Mezzi di informazione e manifestazioni contro il self-id – Un inquietante silenzio

La notizia è che quasi nessuno, e meno che mai i grandi giornali e le grandi reti tv, ne ha parlato. Eppure è successo, un po’ dappertutto nel mondo (o più precisamente nei paesi democratici).

Parigi. Berlino. Milano. Madrid. Barcellona. Maiorca. Lisbona. Vienna. Praga. Berna. Copenhagen. Bruxelles. The Hague. Lussemburgo. Oslo. Londra. Manchester. Edimburgo. Dublino. Glasgow. Cardiff. Swansea. New York. Washington. Atlanta.
San Francisco. Chicago. Chennai, Tokyo. San Poalo, Buenos Aires, Rio de Janeiro. Taipei. Brisbane. Wellington. Montreal…

Sono decine e decine le grandi città in cui, il 1° novembre, si sono date appuntamento migliaia di donne per protestare davanti alle ambasciate e ai consolati della Germania. Perché tanto silenzio? Come mai ogni sera veniamo minuziosamente informati delle più banali, irrilevanti, o semplicemente ultra-localistiche manifestazioni di protesta, e nulla, invece, ci viene detto di quel che è appena capitato nelle principali città del mondo?

Per provare a capire, ricapitoliamo i fatti. Il 1° novembre, in Germania, è entrata in vigore una legge rivoluzionaria sul self-id, o autodeterminazione di genere. La nuova legge permette a chiunque di cambiare genere con un atto puramente amministrativo,
indipendentemente da qualsiasi valutazione di medici, psichiatri, psicologi, giudici. In particolare, permette a qualsiasi maschio di proclamarsi femmina, e così accedere a spazi e benefici riservati alle donne. Dove gli spazi invasi possono essere i reparti
femminili nelle carceri, i centri anti-violenza, le competizioni femminili nello sport. Mentre i benefici vanno dalle quote rosa in ambito economico o elettorale alle agevolazioni in materia di assunzioni e pensionamenti.

E non è tutto. Dopo aver cambiato genere una prima volta si può, dopo 12 mesi, tornare al sesso originario, e poi magari cambiare di nuovo, e così via per anni. In linea di principio, una persona può cambiare genere/sesso anche decine di volte, a seconda delle opportunità e dei rischi. Quanto ai minori, dall’età di 14 anni possono cambiare genere con il consenso dei genitori, e dai 14 ai 18 anni anche senza, purché un giudice dia l’ok.

Ma l’aspetto più paradossale della legge, fortemente voluta dalla cosiddetta coalizione semaforo (socialisti, liberali, verdi) è quel che implica per i neonati. Al momento di registrarli all’anagrafe, oltre al nome, ora i genitori potranno anche scegliere il genere fra quattro alternative: maschio; femmina; diverso; nessuno. Un bambino biologicamente maschio potrebbe trovarsi a dover fare i conti con una famiglia che lo tratta come una femmina, e viceversa (per non parlare dei bambini arbitrariamente considerati come di un genere “diverso”, o di nessun genere).

Infine, le sanzioni: chi trattasse un autopercepito lui come una lei (o viceversa), rischia una sanzione fino a 10 mila euro.

È contro tutto questo che si sono mobilitate le donne tedesche, ed è in loro aiuto che sono scese in piazza le donne in tante città di tutto il mondo.

Ed ora torniamo alla domanda iniziale: perché questo silenzio assordante dei mezzi di informazione sulle manifestazioni del 1° novembre a sostegno delle donne tedesche, vittime di una legge che ne comprometterà la sicurezza e ne eroderà le conquiste?

Sarò molto sincero: non mi è chiaro.

Una ragione potrebbe essere che il movimento di resistenza al self-id, pur avendo fra le sue promotrici Joanne Rowling e altre celebrità, è largamente minoritario (ma lo sono anche altri movimenti, di cui in realtà si parla parecchio). Un’altra ragione,
potrebbe essere che, a giudicare dalle immagini circolate nei giorni scorsi, l’età media delle femministe che protestano contro il self-id è abbastanza avanzata (qualcuno potrebbe dire che si tratta soprattutto di boomers, nate fra il 1946 e il 1964). Un’altra
ragione ancora potrebbe essere la forza e l’ubiquità del politicamente corretto, che privilegia nettamente la comunità trans, a scapito del mondo femminile.

Ma anche quest’ultima ragione non mi convince granché: tutta la stampa di destra è ostile alle rivendicazioni trans, eppure anch’essa è rimasta in silenzio. Insomma, il rebus sembra restare tale.

Forse, per capire, dobbiamo scavare in altra direzione. Il punto debole dei presidi davanti alle ambasciate germaniche potrebbe essere, semplicemente, la loro compostezza. Nessuna delle donne scese in piazza ha bloccato il traffico, o imbrattato monumenti, o scagliato molotov contro la polizia. Nessuna si è spogliata, nessuna ha lanciato sassi, nessuna ha gridato slogan offensivi.

Manifestare pacificamente non paga?

[articolo inviato alla Ragione il 3 novembre 2024]




Diffamazione, l’incertezza della legge

12 ottobre 2023. Il tribunale penale di Roma condanna Saviano per diffamazione, infliggendogli una multa poco più che simbolica (1000 euro). Aveva dato dei “bastardi” a Salvini e Meloni per le loro posizioni anti-migranti. La mitezza della pena è dovuta al fatto che il giudice ha riconosciuto le attenuanti generiche, tra cui l’aver agito per “motivi di particolare valore morale”.

15 maggio 2024. La filosofa Donatella Di Cesare, querelata dal ministro Lollobrigida con l’accusa di diffamazione, viene prosciolta. Il ministro aveva usato l’espressione “sostituzione etnica” (presente nel lessico nazista), e lei aveva affermato che “quello del ministro non può essere preso per uno scivolone perché ha parlato da Gauleiter, da governatore neohitleriano”.

Nelle stesse ore del proscioglimento di Di Cesare, si apprende che il tribunale di Napoli ha condannato il giornalista Pasquale Napolitano a 8 mesi di carcere (pena sospesa) più una multa di 6500 euro per diffamazione a mezzo stampa: in un articolo
pubblicato sulla testata Anteprima24 aveva raccontato la vicenda del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Nola, rimasto in carica “attaccato alla poltrona” nonostante la mancanza di una maggioranza.

Parrebbe dunque sussistere una gerarchia: “attaccato alla poltrona” è un insulto gravissimo, che ti fa meritare il carcere “bastarda” è un po’ meno grave, specialmente se lo dici per motivi di particolare valore morale; invece “governatore
neohitleriano” si può dire tranquillamente, se sei un professore e fai un paragone storico.
Ma c’è una logica, in tutto questo?

Non saprei. Se proprio dovessimo trovarne una, si potrebbe ipotizzare che nella testa dei giudici viga una sorta di sottile scala di gravità, che distingue fra offese alla persona in quanto tale, offese alla persona in quanto ha fatto qualcosa, e offese alla
persona in quanto somigliante a una persona negativa:
(i) sei un bastardo;
(ii) ti sei comportato da bastardo;
(iii) parli come quel bastardo di…

Forse capiremo meglio dopo il 7 ottobre di quest’anno, quando il prof. Luciano Canfora andrà a giudizio per aver affermato in pubblico (in un liceo di Bari) che Giorgia Meloni è “neonazista nell’animo”. Se Canfora dovesse essere condannato, potremmo forse inferirne che quel che il giudice punisce sono gli attacchi diretti alla persona in quanto tale, a prescindere dalla gravità dell’accusa (incollato alla poltrona, neonazista nell’animo). Se Canfora dovesse essere assolto dovremmo forse inferirne
che gli intellettuali, come lui e la professoressa Di Cesare, godono di speciali immunità quando le loro offese (neohitleriano, neonazista nell’animo) sono pronunciate nell’ambito di un ragionamento storico, sociologico, o filosofico.

Vedremo. Quel che resterà comunque in piedi è il problema di conciliare libertà di espressione e rispetto della persona umana, due principi inevitabilmente destinati a confliggere fra loro. Sarebbe già un grande progresso, però, che i giudici non peggiorassero le cose spostando continuamente – e soprattutto soggettivamente – il confine fra quel che si può dire e quel che non si può dire in pubblico. Perché oggi l’unica certezza che ci accompagna è la consapevolezza che, da qualsiasi lato ci troviamo – accusati o accusatori – il nostro destino molto dipende dal giudice nelle cui mani siamo capitati.

[articolo inviato a La Ragione il 19 maggio 2024]