A proposito del duello Khelif-Carini – Inclusione e invasione

Anche se (quasi) tutti si sono pronunciati sul match di pugilato femminile fra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif, credo sarebbe saggio ammettere che quasi nessuno – tranne forse i medici del Comitato Olimpico – ha in mano tutti
gli elementi per giudicare l’equità del confronto.

Quel che sembra appurato è solo che Khelif è atleta intersessuale (ovvero ha caratteri sessuali di entrambi i sessi), e che due organizzazioni internazionali – il comitato olimpico (CIO) e la federazione internazionale della boxe (IBA), peraltro non
riconosciuta dal CIO – hanno criteri di ammissione differenti, che hanno dato luogo a due decisioni opposte: esclusione di Khelif da parte dell’IBA nel 2023, ammissione da parte del CIO nel 2024. Sulle ragioni dell’esclusione non esiste alcun rapporto
medico chiaro, completo, e ufficiale, ma solo dichiarazioni generiche sul livello di testosterone (CIO e IBA hanno soglie di accettazione diverse) e sul corredo cromosomico (Khelif avrebbe cromosomi XY, tipici dei maschi).

È chiaro che su questa sola base nessuno, neppure un medico sportivo, può avere tutti gli elementi per dire se la gara è stata equa oppure no. L’unica cosa che finora nessuno ha messo in dubbio è che il “difetto genetico” di Khelif le conferisce un vantaggio sull’avversaria. Come ha spiegato il professor Maurizio Genuardi (Ordinario di Genetica Medica all’Università Cattolica di Roma) la ragione è che il possesso del cromosoma Y, assente nelle donne-donne come la Carini, “può favorire lo sviluppo di caratteristiche sessuali secondarie, come la massa muscolare, in senso più maschile”.

Di per sé, questa osservazione non depone né a favore né contro l’ammissione dell’atleta intersessuale. Il problema non è se Khelif avesse o no un vantaggio su Carini, perché certamente l’aveva, ma se tale vantaggio fosse tale da rendere non equo il confronto. Anche un peso welter di 66 chili ha un vantaggio su uno di 64, ma le regole della boxe stabiliscono (in modo convenzionale, e in parte arbitrario), che il vantaggio non è così grande da compromettere l’equità della competizione. Si spera che, prima o poi, le organizzazioni che si occupano di boxe uniformino le regole di ammissione, e spieghino come misurano il vantaggio, e su quali basi fissano le soglie. Magari tenendo anche conto del fatto che nella boxe, a differenza di quel che capita in quasi tutti gli altri sport, un vantaggio fisico eccessivo di un atleta mette a rischio l’incolumità dell’avversario.

Questione chiusa?

Proprio per niente. La vicenda di Khelif e Carini ha avuto il merito di mettere in luce un problema molto più generale: il possibile conflitto fra inclusione e diritti delle donne non solo nello sport ma più in generale in tutti i luoghi in cui le donne usufruiscono di spazi esclusivi, e in tutti i contesti in cui alle donne sono riservati trattamenti o garanzie particolari. Rientrano nella prima categoria non solo le gare sportive ma anche i reparti femminili delle carceri, i centri anti-violenza, gli spogliatoi. Rientrano nella seconda le quote riservate nelle competizioni elettorali, l’esenzione dal servizio militare, i benefici previdenziali (età della pensione, incentivi all’assunzione).

In entrambi i tipi di situazioni, il principio di inclusione può produrre – e in parte ha già prodotto – effetti quantomeno problematici. Nello sport, è nota la vicenda della nuotatrice transgender Lia Thomas, che per anni ha sbaragliato le avversarie, prima che la federazione intervenisse sulle regole di ammissione. Meno noti sono i casi di stupri di detenute da parte di detenuti biologicamente maschi trasferiti nei reparti femminili delle carceri in quanto auto-identificati come donne. O i casi in cui una
presunta identità femminile ha permesso a maschi biologici di usufruire di quote riservate alle donne, ad esempio nelle competizioni elettorali. E sono tutti da valutare gli effetti delle leggi sull’autoidentificazione di genere recentemente approvate in
Spagna e in Germania, posto che molte legislazioni riservano alle donne speciali tutele e vantaggi.

Insomma, il caso Khelif-Carini è solo la punta dell’iceberg dell’inclusione. Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, l’inclusione non è sempre e semplicemente un atto di apertura a categorie ingiustamente emarginate, come è stato – per fare un esempio – il diritto di voto alle donne nel 1946, una conquista che non ha tolto niente a nessuno. Gestita in modo rigido o ideologico, l’inclusione nello spazio femminile di persone intersex o transgender può produrre effetti critici: rendere iniqua una competizione sportiva, mettere a repentaglio la sicurezza delle detenute, contrarre gli spazi delle donne dove sono previste quote.

È tempo di prenderne atto: quel che per Imane è un diritto, per Angela è un’ingiustizia; quel che per alcuni è inclusione, agli occhi di altri è un’invasione. E non c’è alcun modo semplice per tutelare le buone ragioni di tutti.

[Articolo uscito sul Messaggero il 4 agosto 2024]