L’odio al di là del linguaggio. È davvero Trump il pericolo maggiore per la democrazia americana?

Quando dopo il disastroso dibattito televisivo del 26 giugno i Democratici si posero (finalmente) il problema di sostituire Joe Biden, molti analisti dissero giustamente che il rischio non era solo che perdesse, ma anche che vincesse. La cosa non era impossibile, nonostante le sue condizioni, perché la polarizzazione era ormai tale che moltissimi suoi sostenitori avrebbero votato perfino per la sua mummia (così come moltissimi altri avrebbero fatto con Trump), ma il problema era che in tal caso non sarebbe stato in grado di guidare il paese più potente del mondo per altri quattro anni (in realtà non era in grado di farlo neanche nei quattro anni precedenti, ma meglio tardi che mai…).

Tuttavia, a dispetto dell’entusiasmo con cui la sua nomination è stata accolta da tutto l’establishment occidentale, lo stesso problema si pone ora con Kamala Harris. Anzitutto, infatti, anche lei rischia di perdere: i sondaggi danno i due candidati alla pari, ma sappiamo che gli elettori di Trump sono molto più restii a dichiarare la loro preferenza, proprio come succedeva in Italia con Berlusconi, dove i sondaggi lo hanno sempre sottovalutato per i quasi trent’anni della sua carriera politica, rifiutando per ostinazione ideologica di correggersi nonostante l’evidenza.

Negli USA, dove il successo conta ancor oggi più di ogni altra cosa, quindi anche più dell’ideologia, i sondaggisti hanno invece tentato di tenere conto di questa tendenza, ma mi sorprenderebbe molto (nel momento in cui scrivo le votazioni non sono ancora cominciate) se ci fossero riusciti del tutto, anche perché è probabile che la reticenza dei trumpiani a pronunciarsi sia ulteriormente cresciuta, a causa del clima ancor più ostile nei loro confronti. Certo non sbaglieranno più del 4%, come è successo nel 2020, ma è probabile che Trump prenda comunque tra l’1 e il 2% in più di quanto gli viene attribuito, il che basterebbe a garantirgli la vittoria.

Ma c’è di più. Anche con Kamala, infatti, il problema è anche che rischia di vincere, perché neppure lei è in grado di guidare gli Stati Uniti, anche se per ragioni diverse da Biden, perché certo non è rincoglionita come lui. Ma dal punto di vista della salvaguardia della democrazia è almeno altrettanto pericolosa quanto Trump, se non addirittura di più. Come ha giustamente detto Cacciari qualche giorno fa a LA7, la differenza tra i due è soltanto “estetica”, nel senso che Trump è sguaiato e volgare, mentre la Harris rispetta maggiormente il galateo, ma per il resto sono simili.

Cacciari lo diceva soprattutto rispetto alle loro politiche, da cui non si aspetta grandi differenze (né grandi cose), ma ciò vale anche per la loro intolleranza, nonché per quella dei loro sostenitori. Il vero problema, infatti, non è il linguaggio d’odio, come oggi è di moda dire, ma l’odio in sé stesso, che è nato prima del linguaggio d’odio e che ne è la vera causa. E tale odio non solo esiste anche a sinistra, ma è nato prima a sinistra, negli Stati Uniti come in tutto l’Occidente.

Se c’è una cosa su cui la sinistra ha ragione, è quando dice che la destra è reazionaria: infatti, la crescita della destra in tutto l’Occidente (che continua, lenta ma costante, da oltre 25 anni) è principalmente una reazione alla crescita, altrettanto costante, di quella che Ricolfi ha molto esattamente definito «una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali [..], un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime» (https://www.fondazionehume.it/politica/a-forza-di-includere-tutti-ci-siamo-esclusi-noi-intervista-di-maurizio-caverzan-a-luca-ricolfi/).

Non insisterò su questo, visto che, appunto, ne ha già parlato Ricolfi, più volte e in modo (come sempre) tanto preciso quanto documentato. Quel che vorrei fare è solo citare alcuni fatti, ignorati o distorti da tutto il nostro sistema mediatico, che dimostrano che presentare Kamala Harris come la paladina della civiltà contro la barbarie è non solo falso, ma addirittura grottesco.

In realtà la storia era già iniziata con Biden, che, un minuto dopo aver rivendicato la vittoria, affermando di voler essere il Presidente di tutti gli americani e di voler ricucire le lacerazioni che si erano prodotte durante la campagna elettorale, non ha trovato di meglio che chiedere l’impeachment per Trump, che tra l’altro era impossibile da ottenere e quindi l’unico effetto che poteva avere (e che di fatto ha avuto) era inasprire le tensioni. A ciò si è poi aggiunta una forsennata campagna giustizialista anti-Trump, condotta da magistrati (guarda caso sempre di provata fede democratica) che ha ricordato molto quella già vista in Italia contro Berlusconi.

L’apice di tale campagna è stata la denuncia contro Trump per complicità nell’assalto al Campidoglio, classificato come un tentativo di colpo di Stato. E, quando la Corte Suprema ha annullato il processo perché le accuse erano da ritenersi esagerate, è esplosa l’indignazione dei liberal di tutto il mondo, alla cui testa si è messa proprio Kamala Harris. Eppure, la Corte Suprema aveva semplicemente detto le cose come stavano. L’assalto a Capitol Hill, infatti, è stato un atto (grave) di teppismo, che va certamente perseguito con la massima severità, ma parlare di colpo di Stato è semplicemente ridicolo: i colpi di Stato si fanno con l’appoggio dell’esercito e mettendo in strada i carri armati, non qualche migliaio di esaltati guidati da Jake lo Sciamano.

Ma la Harris, con l’appoggio di tutti gli intellettuali liberal dell’Occidente, ha attaccato la Corte Suprema anche in molte altre occasioni, accusandola di essere favorevole a Trump, che ne ha nominato gli ultimi membri. Ora, questo è vero, ma non è una novità: la Corte Suprema è sempre stata politicamente orientata, perché i suoi membri sono sempre stati nominati dal Presidente di turno (che ovviamente gli sceglie tra quelli a lui politicamente vicini), perché così stabilisce la Costituzione. La vera novità è che per la prima volta nella storia ciò è stato preso a pretesto per delegittimarla, che è un comportamento oggettivamente eversivo e assai più grave degli attacchi di Trump a singoli magistrati, essendo diretto contro il più alto organo giudiziario del paese.

Più in generale, la Harris già da Procuratrice in California aveva preso posizione estremistiche, molto vicine a quelle di Black Lives Matter (che non è un movimento per i diritti civili, ma un movimento eversivo che ha come scopo dichiarato la cancellazione della civiltà occidentale), In particolare, ha di fatto legalizzato il furto, depenalizzandolo fino a 1000 dollari, il che ha colpito (come sempre succede ai progressisti da qualche decennio in qua) i commercianti più poveri, che, non potendo assumere dei vigilantes privati come hanno fatto quelli più ricchi e la grande distribuzione, hanno dovuto scegliere tra cambiare lavoro e cambiare Stato.

Da quando si è candidata, la Harris sta facendo di tutto per far dimenticare quel suo vergognoso passato, il che dal suo punto divista è comprensibile. Meno comprensibile è invece che tutti i nostri intellettuali, compresi quelli più moderati, le reggano il gioco.

Faccio solo un esempio, che mi ha particolarmente colpito, perché, appunto, ne sono state protagonisti due intellettuali moderati e solitamente (ma non questa volta) assai ragionevoli. Domenica scorsa, a Mezz’ora in più, Monica Maggioni ha commentato insieme a Vittorio Emanuele Parsi una cartina degli Stati Uniti su cui erano indicati tutti i luoghi dove erano in atto campagne di suprematisti bianchi sostenitori di Trump, insieme a una serie di interviste piuttosto deliranti ad alcuni di essi, che in alcuni casi inneggiavano perfino a Hitler e facevano il saluto nazista.

Ora, è certamente giusto denunciare questi comportamenti, che sono inaccettabili e preoccupanti. Ma perché la Maggioni non si è sentita in dovere di mostrare (e perché Parsi non si è sentito in dovere di chiederglielo) anche una cartina in cui fossero indicati tutti i luoghi degli Stati Uniti dove sono state introdotte le liste dei libri proibiti nelle università o dove ci sono state manifestazioni pro-Hamas o dove si sono verificati episodi di quello che Federico Rampini (che certo uomo di destra non è) ha recentemente definito «l’unico vero razzismo oggi presente negli USA, cioè quello verso i maschi bianchi non laureati»? E perché non sono state fatte analoghe interviste ai rappresentanti più fanatici della ideologia woke, che molti nostri intellettuali negano addirittura che esista?

Temo che, se la Maggioni l’avesse fatto, il risultato sarebbe stato almeno altrettanto inquietante. Con in più una differenza, che non è da poco: mentre è improbabile che i nazisti dell’Illinois (o di altri Stati non citati dai Blues Brothers) possano determinare in modo significativo la politica di Trump, è invece assolutamente certo che quei gruppi radicali da cui la candidata Kamala Harris sta cercando di prendere le distanze determinerebbero in modo sostanziale molte delle scelte politiche della Presidente Kamala Harris.

Così come è certo che, se dovesse vincere lei, ripartirebbe immediatamente la persecuzione giudiziaria contro Trump e i suoi seguaci, col risultato di far montare ancor più l’odio nel paese, al di là del linguaggio. Su cui peraltro anche Kamala non scherza, visto che ha ripetutamente chiamato Trump «fascista» e «criminale», mentre appena eletta l’aveva definito «predatore sessuale», che significa stupratore seriale, mentre lui è stato condannato solo per aver pagato una pornostar perché tenesse nascosta una relazione consensuale (ma questi sono insulti “politically correct” e quindi leciti…).

Al contrario, nonostante le sue roboanti dichiarazioni, Trump, se eletto, ben difficilmente perseguiterebbe i suoi avversari politici, se non altro perché faticherebbe a trovare dei giudici disponibili a farlo, dato che il giustizialismo è una (in)cultura tipica della sinistra.

In definitiva, quindi, se guardiamo ai fatti, al di là del linguaggio, mi sembra che di odio nella Harris che ne sia almeno quanto in Trump. Ma, soprattutto, in caso di sua vittoria sarebbero molto maggiori i rischi che tale odio venga tradotto in comportamenti lesivi della democrazia. Se ho qualche remora ad augurarmi esplicitamente che perda è solo per due ragioni.

La prima è l’incertezza su cosa farebbe Trump in Ucraina, dove l’Occidente si sta giocando la pelle senza esserne minimamente consapevole. Anche se non bisogna esagerare. Se infatti è certo che Trump cercherebbe di trattare con Putin, non credo invece affatto che sia suo amico, come molti sostengono, visto che è già stato Presidente per 4 anni e non mi risulta che gli abbia mai fatto particolari favori. Quello che lui pensa davvero è che Putin sia un “duro” con cui solo uno ancora più duro (come lui ritiene di essere) possa trattare con successo. Quindi ci proverà, ma quando si accorgerà che Putin non ha nessuna intenzione di ascoltarlo andrà su tutte le furie e potrebbe decidere di dare all’Ucraina un sostegno perfino maggiore di quello (peraltro tentennante e insufficiente) che le ha dato Biden e che verosimilmente le darebbe Kamala.

Il vero problema è quanto ci metterà Trump a rendersi conto che Putin lo sta prendendo in giro, perché nel frattempo potrebbero prodursi danni non più rimediabili. E qui veniamo alla mia seconda e più grave preoccupazione. Perché negli ultimi tempi anche Trump sembra aver cominciato a dare qualche segno di rincoglionimento, certo non al livello di Biden, ma tuttavia tale da non lasciare tranquilli, soprattutto considerando che ha già 78 anni e che, se vincesse, dovrebbe governare fino a 82.

Se non fosse per questo, pur turandomi democristianamente il naso, farei sicuramente il tifo per lui. Così stando le cose, posso solo sperare che Dio ce la mandi buona. E, soprattutto, che alle prossime elezioni ci mandi dei candidati più decenti.




Kamala Harris versus Donald Trump – Elezioni americane e politicamente corretto

In un solo giorno è cambiato tutto. Prima della rinuncia di Biden, nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria dei Democratici alle presidenziali di novembre. Dopo le sue dimissioni, nessuno esclude che, con Kamala Harris, i Democratici possano vincere e
restare alla Casa Bianca.

I sondaggi concordano su un solo punto: lo scarto fra Trump e Harris è modesto e dello stesso ordine di grandezza dell’errore statistico. E a questa incertezza si aggiunge quella sui vice. Harris non ha ancora scelto il suo vice, né potrebbe essere diversamente, visto che non ha ancora ottenuto l’investitura ufficiale come candidata dei Democratici. Quanto a Trump, ha già fatto un errore: scegliere il proprio vice (J.D. Vance) senza sapere ancora chi sarà il suo avversario. C’è chi dice che, se avesse saputo che a sfidarlo sarebbe stata una donna, avrebbe scelto come vice un’altra donna (verosimilmente la sua ex acerrima rivale Nikki Haley).

Alcuni dei temi in campo sono i soliti: economia, immigrazione, diritti. Altri sono nuovi: guerra in Ucraina, guerra a Gaza. Ma è verosimile che, ad infiammare la competizione, saranno soprattutto due temi generali: la gestione dell’immigrazione
(in particolare del confine con il Messico); la questione dei diritti riproduttivi, delle minoranze sessuali, e più in generale della cultura woke.

Su questi due versanti Harris e Trump hanno, entrambi, punti deboli e punti forti.

Sull’immigrazione, Trump non potrà maramaldeggiare troppo perché Harris non è certo stata una paladina delle frontiere aperte, ha anzi più volte preso posizioni che in Italia siamo abituati ad associare a Salvini e Meloni: non venite, vi aiuteremo a casa
vostra, no al traffico di esseri umani, esternalizzazione delle richieste di asilo in paesi terzi (il nostro modello Albania). Trump potrà anche accusarla di non aver fatto abbastanza, ma non certo di aver spalancato i confini. Semmai, le critiche a Kamala
Harris potrebbero arrivare dalla sinistra del partito democratico (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez), schierata su posizioni aperturiste. Insomma, in materia di immigrazione Kamala Harris si è comportata in modo moderato, se non di destra.

In termini diametralmente opposti stanno le cose sul tema dei diritti. Qui Kamala può vantare un non ambiguo posizionamento pro aborto e pro diritti LGBT+, una linea che la colloca nel cuore della cultura woke. Ma proprio questo suo radicalismo in
materia di diritti rischia di farne il bersaglio perfetto della guerra contro il wokismo dichiarata da Trump e dal suo vice. Una guerra che, in America, è molto più vasta e coinvolgente che da noi. E che non è detto trovi donne, neri, ispanici, compattamente schierati a sostegno della candidata democratica. Kamala Harris, ad esempio, ha l’ostilità del movimento Black Lives Matter, che non ha gradito la sua antidemocratica investitura dall’alto. Quanto alle donne, la maggioranza apprezza la difesa dell’aborto, ma una parte delle femministe non gradisce l’appoggio alle istanze dei transessuali, in particolare dei trans MtF (da maschio a femmine), accusati di invadere gli spazi tradizionalmente riservati alle donne.

E poi c’è il tema forse più importante: il politicamente corretto e più in generale la mentalità woke. Una etichetta che un tempo significava solo politica degli eufemismi (sostituire donna di sevizio con colf), ma negli ultimi anni – proprio negli Stati Uniti
– ha enormemente allargato il suo significato, ben al di là del semplice bon ton linguistico. In nome della correttezza politica i campus studenteschi si sono trasformati in campi di rieducazione, migliaia di professori hanno subito sanzioni o perso il posto, la selezione dei candidati e le promozioni hanno sempre più punito le maggioranze “normali” (maschi e femmine bianchi eterosessuali) a favore di minoranze etniche o sessuali, specie se politicamente impegnati in cause ritenute giuste e prioritarie: anti-razzismo, giustizia sociale, inclusione.

Più in generale si è enormemente allargata la frattura fra due mondi: da una parte l’establishment istruito, che occupa le posizioni chiave nell’economia, nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel mondo della comunicazione, e in virtù della sua adesione alle istanze woke si sente portatore di una superiorità etica; dall’altra i ceti popolari a bassa istruzione, perennemente alle prese con le asperità della vita quotidiana, e del tutto insensibili alle sottili questioni linguistiche e giuridiche che appassionano l’élite colta. Questo è il terreno di scontro ideale per i Repubblicani, perché permette loro di presentarsi come paladini della libertà di espressione (contro la censura) e della meritocrazia (contro la politica delle quote). Già nel 2016 l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto aveva aiutato l’elezione di Trump. Se vuole vincere, Kamala Harris farà bene a non scordare quella lezione.

[Articolo uscito sul Messaggero il 28 luglio 2024]




Kamala Harris e Donald Trump – 50 sfumature di cattiveria

Alla fine Biden ha fatto il passo indietro che tutti (tranne la moglie Jill) gli chiedevano. E ha pure lanciato Kamala Harris, la sua vice, come candidata democratica alla presidenza. Ora si attende di capire se il Partito Democratico statunitense accetterà la candidatura, oppure aprirà i giochi per spianare la via a un altro candidato. E naturalmente si attende di conoscere il nome dell’eventuale vice-presidente democratico.

Ma supponiamo, per un attimo, che la prescelta per fermare l’ascesa di Trump sia proprio Kamala Harris, e proviamo a immaginare che tipo di campagna elettorale andrà in scena. Ebbene, io credo che quella cui assisteremo sarà a una campagna non
convenzionale. E addirittura sorprendente per noi europei, che sull’America siamo pieni di stereotipi.

Noi siamo convinti, per esempio, che i democratici siano i buoni, tutti accoglienza e diritti, e i repubblicani siano i cattivi, nemici dei migranti e delle donne. In qualche misura è vero, ma il punto è in quale misura.

Prendiamo la candidata presidente Kamala Harris. Da quando è stata eletta, lei e Biden sono stati durissimi con l’immigrazione irregolare. Il primo viaggio ufficiale di Kamala Harris è stato andare in Messico e in Guatemala a dire in modo chiaro: non
venite! se lo farete vi respingeremo. Il quadriennio Biden-Harris è stato costellato di atti e dichiarazioni assai severe verso i migranti, con conseguente indignazione della sinistra del partito (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez). Su molti punti il duo Biden-Harris si è mosso come il duo Meloni-Salvini: analogo è l’impegno ad “aiutarli a casa loro”; analogo è il tentativo di esternalizzare in altri paesi le richieste di asilo (modello Albania); analoga è l’aspirazione a moltiplicare rimpatri e respingimenti;
analoga è la volontà di contenere le migrazioni irregolari e stroncare il traffico di esseri umani.

Se non sapessimo nulla di quel che accade negli Stati Uniti, e ci avessero chiesto di indovinare chi era al governo basandoci soltanto sulle politiche migratorie, avremmo detto che l’inquilino della Casa Bianca era un feroce repubblicano, ostile ai migranti. In breve: la candidata Harris ha un profilo moderato, sensibile alle preoccupazioni degli elettori in materia di immigrazione, e potrà essere attaccata per non aver fatto abbastanza, non certo per aver chiuso un occhio, o favorito l’immigrazione irregolare.

Esattamente come è appena accaduto nel Regno Unito con la vittoria di Starmer, i progressisti si presentano all’elettorato con un profilo moderato, attento all’elettore mediano incerto fra destra e sinistra e perciò potenzialmente decisivo. Lo stereotipo
dei democratici buoni e dei repubblicani cattivi regge forse sul piano dei toni e del linguaggio, ma nella sostanza c’è tutt’al più una (piccola) differenza di grado nella cattiveria.

Si potrebbe obiettare che, almeno sul piano dei diritti, la differenza fra i cattivi repubblicani e i buoni democratici regge. Ma anche qui, in realtà, quel che troviamo sono essenzialmente differenze di grado. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, sui diritti Trump si è mostrato molto cauto, e probabilmente dovrà esserlo ancora di più se la candidata democratica sarà una donna. Sull’aborto, ad esempio, ha chiarito di non volere una norma nazionale che lo proibisca, e di essere comunque sempre per la libera scelta della donna nei casi di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre. Sulla fecondazione in vitro ha dichiarato che la pratica dovrebbe essere legale in tutti gli Stati americani, e ha duramente criticato una sentenza ultra-reazionaria della Corte Suprema dell’Alabama, in virtù della quale la distruzione di embrioni congelati sarebbe equiparabile all’omicidio colposo di minori. La distanza con i democratici c’è, ma forse è meno grande di quel che siamo portati a credere, tanto più ove i democratici dovessero recepire il monito di Hillary Clinton a mitigare l’ossessione per i diritti trans, se non vogliono perdere le elezioni.

Ecco perché dicevo che la campagna elettorale potrebbe rivelarsi sorprendente.

Scontate le grandi differenze in politica economica e in politica estera, sui temi che più coinvolgono i cittadini – immigrazione e diritti – potremmo invece scoprire una Harris meno buona di quel che si crede, e un Trump meno cattivo di quel che si vuol
pensare, perché entrambi sono impegnati nella caccia ai moderati.

Quanto al risultato, starei cautissimo. Nonostante gli ultimi eventi giochino nettamente a favore di Trump, i sondaggi non gli dànno – per ora – un margine di vittoria rassicurante. Alla fine, decisivo potrebbe essere l’elettore mediano, che può
otare sia repubblicano sia democratico. E decide in base alla ragionevolezza dei programmi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 22 luglio 2024]