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Elezioni Usa – I silenzi di Harris e Trump

4 Novembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Se i sondaggi sulle elezioni americane non mentono, il risultato finale sarà vicino a un pareggio. E immancabilmente ascolteremo innumerevoli spiegazioni dell’esito del voto, che sarà agevole attribuire a specifici fattori (l’immigrazione, l’economia, la
sanità…) o a specifici gruppi sociali (i maschi bianchi, gli afro-americani, le donne…). Quando la vittoria è risicata, quasi tutto e tutti possono – con il senno di poi – apparire come decisivi, perché basta ipotizzare un piccolo spostamento di voti di una categoria o di uno Stato per immaginare un esito opposto a quello effettivo.

C’è un gruppo sociale, tuttavia, che sembra – in questa elezione – poter svolgere un ruolo particolarmente rilevante, anche a livello simbolico: quello delle donne. Questo non tanto perché le donne hanno un tasso di partecipazione elettorale più elevato di
quello degli uomini, ma perché mai come in questa occasione sono stati così centrali alcuni temi cruciali per la condizione femminile.

Sotto la voce onnicomprensiva “diritti riproduttivi”, negli Stati Uniti da anni si discute di almeno due questioni, che da noi (e più in generale in Europa), vengono trattate sotto due etichette distinte: diritti LGBT e diritto all’aborto. La cosa interessante è che le due questioni tendono a giocare un ruolo opposto nella dinamica elettorale. Detto brutalmente: parlare di diritti LGBT, tendenzialmente, favorisce Trump; parlare di diritto all’aborto, tendenzialmente, favorisce Harris.

Fra i diritti LGBT, più o meno estensivamente interpretati, rientrano rivendicazioni come l’autodeterminazione di genere o self-id (poter cambiare genere senza ostacoli o restrizioni), le transizioni di sesso/genere dei minorenni, l’accesso a tecniche riproduttive controverse, come la Pma (procreazione medicalmente assistita) e soprattutto la Gpa (gestazione per altri, o utero in affitto). Su questo terreno, i conservatori sono nettamente avvantaggiati, perché sono numerose le donne che non vedono di buon occhio l’invasione degli spazi femminili da parte di maschi transitati a femmine in luoghi come le carceri, i centri anti-violenza, le competizioni sportive (ricordate il caso Khelif?), più in generale nelle situazioni in cui le donne godono di speciali tutele e privilegi rispetto ai maschi (quote rosa, età della pensione, servizio militare ecc.).

Che questo sia un vantaggio dei conservatori e un punto debole dei democratici è del resto testimoniato dalle numerose e sempre più frequenti prese di posizione anti diritti LGBT o anti self-id da parte di donne di fede progressista, da Hillary Clinton (già due
anni fa), alle femministe americane (Kara Dansky, dirigente di Women’s Declaration International), e ora pure britanniche (Joanne Rowling e Julie Bindel pochi giorni fa). Prese di posizione che, in alcuni casi, hanno portato le protagoniste a porre la domanda scandalosa, fino a ieri impronunciabile: dobbiamo, in quanto femministe radicali, prendere in considerazione la possibilità di votare conservatore

Le cose cambiano radicalmente se, dai diritti riproduttivi in chiave LGBT, passiamo ai diritti riproduttivi in termini di contraccezione e aborto. Qui è Trump ad avere tutto da perdere, perché il recente (giugno 2022) annullamento della sentenza Roe vs Wade ha permesso a molti Stati a guida repubblicana di limitare fortemente (quando non di vietare del tutto) il ricorso all’aborto, con grave restrizione della libertà delle donne di disporre del proprio corpo. È chiaro che, questa, è una carta preziosa in mano a Kamala Harris, che può presentarsi come colei che è in grado di ripristinare una fondamentale libertà perduta.

Si capisce meglio, alla luce di queste asimmetrie, perché – sui temi che più interessano le donne – entrambi i candidati siano stati reticenti. Kamala Harris non ha mai voluto prendere le distanze, come le chiedevano alcune femministe, dalle politiche del suo vice Tim Walz che, come governatore del Minnesota, ha convintamente favorito le transizioni di sesso/genere precoci, a dispetto delle emergenti evidenze scientifiche contrarie. Analogamente, Trump non ha mai preso una posizione netta e chiara sul diritto all’aborto, preferendo – pilatescamente – rimandare tutto alle scelte elettorali dei cittadini nei singoli Stati.

Di qui, un vero rebus per le donne. Una elettrice che, come diverse femministe, considerasse l’aborto un diritto inalienabile, ma al tempo stesso fosse risolutamente contraria al self-id e ai cambi di sesso degli adolescenti, non saprebbe per chi votare.

Ecco un altro motivo per cui quel che succederà domani è terribilmente difficile da indovinare.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 novembre 2024]

Il bullismo etico

18 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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E così alla fine Simone Lenzi – artista, scrittore, musicista, e pure assessore alla cultura del comune di Livorno – è stato costretto a dimettersi dall’incarico. Anche se il punto di partenza di tutta la vicenda è stata una aspra polemica con il Fatto Quotidiano per una striscia del fumettista Natangelo, la ragione vera del siluramento dell’assessore sono stati alcuni post del passato, riesumati per l’occasione e considerati omofobi.

In uno Lenzi metteva in dubbio il valore artistico di una statua (una donna con il pene) esposta alla Biennale di Venezia, e prendeva posizione contro “l’arte didascalica”, che pretende di insegnarci come vivere. In un altro Lenzi faceva dell’autoironia, definendosi gender ironic, in polemica con la ridicola proliferazione delle identità di genere (28, compreso skoliosexual e lithsexual). Di qui una durissima presa di posizione dell’Arcigay, la severa reprimenda del sindaco progressista (?) Luca Salvetti, e infine le dimissioni dell’assessore.

La vicenda è illuminante perché, in un colpo solo, ci mette sotto gli occhi una moltitudine di aberrazioni di cui, troppo sovente, nemmeno ci accorgiamo.

Prima aberrazione: lo strapotere delle lobby LGBT+. Qualche tempo fa Federico Rampini, in una trasmissione tv, scandalizzò la conduttrice Marianna Aprile con l’affermazione: “in America le lobby LGBT sono cattivissime e potentissime”. Ebbene, dobbiamo correggere Rampini: purtroppo vale anche per l’Italia, non solo per gli Stati Uniti.

Seconda aberrazione: l’assessore è stato rimosso per le sue idee, peraltro espresse in chiave ironica e al di fuori del suo ruolo.

Terza aberrazione: la censura è venuta da un esponente della sinistra, che non perde occasione per inneggiare alla libertà di espressione e al diritto al dissenso.

Quarta aberrazione: né Elly Schlein, né la segreteria del Pd, né i maggiori esponenti di quel partito hanno sentito il bisogno di difendere l’assessore.

Quinta aberrazione: anche nel mondo della cultura e del giornalismo sono stati pochissimi a manifestargli solidarietà (fra di loro: la giornalista Concita De Gregorio e il regista Paolo Virzì, che con Lenzi aveva collaborato).

Perché, tutto questo?

Nella sua lettera di addio, l’assessore accenna a una possibile ragione dell’isolamento in cui si è venuto a trovare.

“mi dimetto perché alla sinistra, che avevo visto sin qui come la roccaforte di ogni libertà, la libertà più autentica non interessa affatto. Essendo piuttosto il narcisismo etico l’unica molla ormai capace di muoverne i riflessi condizionati, capisco bene che l’unica cosa importante davvero per tutti voi sia adesso posizionarsi, quanto più in fretta possibile, dalla parte dei giusti e dei buoni”.

La sinistra, insomma, sarebbe affetta da “narcisismo etico”.

Mi permetto di dissentire. Il narcisismo è una forma di ripiegamento su di sé, un auto-innamoramento, un coccolare sé stessi. Non è questo il peggiore male della sinistra di oggi. Fosse solo questo, non farebbe troppi danni. Quando l’assessore dice che la
cosa importante per le persone di sinistra è “posizionarsi dalla parte dei giusti e dei buoni”, quello di cui parla non è un moto interno dell’animo, ma un comportamento esterno: un mostrare agli altri quel che si è, o si pretende di essere. La parola giusta è
esibizionismo, non narcisismo. Il bisogno ossessivo di posizionarsi, sui social come nella realtà offline, è una forma di esibizionismo etico. Una continua pretesa di ostentare la propria superiore moralità.

Il guaio è che, qualche volta, l’esibizione della propria moralità richiede una vittima, un capro espiatorio, un nemico da umiliare, sopraffare, o aggredire. E questo non si chiama narcisismo, né esibizionismo: si chiama bullismo. Il ragazzo che ammira i
propri muscoli davanti a uno specchio è un narcisista. Se li mostra alla classe diventa un esibizionista. Ma se li usa per pestare un compagno è un bullo. È il bullismo etico, non il semplice narcisismo, la cifra della vicenda Lenzi. Per apprezzarne tutta la drammaticità e gravità, dobbiamo imparare a usare le parole giuste. Parole precise, esatte. Perché “le parole sono importanti”, per dirla con Nanni Moretti.

[articolo uscito sulla Ragione il 15 ottobre 2024]

La Ley Trans contro le imprese

11 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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Quando si parla di diritti LGBT+, di norma lo si fa in termini sociali, giuridici o culturali. Per quanto riguarda, in particolare, il diritto a cambiare genere a piacimento, divenuto effettivo in Spagna dal marzo dell’anno scorso con la cosiddetta Ley Trans, le questioni di cui si discute sono del tipo: è giusto che i minorenni (over 16) possano cambiare genere senza il consenso dei genitori? è giusto che gli atleti maschi transitati a femmina gareggino nelle competizioni femminili? è accettabile che i carcerati biologicamente maschi accedano ai reparti femminili? è ammissibile cambiare genere per evitare il carcere in un processo per stupro? è giusto che le quote rosa siano occupate da maschi che si percepiscono come femmine?

Molta meno attenzione ha ricevuto il lato economico della faccenda. Che non consiste solo nel fatto che i passaggi da maschio a femmina possono essere sfruttati opportunisticamente per usufruire di benefici riservati alle donne, ma riguarda direttamente i conti delle imprese. È di questi giorni la notizia che a breve entreranno in vigore varie norme che comporteranno nuovi e pesanti obblighi per le imprese sopra i 50 addetti. Ad esempio: istituire iniziative di formazione e sensibilizzazione ai diritti LGBT+, redigere report annuali sulle politiche aziendali in materia, concedere speciali permessi retribuiti, promuovere la “eterogeneità della forza lavoro”, ovvero garantire una adeguata rappresentanza a determinate minoranze sessuali.

Si potrebbe pensare che, in questo, la Spagna sia particolarmente avanti rispetto agli altri paesi occidentali. In realtà è semmai vero il contrario. Linee guida pro-inclusione analoghe a quelle spagnole sono state adottate da moltissime imprese americane
soprattutto dopo il 2020 (anno dell’uccisione di George Floyd, e conseguente decollo del movimento Black Lives Matter), ma sono entrate in crisi nel 2023 e sono ora in precipitosa ritirata. La Spagna, in altre parole, sta facendo con 4 anni di ritardo un
esperimento – quello delle politiche DEI: Diversity, Equity, Inclusion – che è già ampiamente fallito negli Stati Uniti.

Perché è fallito?

È molto semplice: perché danneggia pesantemente la competitività delle imprese. Quando le politiche DEI sono prese sul serio, e non si riducono a qualche banale misura di facciata, il loro impatto sui conti economici aziendali può risultare molto severo.

Tre sono i meccanismi fondamentali che minano la salute e la vitalità delle imprese.

Il primo è l’aumento dei costi fissi, perché le politiche DEI possono essere molto dispendiose: assumere personale dedicato, pagare esperti e consulenti, fare indagini interne, attuare misure di sorveglianza, istituire corsi di sensibilizzazione, comporta
sia cospicui costi diretti, sia non trascurabili costi indiretti, sotto forma di tempo sottratto ad attività aziendali vere e proprie.

Il secondo meccanismo riguarda le politiche di assunzione. Il fatto di avere vincoli o obiettivi di rispetto di quote (tot posti per minoranze di vario tipo), nella misura in cui impedisce all’impresa di assumere i dipendenti valutandoli solo per l’adeguatezza a
ricoprire determinate mansioni, impatta inevitabilmente sulla produttività del lavoro, ovvero sul valore aggiunto per addetto.

Il terzo meccanismo è la comparsa di un disincentivo a superare i 50 addetti se l’impresa è di poco sotto la soglia, e – simmetricamente – la comparsa di un incentivo a ridurre l’occupazione se è appena al di sopra dei 50 addetti.

Non a caso, da tempo le imprese spagnole e i loro rappresentati manifestano dubbi e preoccupazioni in vista dell’entrata in vigore delle norme della Ley Trans che impattano sui bilanci aziendali. I due tempi dell’esperienza americana – prima adesione entusiastica, poi precipitosa retromarcia – suggeriscono che quei dubbi e quelle preoccupazioni non siano campate per aria.

[articolo uscito sulla Ragione il 9 ottobre 2024]

Può esistere un partito sia di destra sia di sinistra?

4 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Partiti né di destra né di sinistra non sono rari nelle democrazie. Il tipico esempio sono i partiti liberaldemocratici, che hanno spesso fatto la loro apparizione nei maggiori paesi europei, come il Regno Unito, la Germania, la Francia. Anche l’Italia ha una
lunga tradizione di partiti moderati di centro, sia nella prima Repubblica (pri, psdi, pli), sia nella seconda: recentemente, il Terzo polo di Renzi e Calenda, in passato le infinite varianti del mastellismo-casinismo-follinismo: ccd, cdu, udc, eccetera.

Ma un partito sia di destra sia di sinistra? Può esistere, o è una contraddizione logica, come l’ircocervo che Benedetto Croce evocava per spiegare l’impossibilità del liberalsocialismo?

Dall’8 gennaio di quest’anno dobbiamo invece ritenere che possa esistere. E da ieri, dopo le elezioni amministrative nei länder tedeschi della Germania e della Sassonia, dobbiamo ritenere non solo che possa esistere, ma che possa sfondare. La prova
vivente è la pioggia di voti che, alla sua prima uscita in un’elezione germanica, ha inondato il partito fondato da Sahra Wagenknecht per l’appunto l’8 gennaio. Il partito si chiama Bündnis Sahra Wagenknecht (Lega Sara Wagenknecht), ed è il risultato di una scissione del partito della Linke, la formazione di estrema sinistra radicata nelle regioni della ex Germania dell’Est. Moglie di Oscar Lafontaine, ex leader della Linke, Sahra Wagenknecht è una politica tedesca con una chiara matrice di sinistra, ma si discosta dalla sinistra ufficiale classica, non importa qui se moderata o estrema, su almeno 4 punti fondamentali.

Il primo è il sostegno all’Ucraina, più in generale l’adesione alla Nato, ritenute controproducenti. Il secondo sono le politiche green, troppo costose per i ceti popolari. Il terzo sono gli eccessi del politicamente corretto e dell’agenda LGBT+. Il quarto, di gran lunga il più importante, sono le politiche migratorie, considerate troppo permissive.

In generale, le idee di Wagenknecht si richiamano alla dottrina marxista nel senso che privilegiano i conflitti a livello economico-strutturale, e snobbano quelli di tipo culturale e sovrastrutturale. Di qui la difesa dei lavoratori tedeschi nei confronti della
concorrenza dei migranti, visti come un temibile “esercito industriale di riserva”, e la freddezza rispetto alle rivendicazioni LGBT+.

Il successo di Wagenknecht, che in Turingia ha ottenuto il 16% e in Sassonia il 12%, è cruciale per la politica tedesca perché si è accompagnato a un successo ancora maggiore di Alternative für Deutschland, il partito tedesco più anti-immigrati e più
nostalgico del nazismo, che ormai raccoglie circa 1/3 dei voti in entrambe le regioni. Insieme, i due partiti anti-immigrati sfiorano il 50% dei consensi, a fronte del disastroso risultato dei partiti di governo (socialdemocratici, verdi, liberali), e al discreto ma non sufficiente risultato dei Popolari (24% in Turingia, 32% in Sassonia).
Per questi ultimi si prospetta un dilemma: fare fronte comune con socialdemocratici e Linke contro i due partiti anti-immigrati (BSW e AfD), con il rischio che al prossimo giro possano ottenere la maggioranza dei voti e formare un governo il cui unico vero
obiettivo sarebbe la lotta all’immigrazione illegale; oppure tentare il dialogo con il partito “sia di destra sia di sinistra” di Sahra Wagenknecht, recependo le inquietudini di tanti tedeschi nei confronti degli immigrati.

Resta il fatto che, nei due länder in cui si è votato, i quasi-nazisti di AfD hanno il 30% dei voti, e se Sahra Wagenknecht non avesse canalizzato una parte della protesta contro i migranti, probabilmente veleggerebbero sul 40%.

Qual è la lezione?

Sono tante, e dipendono dai pregiudizi di ciascuno di noi. L’unica lezione difficilmente contestabile è che il partito-ircocervo – sia di destra sia di sinistra – è diventato possibile. Staremo a vedere se solo in Germania.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 settembre 2024]

Follemente corretto (18) – Cambiare razza?

21 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

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Che si possa cambiare sesso, è una eventualità ormai entrata nel senso comune. Ma il percorso è stato lungo, e non è ancora concluso. Con la legge 164 del 1982, la riassegnazione del sesso sulla carta di identità comportava necessariamente un intervento chirurgico. Con il decreto legislativo 150 del 2011 le cose cambiano drasticamente: si può ottenere una modificazione del proprio status anagrafico anche senza intervento chirurgico, l’essenziale è convincere il giudice dell’esistenza di una condizione di “disforia di genere” e della serietà (e irreversibilità) della propria scelta.

Oggi le organizzazioni che promuovono i diritti delle persone trans chiedono molto di più: quel che molti vorrebbero è il cosiddetto self-id, ossia la possibilità di scegliere il proprio genere in modo completamente libero, senza alcun intervento di medici, psicologi, giudici.

La questione è delicata perché alla condizione di maschio o femmina sono associati diritti e prerogative differenti. Un maschio, ad esempio, non può accedere a bagni, spogliatoi, reparti carcerari, associazioni, competizioni (sportive e non) riservate alle donne. Simmetricamente, una donna non può partecipare ad associazioni, gare e reclutamenti riservati agli uomini. Il problema che si pone, quindi, è se il cambio di sesso/genere comporti una riallocazione automatica e completa di diritti, prerogative e corrispondenti divieti. E, soprattutto, se sia il singolo l’unico arbitro che può decidere del proprio sesso/genere, secondo la filosofia del self-id, o sia invece necessaria l’approvazione di altri soggetti individuali e istituzionali (genitori, medici, psicologi, giudici). E, infine, se debbano essere sanzionati quanti si rifiutano di accettare auto-identificazioni di genere soggettive, non sancite dalla legge (ad esempio l’insegnante che continua ad usare pronomi maschili verso un allievo che si autoidentifica come femmina).

Le organizzazioni che promuovono i diritti LGBT tendono ad asserire che la scelta del sesso/genere debba essere individuale, completamente libera, rispettata e riconosciuta da tutti. Non hanno però messo in conto che la medesima pretesa di scegliere – e far valere – la propria identità potesse essere avanzata in ambiti diversi dal genere: ad esempio quello della razza. Dopo quello dei trans-sessuali, è venuto il tempo dei trans-razziali.

Sono celebri, negli Stati Uniti, i casi di Rachel Dolezal, donna caucasica che si è finta di colore per anni (prima di fare outing, nel 2015); o di Korla Pandit, musicista afro-americano che si è fatto passare per indiano; o della professoressa Jessika Crug, figlia di genitori bianchi, che per tutta la vita lavorativa ha fatto credere di essere di colore.

Ma i casi più interessanti sono quelli di coloro che, anziché ricorrere all’inganno, sono ricorsi alla medicina e alla chirurgia per modificare effettivamente il proprio corpo. Martina Big, donna tedesca bianca, è ricorsa a iniezioni di melanina per diventare nera. Oli London, ragazzo bianco inglese, si è sottoposto a 18 (diciotto) interventi chirurgici per diventare come un coreano (più esattamente: per somigliare alla popstar coreana Jimin dei BTS).

Il fenomeno sarebbe rimasto poco più che una curiosità folkloristica se non avesse attirato l’attenzione delle accademiche femministe. Tutto parte da un provocatorio saggio del 2017 di Rebecca Tuvel, giovane docente di filosofia, in cui si sostiene che, così come ammettiamo la possibilità di cambiare genere, per coerenza dovremmo ammettere quella di cambiare razza. Fra i due tipi di transizione, infatti, non sussistono differenze tali da autorizzarne una e negare l’altra.

La filosofa non aveva previsto, però, che la sua difesa del transrazzialismo può portare da tutt’altra parte. I paradossi connessi alla scelta soggettiva della razza (un bianco che diventa nero può godere dei diritti riservati ai neri?), anziché ampliare gli ambiti della autodeterminazione, hanno finito per accendere un faro sull’assurdità di ogni auto-identificazione, di genere o di razza che sia. Di qui una pioggia di contumelie a Rebecca Tuvel, e il contrordine: cambiare razza non si può, solo il genere può essere cambiato.

La lobby LGBT è, e deve restare, un club esclusivo.

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