Abolire “la Fornero” ?
Wanted, o “ricercata”. Un marziano che sbarcasse in Italia e posasse gli occhi su slogan e manifesti di questa avvilente campagna elettorale sarebbe indotto a pensare che la professoressa Elsa Fornero sia uno dei principali pericoli pubblici di questo paese. Quel che colpisce, della caccia alla Fornero, non è tanto l’animosità degli attacchi cui la docente torinese è sottoposta da ben sei anni, bensì la loro universalità: ad essere risolutamente (eufemismo) contro la Fornero e la sua riforma delle pensioni troviamo infatti nientemeno che la Cgil, ossia il più grande sindacato italiano (peraltro zeppo di pensionati), il Movimento Cinque Stelle (ossia il più grande partito italiano), la Lega (il più radicale partito di destra), Liberi e uguali (il più radicale partito di sinistra). Tenuto conto che queste forze rappresentano gruppi di elettori scarsamente sovrapposti, è facile concludere che “abolire la Fornero” è probabilmente l’unico obiettivo su cui esiste una larga, larghissima, convergenza politica. Una sensazione, questa, rafforzata dalle dichiarazioni di Salvini, che giusto pochi giorni fa, in una intervista al Corriere della Sera, ha riconosciuto la vicinanza fra Lega e Cinque Stelle su questo punto; e pochi giorni prima, aveva pubblicamente annunciato che “la legge sulla pensioni sarà la prima cosa che cancelleremo se andremo al governo”.
Fuori dal fronte anti-Fornero l’unica forza politica importante è il Pd, visto che Forza Italia, stante la sua alleanza con la Lega, non può che barcamenarsi fra gli slogan radicali (“abrogare la legge Fornero”, Brunetta) e le formule più prudenti (“eliminare gli effetti negativi”, Berlusconi).
Da che cosa deriva tanto interesse per il tema delle pensioni e tanto accanimento verso la riforma Fornero? Essenzialmente dal fatto che i pensionati sono un gruppo sociale amplissimo, in continua crescita, e con una propensione al voto relativamente alta. L’esatto contrario dei giovani, che sono un gruppo sociale ristretto, in continua diminuzione, e fortemente tentato dall’astensione. Il fatto che le statistiche dimostrino che anziani e pensionati siano il gruppo sociale che meno ha risentito della crisi, o la circostanza che l’Italia sia il paese europeo in cui più si spende per le pensioni, nonché uno dei paesi in cui l’età effettiva di andata in pensione è più bassa, non impressiona minimamente i nostri politici: a loro interessano i voti dei pensionati, e per acchiapparli sono disposti a tutto. Lo strumento principe di questa “acchiappanza” è la demonizzazione della legge Fornero, e in particolare del principio dell’adeguamento automatico dell’età della pensione all’allungamento della vita.
Tutto questo non significa, naturalmente, che la riforma Fornero non abbia limiti e difetti, oltre a quello ben noto di non aver previsto e gestito il problema degli “esodati” (persone che si sono improvvisamente venute a trovare senza lavoro e senza pensione): fra questi il modo, attuarialmente ingenuo, di calcolare la speranza di vita, o la filosofia dirigista che la ispira, due punti su cui ha di recente attirato l’attenzione Francesco Forte, stimato docente di Scienza delle finanze, e più volte ministro in governi del passato.
Il punto, però, è che tutto il dibattito sulla riforma Fornero è drammaticamente sprovvisto di lealtà e di concretezza. E, cosa interessante, a truccare le carte sono sia i difensori che i critici della riforma Fornero.
L’argomento principe dei difensori, per lo più fondato su conteggi della Ragioneria generale dello Stato, è che abolire la riforma Fornero costerebbe una cifra enorme, dell’ordine di 25 miliardi l’anno. Questa argomentazione finge di credere che i nemici della legge Fornero, una volta al governo, si limiterebbero ad abrogarla, tornando al sistema precedente: solo questo presupposto, infatti, consente di affermare che il costo dell’abolizione sarebbe di una determinata entità.
A questo argomento i critici obiettano, non senza ragione, che essi non intendono tornare al sistema precedente, ma cambiare le regole introdotte dalla Fornero, un compito che alcuni (Berlusconi) paiono intendere nel senso di “correggere alcuni difetti”, altri (Salvini, Di Maio) nel senso di “cambiare radicalmente”, ad esempio eliminando l’aumento automatico dell’età della pensione, o colpendo le pensioni più elevate.
Il difetto di questa posizione, tuttavia, è che non solo si guarda bene dallo scendere nei dettagli, ma si rifiuta ostinatamente di rispondere alla domanda cruciale, che dovrebbe precedere qualsiasi esposizione approfondita di come le cose dovrebbero funzionare “se vinciamo noi”. La domanda è questa: stante che la legge Fornero, rispetto alla disciplina precedente, comporta un risparmio ingente (dell’ordine di un paio di decine di miliardi l’anno), la vostra riforma farebbe aumentare, farebbe diminuire o lascerebbe invariata la spesa pensionistica? E se non la lascerebbe invariata, di quanti miliardi la farebbe aumentare o diminuire rispetto alla situazione di oggi?
A questa basilare domanda gli acerrimi nemici della legge Fornero non hanno, per ora, saputo fornire alcuna risposta. Io stesso, qualche tempo fa, ho avuto occasione di constatarlo in un dibattito televisivo con l’on. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Quando ho posto quella domanda, ne ho ricevuto la seguente, a suo modo geniale, risposta: “non condivido la domanda”.
Ecco perché, di fronte al pomo della discordia costituito dalla legge Fornero, penso non si possa che assumere un atteggiamento scettico. Nessuna legge è perfetta, e quella legge ha sicuramente dei difetti. Ma almeno non è a scatola chiusa, come lo sono quelle dei suoi critici: nulla, al momento, ci garantisce che essi la sostituirebbero con una legge migliore, e che, nella ricerca del meglio, non metterebbero a repentaglio i conti dello Stato.
Speriamo che, di qui al 4 marzo, almeno una delle forze politiche che vogliono disfarsi della legge Fornero abbia il coraggio di scoprire le carte, e di rispondere perlomeno alla domanda preliminare: quanti miliardi in più o in meno all’anno ci costerà la nuova legge?