risorse ma senza poter rispondere alla domanda: chi sarebbe rimasto fuori da questa union sacrée e come considerarlo? Se il meglio delle tradizioni politiche nazionali si era fuso nel PD, quale legittimità poteva ancora rivendicare una forza di opposizione? Riappariva un vecchio costume di casa, quello di declassare gli avversari nella lotta per il potere a nemici del bonum commune e delle istituzioni, naturalmente, per il PD, quelle nate dalla Resistenza e dalla lotta antifascista.

Sennonché le masse non hanno premiato quanti proclamavano che la salus rei publicae suprema lex esto e di quella salus se ne facevano custodi e medici, sicché nell’impossibilità di disarmarli di nuovo con un ‘governo di tecnici’ si è tentati di seppellirli sotto la solita valanga di accuse—fascismo, sovranismo, populismo, nazionalismo, antieuropeismo etc. Col risultato di far dimenticare le reali pecche dell’esecutivo di centro-destra e le proposte di leggi sbagliate o abortite.

III. Dovrebbe essere chiaro il senso di questa digressione, sine ira ac studio, sul PD. E’ il ‘costume’ politico che m’interessa non le battaglie che non finiscono mai tra una sinistra (che si crede votata dalle persone per bene) e una destra (per definizione poco raccomandabile). Ciò che intendo ribadire è molto semplice: almeno in Italia, per la salvaguardia del bene più prezioso per un liberale, la libertà – di parola, di associazione, di critica etc. – non c’è da fare alcun affidamento sulla political culture, insegnata nelle Università, propagata dai mass media. Il liberalismo alla Isaiah Berlin, alla Raymond Aron ma anche alla Benedetto Croce è un’esile pianticella esposta alle tempeste di una lotta politica, de facto, senza regole. A garantire le nostre libertà sono le nostre divisioni storiche, il fatto che la società civile è da sempre dilacerata, sicché a nessuna parte è consentito di unificarne, sotto il suo controllo, tutte le risorse, ideali e materiali. Non è quanto passa nelle menti dei filosofi politici, degli scienziati politici, degli storici ’impegnati’ a rassicurarmi sulla tenuta delle nostre libertà. Ormai si dicono tutti ‘liberali’ anche quanti scrivono sul ‘Domani’ o sul ‘Manifesto’—“quotidiano comunista” ma de facto sono i guerrieri nascosti nel cavallo di Troia (forse inconsapevolmente) per mettere a sacco e  a fuoco la ‘società aperta’.

E’ l’anarchia–nel senso della mancanza di un’autorità spirituale e temporale suprema– che ci protegge: le nostre libertà nascono negli interstizi di corposi interessi materiali in insanabile con-trasto e di ideali – legati al passato o proiettati nel futuro – che non intendono lasciarsi assorbire.
Tutto questo, agli occhi di un tradizionalista come Veneziani, può essere desolante: significa, infatti, che non ci sono ‘valori comuni’ a tenerci uniti – il tentativo di crearne fatto dal fascismo finì nelle leggi razziali, nell’alleanza con Hitler, nella catastrofe bellica – ma ci sono crepe antiche che ci consentono di raggiungere una barricata se in un’altra ci sentiamo poco protetti.

Quanto può durare tutto questo? E’ difficile dirlo. In ogni caso, non resta che rassegnarci, pensando al privilegio che nessuno ci ha ancora tolto e su cui non poteva contare Trilussa, sotto il regime fascista, quando scriveva nel sonetto All’ombra (riportato poi nel monumento a Trastevere a lui eretto del 1954): Mentre me leggo er solito giornale/ spaparacchiato all’ ombra d’un pajaro/ vedo un porco e jè dico: Addio maiale./ vedo un ciuccio è je dico: Addio somaro./ Forse ste bestie nun me capiranno /ma provo armeno la soddisfazione de potè di le cose come stanno/ senza paura de finì in prigione”. Oggi non finiamo in prigione neppure se critichiamo (lo fanno pochissimi) il Presidente della Repubblica per le sue omelie antifasciste fuori stagione. Indubbiamente, il con-flitto tra potentati non protegge il dissenziente da sanzioni indirette, talora pesanti, comminate dall’establishment. A un Roberto Vivarelli che avesse scritto l’esemplare, civilissimo, saggio  La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Ed. Il Mulino 2000) nessuno avrebbe garantito il più che meritato cursus honorum accademico  .

Tanti anni fa l’allora direttore de ‘La Stampa’, il compianto Arrigo Levi, a Domenico Settembrini, autore di un articolo in cui si criticava Palmiro Togliatti, faceva notare. ”Caro Professore si rende conto delle migliaia di operai comunisti che lavorano per la Fiat e del fatto che un giornale della Fiat non può pubblicare  una critica così dura del leader del PCI?”. C’erano, però, altri quotidiani che avrebbero ospitato (e ospitarono) gli articoli di Settembrini giacché la libertà di stampa nel nostro paese non è mai venuta meno. E’ vero, erano quotidiani meno letti de ‘La Stampa’ sennonché bisogna prendere atto che, in Italia, il pubblico di lettori moderati o conservatori è molto meno numeroso di quello della sinistra – basta entrare in una Libreria Feltrinelli per rendersene conto. Delle ‘due culture’ nazionali quella progressista recluta più proseliti di quella liberal-conservatrice ma la colpa non è sicuramente della mancanza di libertà. Liberi son tutti e se le risorse a disposizione sono ineguali dipende anche dall’ incapacità a reperirle – o forse meglio  dalla  sottovalutazione del momento culturale come fabbrica del consenso. In fondo la woke culture da noi non infierisce come negli Stati Uniti. E nessuno può neppure immaginare di mettere il bavaglio a Marcello Veneziani.

[Intervento uscito sul blog del ‘Corriere della Sera’ La nostra storia, di Dino Messina]

 




Il declino dell’Occidente. Se spariscono critica e dubbio si uccide la liberal-democrazia

Ferdinando Adornato e  Rino Fisichella hanno dialogato, in un libro pubblicato da Rubbettino (a cura di Gloria Piccioni), sul problema cruciale del nostro tempo, La libertà che cambia. Dialoghi sul destino dell’Occidente. ”Mi sono chiesto, scrive Adornato, quale sia il vero senso delle riflessioni raccolte in questo volume. Ebbene, credo si possa dire che siamo entrambi andati alla ricerca dei motivi che possano rimotivare una grande alleanza tra la fede e la ragione. Tra il pensiero cristiano”. Insomma, il vecchio progetto che ispirò la nascita del ‘Multino” prima che diventasse una delle tante riviste del pensiero unico della sinistra.

Dico subito la dimensione etico-teologica del saggio mi sembra non poco problematica. Quando leggo  certe riflessioni–”.. se la libertà non avesse relazione con la verità, come potrebbe, anche un non credente, decidere cos’è il Bene e cos’è il Male? In base a quale ordine di valori si potrebbe decidere che Hitler o Stalin sono il Male? Chi ha stabilito, infatti, che uccidere o fare del danno agli altri è peccato se non le Tavole della Legge oppure, se si preferisce, i precetti dell’ordine naturale? In base a quale altro criterio di verità un essere umano potrebbe definire la propria e l’altrui libertà?”–mi vengono in mente non solo le parole di Ponzio Pilato,”quid est veritas?’ma, altresì, il   libro di un filosofo del diritto analitico, Etica senza verità. In politica non ci sono verità ma valori in conflitto di cui dobbiamo essere realisticamente consapevoli. Per citare Joseph A. Schumpeter: “Rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare, è ciò che distingue un uomo civile da un barbaro”. Parlare di una scienza del bene e del male significa, in ultima istanza, ignorare che l’essenza della democrazia sta nel registrare le cose che i cittadini, di volta in volta ,ritengono buone  o cattive.

Più convincente, invece, è la critica (sia pur non nuova) dell’individualismo dei diritti che sta inaridendo le società occidentali.” In sostanza, scrive Adornato, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si è fatto strada un convincimento generale che ha assunto quasi le sembianze di verità di fede. E cioè l’idea che il benessere di una democrazia sia direttamente proporzionale all’estensione dei diritti individuali. Più diritti per l’individuo=più democrazia. Da allora in poi, sulla base di questa equazione, ogni provvedimento teso a far prevalere “diritti di comunità” (o soltanto norme di tutela collettiva) sui “diritti individuali” è stato letto come un “attentato alla democrazia”. Ed è logico: se la bontà del sistema viene vista unicamente nella realizzazione di un’illimitataespansione dell’individuo, qualsiasi proposta che punti a perseguire un equilibrio tra valori comunitarie diritti individuali non può che essere ritenutaantidemocratica. Lungo questa strada laicista, però,non viene colpita soltanto la morale cattolica: vienemessa fuori gioco qualsiasi nozione di etica pubblica. Escluso, ovviamente, il precetto della totale soddisfa-zione esistenziale” <L’esasperata ricerca della soddisfazione del diritto individuale—gli fa eco Fisichella—sta distruggendo il diritto sociale>.

 Sulle cause di questo oscuramento dell’intelligenza occidentale, gli autori però non vanno a fondo: non c’è traccia nel libro dell’imponente letteratura che, sulle due rive dell’Oceano, ha analizzato il nesso tra il declino della comunità politica (lo stato nazionale) e l’affermazione di quell’universalismo etico, giuridico ed economico inteso a delegittimare tutto ciò che si riferisce al ‘particolare’—dalla famiglia alla nazione. Penso ad autori come Pierre Manent, Pierre-André Taguieff, Yael Tamir, Margaret Canovan, lo stesso Yoram Hazony.

Adornato, in particolare, che pure stila una sorta di catalogo del conservatore, entra in polemica con una sinistra—ormai sparita–che al liberismo etico unirebbe stranamente uno statalismo economico, impensabile oggettivamente senza sovranismo. E’ come se  le analisi di Luca Ricolfi sulle metamorfosi della sinistra fossero cadute nel vuoto. In realtà, quella odierna è una sinistra europeista, globalista, iperatlantista (George Soros non è certo un simbolo di destra) che non dovrebbe dispiacere ad Adornato, che citando <una (per lui) felice espressione di Biagio de Giovanni> parla dell’emergere di uno <scontro tra ’potere orientale’(Russia, Cina, India, Iran) e ’potere occidentale’>che vede esploso nella guerra russo-ucraina. E’il  leit motiv di ‘Repubblica’, della ’Stampa’ etc.

 Nel suo iperatlantismo, Adornato arriva a prendersela con Papa Bergoglio che agli inizi del conflitto  sarebbe stato <troppo equidistante>.<La presunta la colpa della Nato di aver ‘abbaiato ai confini della Russia’> gli è sembrata <un’opinione geopolitica infondata>.Sennonché era pure l’opinione di George Kennan, di Harry Kissinger, di John Mearsheimer, il più grande scienziato politico statunitense dopo la morte di Samuel P. Huntington! A scanso di equivoci, ritengo anch’io che l’Europa, la Nato, il dovere di prestare aiuto a un paese aggredito come l’Ucraina rientrino nel bagaglio ideologico del democratico liberale. Credo, però, nel diritto di esaminare liberamente e criticamente le decisioni riguardanti la politica internazionale. Siamo alleati consapevoli e responsabili degli Stati Uniti o siamo gli ascari della Grande Arméeatlantica? Le colpe di Putin sono evidenti e indelebili ma come mai nel libro non c’è alcun accenno agli Accordi di Minsk, su cui aveva richiamato l’attenzione Matteo Renzi, deprecandone il mancato rispetto? <Certo, scrive Fisichella, si potrebbe discutere all’infinito se quei determinati confini siano ucraini o russi, ma nel momento in cui la comunità internazionale li riconoscesse come ucraini, quella dovrebbe essere accettata come l’identità di una nazione>. Se la comunità internazionale, quindi, decide che il Lombardo-Veneto è territorio austriaco, la guerra contro Francesco Giuseppe diventa  un attentato all’indipendenza degli stati sovrani? Forse va recuperato il senso della complessità insuperabile delle vicende umane.




Libertario e liberale non è la stessa cosa

Come tutti i garantisti libertari Piero Sansonetti—peraltro un giornalista non poco benemerito per le critiche rivolte alla  magistratura militante—non ha capito ancora cosa sia la democrazia liberale  e questo per non aver preso sul serio il pluralismo. Quest’ultimo significa che  i valori sono tanti e tutti iscritti nell’umano e che, a decidere quale debba prevalere, quando entrano in competizione, è il giudizio degli elettori. Intervenendo su  Rete 4,  con una foga inconsueta, Sansonetti ha assimilato Eugenia M. Roccella a un ministro di Francisco Franco o di altri dittatori contemporanei. Per lui i valori ai quali si ispira il nostro Ministro delle Pari Opportunità e la Famiglia non sono valori ma rigurgiti inquisitoriali, attentati alle libertà dei cittadini che dovrebbero avere la precedenza su ogni altra considerazione e, soprattutto su quelle politiche. Chi non la pensa come noi, in questa logica, è fascista essendo fuori questione che certi diritti sono sacri e inviolabili. In tal modo, però, viene azzerata l’autonomia della politica e ai governi si chiede solo di realizzare quello che è Giusto. Ma giusto per chi? E se non si fosse d’accordo, per es., che il mancato riconoscimento del  matrimonio gay con adozione sia un attentato alle libertà dei cittadini? Se già il giusnaturalismo classico era sommamente discutibile con la sua pretesa che esistono diritti che debbono solo essere portati alla luce e codificati nelle leggi, quello libertario diventa un’ rompete le file’, che consente a ogni individuo di perseguire la felicità come,  quando e quanto vuole: la fine di ogni legame sociale.

 Intendiamoci, non sto difendendo la Roccella (che neppure a me è simpatica a causa del suo tradizionalismo), sto solo dicendo che criminalizzarla perché la sua etica politica è diversa da quella di Sansonetti significa porsi al di fuori della civiltà liberale. Se un disegno di legge viola  diritti  fondamentali dev’essere la Corte Costituzionale a bocciarlo; se è in contrasto con le nuove sensibilità maturate all’interno della società civile, saranno gli elettori a punirne l’autore. Indire una crociata  laica ogni volta che una misura governativa non ci piace, significa solo il trionfo del manicheismo, cavallo di Troia della mentalità totalitaria..