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Femminicidi, un problema degli anziani?

4 Dicembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

A mia memoria, non era mai successo che un problema sociale attirasse un’attenzione così enorme come quella suscitata dal dramma di Giulia Cecchettin, e al tempo stesso fosse così poco studiato, almeno in Italia. Il fatto che quasi tutti abbiano un’opinione sulle cause e sui rimedi, non deve ingannarci: in realtà non sappiamo quasi nulla, se per “sapere” intendiamo conoscere chi sono le vittime, quali sono le cause, quali possono essere i rimedi efficaci.

Finora, quasi tutte le analisi del fenomeno si sono basate su dati molto aggregati, senza riuscire a scendere nel dettaglio – caso per caso, individuo per individuo – come sarebbe necessario se vogliamo cominciare a capire. Per questo meritano una speciale riconoscenza le donne dell’associazione Non Una Di Meno (NUDM), che da alcuni anni raccolgono in un database tutte le informazioni disponibili su ogni evento in cui una donna viene uccisa, indipendentemente dal fatto che l’omicidio possa essere classificato come femminicidio oppure no (al momento non esiste una definizione statistica condivisa e facile da applicare).

Sono andato a curiosare nel database, che descrive i 110 casi del 2023, e ho provato a fare alcuni calcoli, confrontando i profili di tre insiemi: le donne uccise, i loro uccisori, la popolazione italiana di almeno 10 anni. Ed ecco alcuni risultati.

Cominciamo da quella che considero la maggiore sorpresa: l’età media. Come la maggior parte delle persone che – a titolo di curiosità – ho interrogato in questi giorni, pensavo che le fasce di età a maggiore rischio fossero quelle intorno ai 20-30 anni, o tutt’al più fino ai 40. Ebbene, niente di più sbagliato. Nella fascia 20-40 anni rientra solo 1 donna uccisa su 4. La fascia a maggiore rischio è la fascia delle donne con almeno 60 anni, e il rischio aumenta passando alla fascia delle ultra-70enni. E infatti l’età media di tutte le donne uccise è 53 anni, e quella dei loro assassini (quasi tutti maschi) è 54 anni, entrambe maggiori dell’età media degli italiani  che è di 46 anni (50 se escludiamo i bambini).

In concreto, questo significa che il rischio di essere uccisa di una donna anziana è maggiore di quello di una donna giovane o adulta. Si potrebbe pensare che questo sia dovuto al fatto che, nelle uccisioni di donne, rientrano anche i casi che non configurano un femminicidio. Ma ripetendo il calcolo per i soli femminicidi in base a due definizioni e a due dataset diversi (è stato pubblicato anche un secondo dataset, molto meno ricco), il risultato non cambia, anzi si rafforza: il rischio di essere uccisa di una anziana di almeno 60 anni è del 46% più alto di quello di una donna sotto i 60, e quello di una donna di almeno 70 anni è del 69% più alto di quello di una donna sotto i 70. In breve: il caso di Giulia non è in nessun modo tipico.

Ma questa non è l’unica sorpresa. Nel database di NUDM ci sono molte altre informazioni che, in teoria, potrebbero aiutarci a costruire un profilo tipico delle vittime e dei loro assassini. Ebbene, quel che si scopre facendo i confronti con la popolazione, è che un tale profilo non c’è, anche se – su alcune variabili – emerge una qualche specificità del campione dei femminicidi (lo chiamo così per brevità). I 108 casi registrati sono avvenuti in quasi tutte le regioni; in comuni piccoli, medi e grandi; gli autori del delitto sono operai, impiegati, dirigenti, commercianti, pensionati, disoccupati, tutti in proporzioni comparabili a quelle della popolazione maschile generale.

Solo su alcuni particolari aspetti, è possibile rintracciare scostamenti – talora grandi, talora al limite della significatività statistica – fra il campione e la popolazione. Uno scostamento macroscopico, ma forse non sorprendente, è che metà degli aggressori o si suicida (oltre 1 su 3) o è comunque in una condizione di devianza nel senso tecnico del termine (precedenti penali, prostituzione, problemi psichiatrici, vagabondaggio, eccetera). Un secondo scostamento riguarda la nazionalità delle vittime e degli aggressori. In entrambi i casi sono sovrarappresentate le persone di nazionalità straniera, ma con una importante asimmetria: nel campione il rischio che una donna italiana sia uccisa da uno straniero è quasi 7 volte più alto del rischio opposto, ossia che una donna straniera sia uccisa da un italiano.

Prendere spunto da questi dati per fare affermazioni generali sulle radici dei femminicidi sarebbe una mossa avventata. Però, forse, una piccola considerazione possiamo farla: la visione che abbiamo dei femminicidi è molto stereotipata. Il caso della giovane donna vittima di un partner possessivo, ma per il resto “normale”, è decisamente minoritario. Le donne di meno di 40 anni uccise dal partner o dall’ex sono 20 su 110, e scendono a 16 se trascuriamo i casi in cui l’aggressore è un deviante o si suicida. In altre parole: i casi analoghi a quelli di Giulia e Filippo, anche a voler considerare tutta la fascia di età fino ai 40 anni, riguardano circa il 15% delle uccisioni di donne. E tutto il resto?

Sul resto dobbiamo indagare e riflettere, sapendo però che – al centro – ci sono le donne che attraversano “il terzo tempo” della loro vita, come lo ha chiamato Lidia Ravera in un suo libro recente sulla vecchiaia. Un gruppo sociale al quale, notava fin dagli anni ’80 un’altra scrittrice – Natalia Ginzburg – la nostra società riserva una sola, ipocrita, cortesia, quella di chiamarle anziane anziché vecchie.

Fortezza Europa?

30 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

È dei giorni scorsi la notizia che 8 paesi europei, fra cui l’Italia, hanno più o meno completamente sospeso la convenzione di Schengen, che dal 1990 permette la libera circolazione all’interno dell’Europa. Da sabato, in particolare, Giorgia Meloni ha disposto di ripristinare i controlli alle numerose località di frontiera con la Slovenia, a partire dal valico Fernetti, uno dei maggiori punti di transito tra l’Europa occidentale e quella centro-orientale.

La misura è stata motivata con la necessità di filtrare gli ingressi in chiave anti-terrorismo, ma il suo significato – a mio parere – finirà per andare molto al di là delle ragioni contingenti che l’hanno motivata. Essa ha infatti finito per mettere in luce due aspetti per lo più trascurati del problema migratorio.

Il primo è che gli ingressi irregolari in Italia non avvengono solo via mare, tramite i barconi, ma anche via terra. Il secondo è che, finora – ossia vigente la convenzione di Schengen – gli ingressi in Europa via terra sono sempre stati ancora meno controllabili di quelli via mare. Tali e tanti, infatti, sono i punti di frontiera non controllabili (boschi, valichi, pianure poco abitate), che risulta impossibile intercettare e registrare una frazione cospicua di quanti entrano in Europa alla spicciolata da un confine terrestre. Un problema acuito dal fatto che diversi paesi europei, in particolare gli ultimi arrivati Slovenia e Croazia, non sembrano minimamente intenzionati né a controllare gli ingressi dai Balcani né le uscite verso l’Italia. Insomma, se fermare le partenze via mare dall’Africa è difficile, anche con l’impegno dell’Europa contro scafisti e trafficanti, fermare quelle dai Balcani e dall’Est Europa è praticamente impossibile, almeno con le norme attuali.

Prendere atto di questa impossibilità è importante perché rende più chiaro il fatto che, in materia di politiche migratorie, determinate alternative o non esistono, o hanno prezzi elevatissimi. L’alternativa che non esiste è quella di fermare gli ingressi irregolari in Europa bloccando le partenze dall’Africa: anche azzerandole, resterebbe un enorme flusso da terra, destinato a ingrossarsi man mano che avesse successo la politica di contrasto agli sbarchi dal mare, in particolare verso Italia, Grecia e Malta. L’alternativa che esiste ma ha un prezzo (economico, ma anche morale) elevatissimo è la via della “fortezza Europa”: costruire muri lungo tutti i confini esterni, come da decenni, chiunque – repubblicano o democratico – fosse il presidente, hanno provato a fare gli Stati Uniti sul confine con il Messico.

Questo significa che il problema del controllo dei flussi migratori è irrisolvibile? Probabilmente sì, con le regole attuali. Non a caso nessuna forza politica ha un piano che sia al tempo stesso realistico e compatibile con il diritto vigente a livello nazionale, europeo, internazionale.

Così stando le cose, le strade aperte sono solo due. Proclamare, come fa la sinistra, che il problema non esiste, che abbiamo bisogno dei migranti, e che le frontiere aperte, il melting pot fra popolazioni europee ed extra-europee, non sono un problema ma, semmai, un’occasione di arricchimento della nostra civiltà. Oppure prendere atto, come una parte della destra sta provando a fare, che se vogliamo essere noi a decidere chi può entrare in Europa (dottrina von der Leyen), non possiamo non rendere molto più severe le regole che ci siamo dati fin qui. Regole che ci inorgogliscono per la nostra apertura, il nostro garantismo, la nostra umanità, ma – inevitabilmente – ci sottraggono il diritto di decidere chi può entrare in Europa e chi no. Perché sono le nostre regole, non certo le Ong, il vero pull-factor che – nonostante pericoli e difficoltà – rende così attrattivo il viaggio verso l’Europa.

Perché per quest’autunno-inverno si prospetta un “lockdown energetico” ed i rischi per l’Italia

12 Settembre 2022 - di Mario Menichella

EconomiaIn primo pianoSocietàSpeciale

 “Nei momenti di pericolo, non esiste peccato più grave dell’inerzia”.

Dan Brown

L’invasione russa dell’Ucraina ha sconvolto i mercati energetici globali, generando il più grande aumento dei prezzi del petrolio dagli anni ’70. Parallelamente, i prezzi del carbone e del gas hanno tutti raggiunto i massimi storici in termini nominali. In termini reali, tuttavia, solo i prezzi europei del gas naturale hanno raggiunto i massimi storici e rimangono notevolmente al di sopra del picco precedente del 2008. Le conseguenze di tutto ciò per la crescita mondiale saranno significative: è probabile che l’aumento dei prezzi dell’energia, da solo, riduca la produzione globale di quasi l’1% entro la fine del 2023, come suggerisce una recente analisi della Banca Mondiale [1]. Ma per l’Europa – e in particolare per l’Italia – l’impennata dei prezzi del gas e dell’energia elettrica, e quindi delle relative bollette, verosimilmente imporrà la necessità di una sorta di “lockdown energetico” nel prossimo autunno-inverno. Le conseguenze di questo nuovo lockdown sono difficili da stimare, ma poiché l’aumento dei prezzi dell’energia ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi, qualora si superassero determinate soglie critiche si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. In questo articolo cercherò di illustrare tali rischi alla luce dei nuovi dati oggi disponibili, evidenziando in particolare alcune questioni chiave largamente sottovalutate dal Governo italiano.

I motivi geopolitici della recente impennata dei prezzi dell’energia in Europa

Già prima dell’inizio della guerra, i prezzi del petrolio greggio sono aumentati notevolmente a causa della ripresa economica dalla crisi del Covid, mentre l’offerta non era tornata del tutto al livello pre-crisi. La guerra ha rafforzato questo movimento al rialzo dei prezzi, poiché l’offerta russa è diminuita prima a causa delle difficoltà di trasporto e di pagamento in relazione alle sanzioni, poi per la parziale “chiusura dei rubinetti” da parte di Gazprom, che è controllata dalla Federazione Russa.

Prima della guerra, il prezzo all’esportazione della Russia seguiva da vicino il prezzo del mercato globale per il petrolio Brent, indice di alta sostituibilità di questa materia prima [8]. Dato che la Russia è solo uno dei molti fornitori di petrolio dell’Unione Europea (l’incidenza delle importazioni dalla Russia era del 12,5% per l’Italia, del 22,8% per la UE [34]), il petrolio mancante per le importazioni dell’UE dalla Russia venute meno può essere sostituito da importazioni fatte da altrove; mentre, per la Russia, le mancate esportazioni di petrolio verso l’Occidente possono essere in parte compensate dagli acquisti di India e Cina.

A differenza del petrolio, il mercato del gas è regionale. Esistono, a grandi linee, tre grandi mercati del gas a livello globale: Europa, Nord America e Asia. I prezzi su questi mercati normalmente sono correlati, poiché il gas naturale liquefatto (GNL) può essere spedito a ognuno di essi, tuttavia possono differire fra loro in modo significativo. A partire dal 2021, l’elevata domanda in Asia ha portato a una crescita importante della divergenza tra il prezzo del gas nordamericano (più basso) ed i prezzi in Asia ed Europa (più alti).

Il caso del gas si differenzia da quello del petrolio perché le importazioni europee vengono consegnate principalmente tramite gasdotti: a causa dei vincoli di trasporto, il mercato del gas non è globale (cioè con prezzi allineati fra loro a livello mondiale), ed i prezzi dei 3 mercati regionali non sono unificati, come si può vedere molto bene dalla figura seguente. In essa risulta evidente come l’impennata dei prezzi del gas sia un problema prettamente europeo, non riguarda aree lontane come USA, Giappone, etc.

Il prezzo del gas naturale (espresso in dollari USA) in diverse zone del mondo. Si noti come solo in Europa si sia avuta un’abnorme impennata del prezzo. 20 mmbtu sono equivalenti a circa 6 MWh. (fonte: World Bank and IEA) 

I prezzi del gas sono fortemente aumentati in Europa già a partire dal 2021, poiché il forte aumento della domanda legato alla ripresa economica ha incontrato un’offerta meno dinamica da parte di Paesi Bassi e Russia, con quest’ultima che a seguito delle note vicende belliche ha gradualmente smesso di servire i mercati a breve termine (onorando per un certo tempo solo i suoi contratti a lungo termine già firmati, per poi ridurre ulteriormente i flussi di gas con motivazioni di comodo). E, come succede in questi casi, il prezzo della materia prima che scarseggia si è letteralmente impennato.

Nel 2020 la Russia ha prodotto il 22% del gas mondiale, mentre l’Europa ha consumato il 13% del gas naturale prodotto nel mondo (dati Enerdata). Poiché la Russia rappresenta circa il 40% del gas consumato in Europa (e per l’Italia il 43%), la totale scomparsa di questa fornitura rappresenterebbe uno shock del 13% x 40% = 5% a livello mondiale ma molto di più a livello regionale, poiché la fornitura alternativa è limitata dalla capacità di trasporto e di rigassificazione del Gas Naturale Liquefatto importato (GNL), che oggi rappresenta soltanto il 20% della fornitura europea di gas (secondo i dati forniti da Bruegel).

Sostituire interamente le importazioni russe di gas con GNL significherebbe triplicare le forniture europee di GNL, cosa che nel breve termine non è né tecnicamente possibile (per l’offerta limitata sul mercato mondiale, e per la bassa capacità di rigassificazione aggiuntiva in Europa) né economicamente fattibile (l’Europa è in concorrenza con l’Asia sul mercato del GNL e il reindirizzamento dei flussi verso l’Europa è costoso) [7]. L’AIE prevede quindi la sostituzione con GNL solo del 13% del gas russo mancante.

Per questo, a partire dal 2021, il prezzo del gas è aumentato molto di più del prezzo del petrolio per i Paesi europei: circa +60% a marzo 2022 rispetto a febbraio; e di ben 5 volte ad aprile 2022 rispetto ad aprile 2021. Ed è per tale ragione che, specie in caso di rilevante o totale interruzione delle forniture di gas russo, gli esperti prevedono per quest’autunno-inverno un prezzo estremamente alto della materia prima (e delle relative bollette), o addirittura un razionamento quantitativo di gas e luce sul suolo europeo.

D’altra parte, l’Unione Europea non può, nel corso di quest’anno e del prossimo, sostituire del tutto le importazioni di gas naturale russo [23]. Quindi, nel breve periodo la domanda di gas dell’UE è relativamente anelastica.  In regime di monopolio, un’elasticità così bassa porterebbe la Russia a fissare un prezzo molto alto, anche in assenza di guerra. Il motivo per cui la Russia non l’ha fatto in passato è che l’elasticità sul lungo periodo è sicuramente assicurata, e quindi deve affrontare un compromesso intertemporale: un prezzo molto alto aumenta i ricavi nel breve termine, ma li diminuisce nel lungo termine.

La guerra, tuttavia, ha due effetti evidenti e importanti su questo tipo di calcolo. Il primo è un’esigenza ancora maggiore di maggiori entrate oggi, portando ad un aumento del prezzo. La seconda è che la permanenza futura o l’inasprimento delle sanzioni, nonché la chiara decisione dell’Unione Europea di svezzarsi dalle importazioni di gas russo, riducono gli effetti di un aumento del prezzo sui ricavi futuri, portando ancora una volta la Russia ad aumentare il prezzo mentre la domanda è ancora lì.

In breve, ignorando le sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare le entrate delle esportazioni di energia. Ma mentre per il petrolio ciò implicherebbe un aumento del volume delle esportazioni (dato il prezzo mondiale), per il gas comporterebbe un aumento dei prezzi (e quindi volumi di esportazione in diminuzione) [8]. I veri contratti di gas a lungo termine normalmente precludono tale comportamento, in quanto specificano l’indicizzazione dei prezzi sul petrolio o sulla borsa del gas olandese (TTF). Ma la Russia ha una certa flessibilità per spostare parte della sua offerta dalle consegne nell’ambito di contratti esistenti a vendite sul mercato non regolamentato. In altre parole, i contratti possono essere rivisti o interrotti.

Per cercare di rimpiazzare una parte del gas russo, il Governo italiano si è mosso rapidamente, attraverso gli accordi con Algeria, Angola e Congo, ma il grosso delle forniture aggiuntive non arriverà fino al 2023. L’import di gas annuale dalla Russia verso l’UE prima della guerra era di circa 155 miliardi di metri cubi. È possibile rimpiazzarne poco meno della metà attraverso maggiori forniture da Stati Uniti, Norvegia, Africa. L’Italia può inoltre contare sulla riattivazione di alcune centrali a carbone. Di conseguenza, quest’inverno il deficit di gas per il nostro paese dovrebbe arrivare, al più, al 13-18% del fabbisogno pre-crisi.

Altri shock per l’Europa collegati alla situazione attuale

Oltre al greggio e al gas naturale, la Russia esporta carbone (che viene trasportato via nave, il che lo rende altamente sostituibile con altri fornitori) e prodotti petroliferi raffinati (in particolare il gasolio), dai quali l’Europa occidentale è particolarmente dipendente poiché le capacità di raffinazione sono specifiche e difficili da sostituire a breve termine. La Russia esporta anche metalli rari (nichel, palladio, di cui è il primo produttore mondiale) per i quali la sostituzione è invece delicata, e altri prodotti (fertilizzanti, grano, legno, etc.) che vengono scambiati su un mercato mondiale.

Oltre a questi shock dell’offerta e dei relativi prezzi, gli europei devono aggiungere la perdita di mercati in Russia a causa delle restrizioni alle esportazioni, che a maggio è arrivata a raggiungere circa il 60% dei volumi esportati in quel paese nel 2021, ovvero circa lo 0,4% del PIL europeo. Inoltre, secondo l’interessante analisi di Blanchard & Pisani-Ferry [8], relativa alle implicazioni della guerra Russia-Ucraina per la politica economica dell’Unione Europea, il ritiro delle grandi aziende europee dal territorio russo rappresenterebbe da solo una perdita di circa l’1 per cento del PIL per l’economia europea.

Infine, l’invasione dell’Ucraina potrebbe innescare comportamenti precauzionali da parte di famiglie e imprese in Europa, portandole a rivedere al ribasso i propri investimenti, a risparmiare di più ed a indirizzare i propri risparmi verso asset a basso rischio. Potrebbe anche aumentare l’incertezza sui mercati finanziari, nonché accrescere ulteriormente il deprezzamento dell’euro (che nei confronti del dollaro USA è stato di quasi il 20% nell’ultimo anno), il che potrebbe sostenere le esportazioni extra-UE nel breve termine, aumentando però al contempo le pressioni inflazionistiche.

In realtà, gli shock dei prezzi dell’energia influenzano l’attività economica e l’inflazione attraverso una varietà di canali, con effetti diretti e indiretti sulle economie importatrici ed esportatrici di energia. Gli effetti indiretti possono verificarsi attraverso il commercio e altri mercati delle materie prime, attraverso le risposte di politica monetaria e fiscale e attraverso l’incertezza degli investimenti. Attraverso questi canali, i prezzi dell’energia possono anche avere ripercussioni immediate sui saldi fiscali ed esterni [1].

In Italia, l’aumento dei prezzi dell’energia e dei beni ha spinto l’inflazione fino al +8,4% di agosto, ed essa è per quasi l’80% dovuta proprio all’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche. Tali valori sono ben al di sopra dell’obiettivo del 2% che la Banca Centrale Europea si era a suo tempo posta. È probabile che i prezzi aumentino più velocemente del reddito per molte persone. Ciò significa che il costo della vita per un gran numero di italiani sta pesando fortemente sul budget personale e familiare.

L’inflazione in Italia, arrivata in poco tempo a livelli record che non si raggiungevano da 37 anni. (fonte: La Verità)

I prezzi più elevati per i beni che acquistiamo dall’estero sono uno dei motivi principali di ciò. Poiché le restrizioni Covid si sono allentate in molti paesi, le persone hanno iniziato a comprare più cose, avendo accumulato livelli record di risparmi nel corso della pandemia. Ciò ha generato un’impennata della domanda globale di beni di consumo durevoli e non durevoli, portando a carenze sul mercato di alcuni semilavorati e prodotti finali, a “colli di bottiglia” senza precedenti nella produzione e nel commercio, e di conseguenza a prezzi più elevati, in particolare per le merci importate dall’estero.

Anche l’aumento dei prezzi dell’energia ha svolto un ruolo importante. I forti aumenti dei prezzi del petrolio e del gas hanno spinto verso l’alto i prezzi della benzina e le bollette dell’energia, e questi aumenti sono iniziati ben prima dello scoppio della guerra fra Russia e Ucraina. Poiché i prezzi dell’energia verosimilmente continueranno a crescere sul breve termine (e potenzialmente anche sul medio termine, specie se i paesi dell’UE non adottassero misure adeguate o il conflitto nel frattempo si estendesse ad altri paesi), ci si aspetta che l’inflazione salga ulteriormente quest’anno e che l’economia rallenti.

Infine, l’invasione russa dell’Ucraina ha portato ad aumenti assai più accelerati e più consistenti del prezzo di cose come energia e cibo. Come se non bastasse, sia la guerra che i lockdown per Covid in Cina stanno rendendo più difficile importare cose, oltre ad allungare i tempi di consegna. È probabile che ciò faccia in futuro aumentare ulteriormente i prezzi di alcuni beni. Come risultato di questi fattori, prevediamo un aumento dell’inflazione, che potrebbe far addirittura rimpiangere i valori attuali.

A questo quadro, va aggiunto lo “shock” legato al fenomeno dell’immigrazione irregolare, che, dal punto di vista dell’impatto negativo sul tessuto sociale dovuto alla male gestio dello stesso, riguarda principalmente l’Italia, e che è tale soprattutto per i numeri assoluti e senza precedenti che si vanno raggiungendo. Gli immigrati clandestini rappresentano ormai una vera e propria “quinta colonna” in Italia, per questo in qualsiasi paese occidentale serio (Australia, Giappone, Stati Uniti, etc.) tale problema viene considerato una questione di sicurezza nazionale ed è affrontato con metodi assai decisi e risolutivi.

Nei primi 8 mesi di quest’anno, secondo i dati del Viminale [20], sono sbarcati in Italia circa 57.000 migranti (principalmente di nazionalità egiziana, bengalese, tunisina, afghana e siriana), cioè ben tre volte quanti ne erano sbarcati – nello stesso periodo – due anni prima, cioè nel 2020; e potrebbero sfiorare i 100.000 entro la fine dell’anno, da confrontarsi con gli appena 11.500 del 2018 [21]. Inoltre, secondo i dati Istat relativi al 2021, gli stranieri che in Italia vivono in povertà assoluta sono oltre 1.600.000, con un’incidenza pari al 32,4%, oltre quattro volte superiore a quella degli italiani in stato di povertà assoluta (7,2%).

L’impatto dello shock energetico sull’economia di un Paese: i modelli

Una volta definiti gli shock, occorre guardare alle loro conseguenze. Ci limitiamo qui al versante energetico, cominciando dalle conseguenze dell’aumento del prezzo del petrolio sulle famiglie e sulle aziende e passando poi ad analizzare quelle dell’aumento dei prezzi del gas naturale. Ricordo che i prodotti petroliferi possono essere trovati in qualsiasi cosa: dai dispositivi di protezione individuale, plastica, prodotti chimici e fertilizzanti fino all’aspirina, vestiti, carburante per il trasporto e persino pannelli solari.

Per un paese importatore netto, un aumento del prezzo del petrolio porta a un trasferimento di reddito al resto del mondo, e quindi all’impoverimento delle famiglie, in quanto i derivati del petrolio che pesano molto sul budget familiare sono i carburanti per i veicoli e il gasolio da riscaldamento (per chi ha il riscaldamento centralizzato). Se i salari non si adeguano immediatamente all’aumento dei prezzi, il potere d’acquisto e quindi il consumo diminuiranno nel breve termine.

Le aziende, dal canto loro, non possono trasferire immediatamente sui loro prezzi di vendita i maggiori prezzi del petrolio (che incidono sui prezzi dei carburanti, su quelli del trasporto e quindi sui costi di approvvigionamento delle materie prime e di distribuzione dei prodotti finiti o semi-lavorati). Quindi i loro margini si riducono, a scapito degli investimenti. D’altra parte, quando le aziende aumentano i prezzi, preservano i loro margini ma perdono quote di mercato.

Le 5 componenti di prezzo di un prodotto. Gli aumenti di prezzo in atto stanno agendo su ben 3 di essi, riducendo di conseguenza in misura notevole il margine di guadagno per l’imprenditore. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Inoltre, il calo dei redditi in altri paesi europei importatori di petrolio riduce meccanicamente la domanda estera e quindi le esportazioni del nostro Paese verso di essi. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio, a differenza di quello del gas, è uno shock globale. Poiché tutte le aziende devono far fronte a costi più elevati, gli effetti sulla competitività delle nostre aziende sono relativamente limitati.

Veniamo ora invece all’impatto dei prezzi del gas naturale. Nei modelli macroeconometrici standard, il gas non è identificato come tale e si presume che il suo prezzo segua quello del petrolio [7]. A fortiori, un’interruzione della fornitura di gas è difficile da simulare. In questi modelli, la produzione di beni e servizi dipende dal lavoro, dal capitale e da una cosiddetta “Produttività Totale dei Fattori” (PTF) esogena, definibile come la parte residua di output eccedente gli input di lavoro e capitale.

Un’interruzione nella fornitura di gas importato potrebbe essere vista come una diminuzione esogena della PTF. Tuttavia, in questi modelli keynesiani, la PTF è rilevante solo a lungo termine. Nel breve periodo, il PIL è determinato dalla domanda, sebbene i prezzi rispondano agli shock dell’offerta. Pertanto, un modello macroeconometrico standard non è in grado di tenere adeguatamente conto dell’interruzione delle catene del valore (non c’è solo il problema gas: si pensi ad es. alla scarsità di microchip, etc.).

Pertanto, si deve invece utilizzare un modello di equilibrio generale che descriva come lo shock colpisce non solo le industrie che utilizzano direttamente la materia prima che viene meno – in questo caso il gas – ma anche le industrie a valle (chimica, vetro, etc.); e come il relativo impatto sulla filiera può essere attutito dalle sostituzioni e dall’uso delle importazioni a tutti i livelli delle catene del valore. A seconda delle assunzioni del modello, si può arrivare così a stimare un determinato calo del PIL.

Tuttavia, in un’economia rigida, il riequilibrio dei mercati dopo un forte shock implica altrettanto forti variazioni dei prezzi relativi, e quindi un costo economico significativo quando alcuni prezzi si adeguano solo con ritardo. Ad esempio, le aziende del settore del vetro e ceramica, ma anche le fonderie, le cartiere, alcune aziende del settore chimico e alimentare – o comunque molte delle aziende energivore – non riescono a trasferire i costi più elevati sui propri clienti e alcune interrompono la produzione, il che si ripercuote, a cascata, su altre aziende energivore e non che utilizzavano i loro prodotti.

Perciò, è necessaria una combinazione di approcci diversi per arrivare a una stima realistica degli effetti della crisi energetica. Si possono poi aggiungere altri elementi: calo delle esportazioni verso la Russia, deprezzamento di alcuni beni, comportamenti precauzionali, politiche pubbliche, ecc. Data la complessità di queste stime, dubito che l’Europa abbia deciso di rinunciare al gas e al petrolio russo dopo aver fatto – come invece avrebbe dovuto – opportune analisi del rapporto rischi-benefici.

Blanchard & Pisani-Ferry [8] hanno stimato il drenaggio dei redditi europei dovuto a un aumento del 25% del prezzo del petrolio e del gas importato a circa 1 punto di PIL. L’aumento anno su anno del prezzo del gas è stato però assai più alto: circa 5 volte, pari al 500%, per cui l’impatto sul PIL si preannuncia assai elevato. Questa cifra costituisce una forma di costo economico sottovalutato della guerra per gli europei, un costo che potrebbe aumentare a causa di: ulteriori interruzioni dell’offerta, ricadute internazionali sfavorevoli, chiusure di imprese chiave o di intere filiere e/o “fallimenti” di massa delle famiglie più povere.

L’aumento impressionante del prezzo del gas in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di quasi 3 anni a cui il grafico si riferisce. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice della Borsa italiana del gas, ovvero del PSV (che sta per “Punto di Scambio Virtuale”). Il prezzo del gas è aumentato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

L’impatto teorico del caro-energia sui consumi e sul potere d’acquisto

La politica può – e deve – affrontare lo squilibrio tra domanda e offerta di gas e di petrolio. I responsabili politici devono dare priorità alle politiche che incoraggino una maggiore efficienza energetica e accelerino la transizione verso fonti energetiche a basse emissioni di carbonio, come il fotovoltaico e l’eolico (in particolare quello off-shore) [1]. Il conseguente miglioramento dell’equilibrio tra domanda e offerta di energia può aiutare a ridurre il rischio di stagflazione e superare i venti contrari alla crescita.

Poiché la domanda di energia è – come si dice in gergo – “anelastica” nel breve periodo, i forti aumenti di prezzo dell’energia implicano un calo significativo del potere d’acquisto delle famiglie, che dovrà essere assorbito attraverso: (i) un consumo ridotto di beni e servizi non energetici, (ii) una riduzione del risparmio o (iii) un aumento di reddito [9].Sul breve termine, per attutire gli effetti negativi delle famiglie, il sostegno temporaneo mirato ai gruppi vulnerabili può quindi avere la priorità rispetto ai sussidi energetici che potrebbero ritardare la transizione verso un’economia a zero emissioni di carbonio.

Ma in realtà la partita è assai più grossa. La crisi energetica, come scritto dal Financial Times, è una delle principali cause che hanno portato gli hedge fund a realizzare la più grande scommessa contro il debito italiano dal 2008. Secondo Gianclaudio Torlizzi, fondatore della società di consulenza finanziaria T-Commodity, “il prossimo governo, pur rimanendo all’interno della cornice delle regole europee, dovrà agire per ottenere le necessarie compensazioni per far fronte agli inevitabili razionamenti energetici. I prezzi dei beni energetici sono infatti destinati a rimanere estremi per molto tempo” [10].

In effetti, le variazioni del prezzo del petrolio e del gas possono riflettere sia gli shock dell’offerta di materia prima che quelli della domanda globale. L’aumento dei prezzi dell’energia non sempre porta a una contrazione dei consumi: infatti, possono anche essere una conseguenza di un aumento dei consumi a livello globale. Tuttavia, l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas trasferisce ricchezza dai paesi importatori di tali materie prime ai paesi esportatori e quell’effetto ricchezza, a sua volta, ha un impatto negativo sul consumo nei paesi importatori come il nostro, attraverso effetti moltiplicatori.

Secondo un’analisi pubblicata dalla Banca Centrale Europea (a cui hanno contribuito due italiani), “l’impatto economico di una variazione del prezzo del petrolio causata da uno shock imprevisto della domanda globale aggregata è molto diverso da quello di un aumento del prezzo del petrolio causato da una carenza imprevista nella produzione di petrolio. Pertanto, è importante comprendere fino a che punto gli aumenti del prezzo del petrolio sono guidati da diversi tipi di shock prima di formulare risposte politiche” [9].

Quando, ad esempio, i prezzi del petrolio salgono a causa di un aumento della domanda aggregata, aumentano anche i salari e la politica monetaria dovrà diventare più restrittiva. Al contrario, se i prezzi del petrolio aumentano a causa di interruzioni nell’offerta di petrolio e non ci sono effetti di secondo impatto sui salari, la politica monetaria non ha bisogno di inasprirsi per stabilizzare l’inflazione. Tuttavia, è difficile pensare che un’inflazione galoppante non contribuisca a creare un mix socialmente esplosivo.

Infatti, come osservano gli autori dello studio in questione, “poiché spendono una percentuale relativamente elevata del loro reddito per l’energia, le famiglie povere sono particolarmente colpite in termini di inflazione quando i prezzi dell’energia aumentano. In caso di un forte shock dei prezzi dell’energia, l’impatto negativo su alcune famiglie potrebbe essere così ampio da superare facilmente qualsiasi impatto positivo visto attraverso i canali macroeconomici (ad es. l’occupazione)”.

Inoltre, va sottolineato che secondo la teoria economica i prezzi dell’energia più elevati incidono sui consumi privati ​​attraverso canali sia diretti che indiretti. Un aumento dei prezzi dell’energia incide direttamente sul potere d’acquisto delle famiglie attraverso l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (elettricità, gas, benzina, olio combustibile, ecc.). Nell’area dell’euro, circa il 30% di tutto il consumo di energia assume la forma del consumo finale da parte dei consumatori. Il resto riguarda invece l’energia utilizzata nella produzione di beni e servizi non energetici (cioè i “consumi intermedi”).

Al tempo stesso, un aumento dei prezzi dell’energia comporta un aumento dei costi di produzione dei settori non energetici e, nella misura in cui i produttori di beni e servizi non energetici adeguano i loro prezzi finali, un’ulteriore riduzione diretta del potere d’acquisto delle famiglie (l’effetto è dunque, in questo caso, indiretto). Infatti, se tali costi non possono essere trasferiti sui prezzi finali dei beni in questione, ci sarà inevitabilmente un impatto sul potere d’acquisto delle famiglie, poiché i produttori nei settori interessati taglieranno i salari o avranno minori profitti da distribuire.

Non è facile contrastare l’aumento dell’inflazione, che è determinato da molti fattori diversi: dall’aumento dei costi energetici derivanti dagli sviluppi geopolitici, dagli effetti temporanei delle formazioni dei prezzi non supportate dai fondamentali economici, dai forti shock negativi dell’offerta causati dall’aumento dei prezzi globali dell’energia (che incidono sui prezzi alla produzione e sul trasporto di materie prime e prodotti finiti), ma anche dei generi alimentari e delle materie prime agricole e non, dalle continue interruzioni nelle catene di approvvigionamento, etc.

Di fronte a questi problemi e rischi crescenti, secondo gli economisti la politica fiscale di un paese deve essere flessibile e pronta a fornire maggiore sostegno alle famiglie vulnerabili via via che la situazione peggiora. In un grave scenario al ribasso con carenza di gas e costi in aumento per i consumatori di gas, potrebbe essere necessario posticipare il ritorno alla regola europea del freno all’indebitamento affinché i governi nazionali possano assumere ulteriori prestiti per sostenere l’economia [12].

L’impatto reale su famiglie ed imprese e sul tessuto economico

I modelli macroeconometrici, per quanto sofisticati possano essere, non sono in grado di simulare in modo realistico una situazione così complessa come quella fin qui illustrata, in cui per l’Italia si sommano una serie di shock, non ultimo quello da cui siamo appena usciti, legato ai lockdown prima fisici e poi “virtuali” imposti nell’emergenza pandemica, che rappresentano peraltro solo due dei 10 grandi fattori che hanno impoverito imprese e famiglie durante la pandemia (si veda la mia analisi [3]).

Sebbene l’aumento dell’inflazione – e quindi del costo della vita – impatti apparentemente sull’intera popolazione, l’aumento dei prezzi dell’energia, in realtà, ha un impatto sproporzionato sulle attività imprenditoriali più energivore e sulle famiglie con i redditi più bassi. In altre parole, la spesa per gas ed elettricità in proporzione al reddito disponibile è più alta per le famiglie più povere, e rappresenta un fattore crescente nella compressione dei bilanci delle famiglie, e non solo di quelle italiane [2].

Nell’UE, i prezzi dell’energia per le abitazioni colpiscono il 20% più povero delle famiglie più di quanto non colpiscano le famiglie a reddito più elevato. Per quanto riguarda i costi di trasporto, invece, il loro aumento colpisce più le famiglie ad alto reddito che le famiglie a basso reddito in diversi paesi. In effetti, in un terzo dei paesi europei, le famiglie a reddito più elevato spendono quote maggiori del proprio reddito per la guida della propria auto rispetto alle famiglie a reddito più basso, il che riflette generalmente il possesso di un’auto che è meno comune e si concentra tra le famiglie a reddito più alto in questi paesi [13].

Il grafico mostra il rapporto tra il reddito speso per il trasporto dal 20% delle famiglie di reddito più alto e il 20% delle famiglie con il reddito più basso. 100 indica che entrambi i gruppi spendono parti uguali dei loro budget. Ad esempio, in Bulgaria, la quota di reddito dedicata ai costi di trasporto dal 20% delle famiglie più ricche è del 280% la quota del 20% delle famiglie con i redditi più bassi. Fonte: Indagine sul bilancio delle famiglie (2015) [13].

Nel nostro Paese, però, l’impatto dell’aumento dei costi di energia elettrica, gas e carburanti è stato molto più alto che in altri Paesi europei per una serie di ragioni: (1) non abbiamo l’energia nucleare e l’eolico off-shore nel mix delle fonti energetiche; (2) eravamo già prima della pandemia uno dei Paesi dell’UE che paga di più l’elettricità e il gas (si veda la mia analisi sul tema [4]); (3) le misure di mitigazione prese dal Governo negli scorsi mesi sono state largamente insufficienti e, in parte, mal concepite.

Non deve quindi stupire il fatto che la cronaca ci racconti una realtà del tutto diversa da quella fredda, edulcorata e spesso fatta di semplici “medie” dei modelli macroeconometrici. Non c’è giorno che a un gran numero di aziende italiane arrivino bollette “monstre” che le costringono – nel migliore dei casi – a fare a meno di qualche dipendente e, nel peggiore, a chiudere i battenti temporaneamente (come ad es. nel caso di alcuni hotel o di attività più energivore) oppure per sempre. Ripeto, per sempre.

Non è facile quantificare, al momento, l’impatto del caro-bollette sulle aziende in termine di “sofferenze” e di cessate attività. Tuttavia, quest’estate gli aumenti raggiunti dagli importi delle bollette luce e gas sono stati così elevati (da 3 a 5 volte più alti, se non addirittura di più, rispetto ai livelli dell’anno precedente) che non solo i settori industriali più energivori, ma anche la filiera della ristorazione, il settore alberghiero, gli allevamenti di bestiame e perfino la vendita al dettaglio ne sono stati fortemente colpiti.

Secondo un’analisi effettuata ad agosto da Confcommercio-Imprese, già solo per l’impennata dei prezzi delle materie prime energetiche e per l’inflazione, “di qui ai primi mesi del 2023 in Italia potrebbero “saltare” ben 120.000 aziende del terziario di mercato e 370.000 posti di lavoro” [6]. Complessivamente, la spesa in energia per i comparti del terziario nel 2022 ammonterà a 33 miliardi di euro, il triplo rispetto al 2021 (11 miliardi) e più del doppio rispetto al 2019 (14,9 miliardi).

Tra i settori più esposti, il commercio al dettaglio – in particolare la media e grande distribuzione alimentare, che a luglio ha visto quintuplicare le bollette di luce e gas – la ristorazione e gli alberghi, i trasporti (che oltre al caro carburanti, si trovano ora a dover fermare i mezzi a gas metano per i rincari della materia prima); ma sono colpiti anche i liberi professionisti, le agenzie di viaggio, le attività artistiche e sportive, i servizi di supporto alle imprese e il comparto dell’abbigliamento. E le aziende manifatturiere non possono far lievitare i prezzi dei loro prodotti per non perdere competitività rispetto a quelle estere.

“Intere filiere produttive, fra cui quella del legno-arredo, saranno costrette a fermare la produzione, a mettere i lavoratori in cassa integrazione ed a perdere competitività sui mercati. In pratica, già ad ottobre ci sarà il ‘black out’ della nostra filiera” [16]. È questo il grido d’allarme lanciato da Claudio Feltrin, presidente di FederlegnoArredo, che rappresenta una delle filiere più importanti del made in Italy nel mondo. Non è difficile prevedere, quindi che nei prossimi mesi la richiesta di cassa integrazione avrà un “boom”.

Ciò succederà perché – i politici sembrano ignorare questo aspetto – lo stop delle aziende energivore si ripercuoterà a cascata sull’intera filiera. E un discorso del tutto analogo si potrebbe fare per le filiere della chimica, dell’alimentare e di tanti altri settori merceologici. Quindi, se si fermano le aziende energivore, che sono il “canarino del minatore”, non si ferma solo la percentuale di aziende interessate direttamente dal caro-bolletta, ma anche l’indotto, per cui vi è una sorta di inquietante “effetto moltiplicatore”. E questo effetto sembra essere del tutto ignorato anche dagli studi degli organismi statali preposti!

Come raccontato a fine agosto da Piero Scandellari, presidente del Centergross di Bologna (la più grande area commerciale B2B europea della Moda Pronta italiana e dell’ingrosso), “abbiamo al nostro interno 680 aziende e già il 15 per cento di queste ci ha chiesto di staccare loro il gas. Sicuramente, molte devono ancora riaprire e siamo già a queste percentuali destinate a crescere. Ci aspettiamo sicuramente un intervento del Governo, ma è certo che il gas non ci sarà per tutti”.

Questi numeri rappresentano, però, solo la classica “punta dell’iceberg”, se si considera il fatto che per il prossimo autunno-inverno si presenta sempre più concretamente la necessità di un “lockdown energetico”, del quale peraltro poco trapela dal Governo, per quanto riguarda i dettagli operativi per famiglie e aziende, con una mancanza di programmazione, di comunicazione e, in generale, con una mala gestio che ricorda maledettamente quella della pandemia, già portata alla luce dal prof. Ricolfi nel suo saggio La notte delle ninfee e dal sottoscritto nelle analisi pubblicate dalla Fondazione Hume.

Inoltre, a causa degli insoluti di molte aziende, sempre più gli stessi fornitori di luce e gas o si rifiutano tout court di contrattualizzarle – nel qual caso finiscono alimentate, con sovraprezzi notevoli, dal cosiddetto “fornitore di ultima istanza” – oppure richiedono al cliente una fideiussione a garanzia, come racconta il già citato Scandellari: “l’ENI ci ha chiesto una fideiussione sulla metà di quelli che sono i nostri consumi medi annui, cioè 2,5 miliardi di metri cubi. E la vogliono nel giro di una settimana!” [5].

L’impennata dei prezzi del gas colpisce soprattutto chi compra a spot, “ma sono saltate anche fonderie che avevano contratti fissi, per il fallimento di fornitori”, spiega Dario Zanardi di Assofond [24]. In questa tempesta, il rischio di fermo produttivo è reale: “Dipende da tre variabili: non ci fermiamo se la domanda tiene, se i clienti accetteranno gli aumenti e se non saranno imposti razionamenti. Siamo in balia degli eventi e rischiamo molto, proviamo una grande frustrazione, in nostro potere non c’è nulla”. Insomma, è sempre più chiaro che il tessuto economico italiano questa volta rischia davvero di saltare.

Il “lockdown energetico” atteso per aziende, famiglie e Comuni

I siti di stoccaggio del gas quasi pieni consentono un qualche margine di sicurezza per i mesi invernali ma non sono risolutivi. Il Governo Draghi sta perciò preparando un piano su tre livelli di emergenza a seconda dell’aggravarsi della situazione [10] e, come altri paesi europei, si prepara al razionamento dell’energia, che verrebbe attuato sotto forma di una sorta di “lockdown energetico”, volto (si spera) a scongiurare l’incubo di blackout prolungati, che provocherebbero danni economici e sociali ancor maggiori.

Tra le misure del piano già scattate, c’è la riduzione della temperatura negli uffici pubblici, che non potrà essere superiore ai 19°C in inverno e inferiore ai 27°C in estate, cui si aggiungerà il taglio di un’ora nella durata di esercizio degli impianti ma, in caso di peggioramento della situazione, i tagli dovrebbero essere più drastici. Tuttavia, il contributo effettivo di tali misure è del tutto marginale, poiché è ben noto (fonte DOE [15]) che a una riduzione di 1°C sul termostato corrisponde un risparmio di appena l’1%!

Il piano potrebbe poi introdurre una riduzione di 2°C della temperatura nelle case limitando l’orario di accensione del riscaldamento in inverno (una misura nella pratica assai difficile da far rispettare, se non nei condomini dotati di riscaldamento centralizzato) e chiedendo ai Comuni di ridurre l’illuminazione pubblica nelle strade e sui monumenti fino al 40% dei consumi totali (anche in questo caso il contributo effettivo di questa misura è relativamente ridotto, e limitato praticamente ai soli orari notturni).

Al tempo stesso, gli uffici pubblici potrebbero chiudere in anticipo e anche ai negozi potrebbe essere chiesto di chiudere entro le 19 mentre i locali non dovrebbero rimanere aperti oltre le 23. In questo caso, quindi, si tratterebbe di un vero e proprio “lockdown” che non avrebbe nulla da invidiare a quello messo in atto durante la pandemia e che economicamente tanto male ha fatto a tutte le attività imprenditoriali. Reiterarlo, quindi, rende più facile immaginare il possibile disastro che si va prospettando. E tutto ciò potrebbe essere perfino insufficiente, in caso di chiusura totale del flusso di gas russo.

I rischi maggiori, tuttavia, riguarderebbero le industrie energivore, con la possibilità di subire un’interruzione della fornitura per un periodo limitato di tempo. Infatti l’Italia – come del resto altri paesi europei e non – ha da tempo implementato dei sistemi di incentivazione per aziende con grandissimi consumi, che accettano l’attivazione di un sistema transitorio di “interrompibilità energia elettrica” e “interrompibilità gas”. A fronte dell’eventualità di un’interruzione dell’approvvigionamento di energia elettrica e gas, l’azienda riceve dal Ministero un rimborso proporzionale al consumo.

L’esistenza di un piano siffatto, però, non vuol dire che le aziende e le famiglie, il prossimo autunno-inverno, siano al sicuro da guai ancora peggiori. Infatti, oltre al previsto ulteriore raddoppio degli importi delle bollette e al razionamento dell’energia, vi è comunque il rischio di possibili blackout elettrici improvvisi o imprevisti. Questo perché le reti di distribuzione sono complesse e non facili da gestire, sia per quanto riguarda l’interrompibilità (del gas) sia per quanto riguarda il distacco e il ripristino (dell’elettricità), in caso di squilibrio fra la potenza elettrica richiesta e quella disponibile in un dato momento.

Di recente, la premier francese Elisabeth Borne, intervistata dal canale tv TMC, ha avvertito che, se l’inverno sarà molto freddo, sarà necessario staccare la corrente a rotazione – per periodi di “non più di due ore” – alle abitazioni [19]. E, se ciò è quanto succederebbe in un Paese dotato di decine di centrali nucleari (dalle quali dipende per la produzione di circa il 67% della propria elettricità, mentre dal gas dipende appena per il 7%, da confrontarsi con il circa 40% dell’Italia), non è difficile immaginare per il nostro Paese uno scenario di blackout programmati del tutto simile o potenzialmente ben peggiore.

L’aumento impressionante del prezzo dell’elettricità in Italia negli ultimi mesi, all’interno di un arco di 3 anni (in alto) e degli ultimi 12 anni (in basso), a cui i due grafici si riferiscono. In figura sono riportati i prezzi medi mensili dell’indice Ipex della Borsa elettrica italiana Si noti come anche in questo caso, come per il gas, l’aumento sia stato di quasi 10 volte rispetto ai livelli pre-crisi. (fonte: elaborazione dell’Autore su dati del Gestore dei Mercati Energetici)

In Kosovo, uno dei paesi più poveri d’Europa, i blackout programmati sono già una realtà: la corrente si interrompe per 120 minuti (ovvero 2 ore) ogni 6 ore, risparmiando solo infrastrutture critiche come ospedali e alcune industrie [22]. Ciò potrebbe rivelarsi un preludio di quanto accadrà in seguito per le zone più ricche d’Europa. “Mantenere le luci accese quest’inverno sarà molto più impegnativo di quanto i governi europei ammettano”, ha dichiarato di recente un esperto. Chi è coinvolto nel settore sa che purtroppo ormai “è questione di quando, e non se, si verificherà un’escalation della crisi”.

“Il gestore della rete finlandese, in un raro esempio del tipo di trasparenza di cui c’è assolutamente bisogno, già ad agosto ha detto ai cittadini di prepararsi alle carenze quest’inverno. I governi europei hanno il dovere di chiarire con i loro elettori l’entità della crisi in arrivo. Ridurre al minimo la portata del problema o, peggio, fingere che non ci sia un problema, non manterrà la corrente in funzione questo inverno”, osserva Javier Blas, che scrive di energia e materie prime per Bloomberg.

Tuttavia, non è detto che in Italia si arrivi al razionamento ed ai blackout programmati. Questa potrebbe sembrare una buona notizia, ma non lo è, perché probabilmente significherebbe che siamo finiti nello scenario peggiore: quello per cui un grande numero di aziende, oltre a quelle più energivore, sono costrette a chiudere i battenti per sempre o, quanto meno, a fermare la produzione per alcuni mesi, con tutto quello che ciò comporta. Insomma, paradossalmente, il conseguente calo dei consumi di gas e di elettricità, insieme a quello delle famiglie costrette a consumare meno, potrebbe forse evitarci il lockdown. Non è fantasia: già a luglio, in Italia i consumi elettrici industriali sono crollati del 12% [42].

Nelle proiezioni macroeconomiche per l’economia italiana fornite a giugno dalla Banca d’Italia [14], le conseguenze per le attività economiche, nello scenario della sospensione della fornitura del gas dalla Russia a partire dai mesi estivi, sono esaminate nello “scenario avverso”. Poiché per l’Italia tale sospensione sarebbe solo parzialmente compensata ricorrendo ad altre fonti, nel documento si assumono inoltre le seguenti ipotesi: un impatto diretto di tale interruzione, in particolare sulle attività manifatturiere più energivore; un significativo aumento dei prezzi delle materie prime energetiche.

Ebbene, in queste ipotesi, per il PIL la Banca d’Italia prevede una crescita media praticamente nulla nel 2022, ed in calo di oltre 1 punto percentuale nel 2023. E probabilmente – come vedremo fra poco – queste stime sono perfino ottimistiche, poiché verosimilmente non tengono conto di tutta una serie di fattori, alcuni dei quali accennati nel presente articolo. È chiaro che più si riuscirà a limitare l’impiego di gas e più si riuscirà a contenere anche l’ascesa dei prezzi, ma nel frattempo le aziende rischiano di andare gambe all’aria una dopo l’altra, come in un domino; per cui, altro che -1% di PIL!

Infine – per completare il quadro – il presidente dell’ Anci (Associazione nazionale Comuni italiani), Decaro, e quello dell’Upi (Unione province italiane), De Pascale, hanno affermato in una dichiarazione congiunta che “è indispensabile che fra i provvedimenti urgenti del Governo sia compresa una misura di sostegno per i Comuni e le Province, in assenza della quale i bilanci degli enti locali sono destinati a saltare. È necessario uno stanziamento straordinario di almeno altri 350 milioni di euro per compensare l’impennata delle nostre spese energetiche, altrimenti i sindaci saranno costretti a tagli dolorosi dei servizi pubblici” [18].

I rischi socio-economici legati al possibile superamento di “soglie critiche”

La fornitura dell’energia nei 27 paesi dell’Unione Europea (escluso il Regno Unito) dipende essenzialmente da petrolio (33%, praticamente tutto importato), gas (24%, principalmente importato) e carbone (12%, principalmente importato) [8]. Altre fonti includono le rinnovabili (domestico), nucleare (essenzialmente domestico, poiché il combustibile stesso è una piccola parte del costo totale) ed elettricità importata. La Russia è per l’UE un importante fornitore di tutti e tre: petrolio, gas e carbone.

La discussione precedente ha chiarito che, a seconda di molti fattori – sia quelli che influenzano le decisioni russe sia quelli che influenzano la scelta e l’intensità delle sanzioni – vi è una sostanziale incertezza sulla futura evoluzione dei prezzi del gas, del petrolio e, di conseguenza, dei carburanti nell’Unione Europea. Il nostro Paese, però, anche a causa delle pessima gestione della pandemia da parte degli ultimi due Governi (di cui ho analizzato l’impatto sulle imprese in un mio precedente articolo [3]) non può permettersi ulteriori shock economici per aziende e famiglie, perché le prime rischierebbero l’estinzione.

Anzi, ora si rischia sul serio un’“estinzione di massa” come quelle verificatesi in passato sulla Terra, portando alla scomparsa di una frazione rilevante delle specie animali. Ma, nel caso dell’Italia, il danno non si fermerebbe alle estinzioni in sé di imprese e attività commerciali (ed alla perdita di occupazione associata), bensì si accompagnerebbe a maggiori rischi sistemici e ad una maggiore povertà. Infatti, i sussidi del Governo Conte alle imprese hanno comportato un enorme aumento del debito pubblico e, al tempo stesso, i prestiti garantiti dallo Stato hanno prodotto un forte aumento del debito privato.

Attualmente, come osservato da Antonio Patuelli, presidente dell’Associazione bancaria italiana [10], “è in corso un gravissimo terremoto finanziario, perché il prezzo del gas sta continuamente moltiplicandosi, il che rischia presto di creare una grave esplosione dei costi per le imprese, con il conseguente rischio di una spirale di crisi aziendali, quindi finanziarie e occupazionali”. Né più né meno di quanto avevo prospettato già nell’aprile 2021, a un livello di dettaglio molto più spinto, in un altro mio articolo sul “boom dei prezzi” e sulla “tempesta perfetta” per l’Italia [11], al quale rimando dunque il lettore interessato.

Oggi il rischio di fallimenti a catena di imprese e di istituti bancari è tutt’altro che irrealistico, e un ulteriore shockbancario e creditizio sarebbe per l’Italia insostenibile. Il successivo downgrade del rating dei Titoli di Stato italiani potrebbe completare l’opera, poiché sarebbe di fatto come il crollo di una diga. Del resto, già a ottobre 2020, il Governatore della Banca d’Italia Visco metteva in guardia gli Istituti di credito dalla nuova ondata di credi deteriorati [41]. Ed a novembre 2020 la BCE dichiarava: “Probabili fallimenti bancari dopo la pandemia”. Ora, con la crisi energetica, il rischio è rinnovato, ma è anche moltiplicato di entità.

Confronto tra (1) la rapida successione di fasi che ha portato nel 2007-08 dalla crisi dei mutui subprime alla Grande Recessione e (2) la possibile crisi catastrofica che potrebbe essere innescata da un grande numero di fallimenti fra imprese e soggetti economici privati sommato al downgrade del rating dei Titoli di stato italiani. In questo scenario, si rischierebbe il default di banche sistemiche e il “contagio” (principalmente via derivati) ad altri Paesi, per cui si potrebbe precipitare rapidamente in una situazione da incubo, potendosi attivare la “bomba nucleare” dei derivati a cui farebbero da “detonatore” i precedenti default bancari. (fonte: illustrazione dell’Autore, licenza Creative Commons)

Se il Governo non interviene, le aziende o scaricano i costi sui clienti o sospendono l’attività. Perciò Confcommercio ha chiesto al Governo di potenziare immediatamente il credito d’imposta anche per le imprese non energivore e non gasivore [25]. Un credito d’imposta del 15% per l’energia elettrica non è assolutamente adeguato agli extra-costi che le imprese stanno sostenendo ora. Occorre portarlo al 50%, ma presto, altrimenti si rischia d’innescare anche una spirale inflazionistica destinata a gelare i consumi. Il Governo, però, partorisce solo “pannicelli caldi”, e intanto qualcuno guadagna alle spalle di altri.

Infine, sebbene tutti gli italiani stiano sperimentando un aumento del costo della vita, l’energia rappresenta una quota maggiore dei budget di alcune famiglie rispetto ad altre, quindi lo shock energetico rischia di amplificare le disuguaglianze esistenti. Se a ciò si aggiunge l’aumento della criminalità e del degrado portato dalla mala gestio dell’immigrazione clandestina, è facile capire come il tessuto sociale italiano si avvicini sempre più pericolosamente verso livelli di lacerazione, o “punti di rottura”. E purtroppo nessuno sa dove si collochino esattamente le soglie critiche nei sistemi sociali ed economici.

Peraltro, pochi italiani sanno – perché nessuno glielo dice – che chi è in regola con le bollette elettriche deve oggi pure coprire alcuni buchi lasciati dai morosi: si tratta del cosiddetto “Cmor” o “corrispettivo morosità”. È questo, in sintesi, il contenuto di una delibera, la 50/2018, emanata dall’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente (Arera), che il 1° febbraio 2018 ha emanato un provvedimento che assegna ai consumatori – e non ai fornitori dell’energia – l’onere di rifondere i debiti per gli oneri generali di sistema accumulati dai morosi verso le aziende fornitrici a partire dal 1° gennaio 2016.

Gli oneri di sistema, dunque, devono sempre essere pagati dai fornitori di energia elettrica all’Authority che li ha decisi, anche sulle bollette non pagate per morosità o per altri motivi. Per ora, l’ Authority ha deciso di accollare a tutti i consumatori solo una parte degli oneri non pagati, pari a 200 milioni. E quindi, su bollette elettriche già cariche di oneri, da qualche anno si è aggiunto un nuovo prelievo a carico di chi paga regolarmente. Certo, in questi mesi gli oneri di sistema sono stati tagliati dalle bollette elettriche di famiglie e aziende con i decreti del Governo, ma questa misura è solo temporanea.

Già nel 2018, si stimava attorno al miliardo di euro l’insoluto totale delle bollette elettriche non pagate dai morosi [33]. Prima di allora, diverse aziende elettriche erano entrate in crisi, e qualcuna aveva addirittura dovuto chiudere i battenti, per questo il Governo intervenne introducendo il Cmor. D’altra parte, poiché la coperta evidentemente è corta, qualcuno dovrà pur pagare i crescenti insoluti dei clienti: se non i consumatori, le aziende fornitrici di elettricità (sempre più a rischio fallimento, come dimostravano già i numerosi default dello scorso anno in Cina, in Gran Bretagna e in altri paesi) o il Governo.

I leader europei dovrebbero dunque prendere atto del fatto che applicare sanzioni contro la Russia sul gas e sul petrolio è stata una scelta “improvvida”, per usare un gentilissimo eufemismo. L’Europa occidentale ha deciso di suicidarsi, in un senso che appare sempre meno metaforico e sempre più letterale. I nostri politici devono scegliere: o due anni di recessioni e probabili default a catena (forse pure di paesi) o addio sanzioni. E intanto l’Ungheria, membro dell’UE, si accorda con Gazprom [29] per avere 5,8 milioni di metri cubi al giorno in più (poco meno di un terzo di quanti ne riceveva l’Italia a fine agosto!).

Cosa potrebbe succedere e perché vedo il futuro dell’Italia assai “nero”

Credo che a questo punto risulti piuttosto evidente al lettore che, qualora si superassero determinate soglie critiche per il perseverare di scelte improvvide, e nell’incapacità di rimediare in tempi brevi agli errori fatti in precedenza, si potrebbe lacerare in modo irreparabile il tessuto economico e sociale del nostro Paese, innescando una spirale di effetti a catena difficile da arginare e con effetti potenzialmente sistemici. Peccato, però, che l’Italia sia too big to fail, non sia la piccola Grecia condannata da Draghi & Co.!

Le avvisaglie di ciò che nel giro di un anno potrebbe succedere nel nostro Paese in questa situazione sempre più potenzialmente esplosiva all’estero ci sono già. E non mi riferisco al movimento contro il caro-vita Don’t pay UK, nato nel Regno Unito e che spinge affinché le famiglie si rifiutino di pagare le bollette a partire da ottobre [27]. Infatti, il mancato pagamento comporterebbe seri rischi, tra cui l’accumulo di debiti e l’impatto sui punteggi di credito dei clienti; pertanto, un’iniziativa del genere “funzionerebbe” solo se vi aderisse un numero di persone elevato, ben più dei circa 100.000 del Regno Unito.

Lo spread BTP-Bund è in forte risalita, dopo un breve periodo di stabilizzazione su bassi livelli. Che valori raggiungerebbe se si verificassero gli scenari più pessimistici a seguito della crisi energetica o se le famiglie italiane smettessero in massa di pagare le bollette luce e gas per i costi insostenibili? Infine, è da considerarsi un caso che lo spread abbia toccato il minimo degli ultimi 5 anni con il Governo Conte e abbia iniziato un’inversione di tendenza (cioè una salita) da quel minimo proprio in coincidenza con l’insediamento del Governo Draghi?

Penso, piuttosto, alle dimostrazioni di massa e rivolte che ci sono in diversi paesi sudamericani, in Egitto e perfino in Olanda, nel silenzio dei giornali italiani. Ma, come spiegano Becchi & Zibordi [28], “l’esempio più eclatante dell’effetto distruttivo sulle vite umane delle politiche delle élite occidentali lo si è visto nello Sri Lanka, che oggi è nel caos. La ragione dichiarata è che la nazione è in bancarotta, soffrendo la peggiore crisi finanziaria degli ultimi decenni e milioni di persone stanno lottando per trovare cibo, medicine e carburante. La carenza di energia e l’inflazione sono stati i principali fattori alla base della crisi”.

Come raccontano gli autori del pezzo, “i manifestanti hanno fatto irruzione nelle residenze ufficiali del Primo Ministro e del Presidente, che per paura sono fuggiti”. I leader politici del Paese avevano seguito alla lettera le direttive delle élite “verdi” occidentali che chiedevano agricoltura biologica sostenibile, seguendo criteri ambientali, sociali e di governance rivolti a ridurre la CO2 (di cui sono pieni anche i piani dell’UE). Inoltre, là il lockdown dovuto al Covid-19 è stato imposto in modo drastico (vi ricorda qualcosa?), sempre perché i leader del Paese erano allineati con le direttive dell’OMS e degli Stati Uniti.

In pratica, nell’aprile 2021 in Sri Lanka sono stati vietati i fertilizzanti sintetici, usati dal 90% degli agricoltori locali, e così successivamente l’85% di questi ha subito perdite di raccolto, con un crollo nella produzione di riso e un aumento dei prezzi del 50% in sei mesi. Il prezzo di carote e pomodori è aumentato di cinque volte. Alla fine dello scorso agosto, il presidente Rajapaksa aveva dichiarato lo stato di emergenza e, dopo di allora, il caos e la violenza sono aumentati fino a quando i leader sono tutti dovuti scappare e nelle loro ville campeggiano ora i manifestanti. La miccia di tutto? Una scelta politica improvvida.

Come, del resto, improvvide sono le sanzioni attuate nei confronti della Russia dai paesi europei, che non hanno valutato il rapporto rischi-benefici delle singole misure che stavano andando ad applicare, esattamente come – non molti mesi prima – non avevano neppure lontanamente valutato il rapporto rischi-benefici (che oggi sappiamo essere certamente sfavorevole per le persone non anziane e prive di co-morbidità) dei vaccini anti-Covid, di fatto imposti ai cittadini europei ed in particolare a quelli italiani. Insomma, di questa Europa c’è davvero da avere paura quando si tratta di questioni vitali.

Peraltro, la Russia ha guadagnato moltissimo dalle sanzioni dell’UE sul gas e sul petrolio, dato che queste hanno fatto impennare i relativi prezzi di mercato, e di certo gli acquirenti asiatici che possano sostituire in buona parte quelli europei non mancano. Quindi, anche da un punto di vista strettamente logico, perseverare con queste sanzioni dimostra la totale mancanza di buon senso di chi prende queste decisioni. Del resto, la mancanza di buon senso – e un notevole livello di ignoranza – si nota anche nel dibattito della politica su questi temi, il che non fa certo ben sperare nella soluzione dei problemi impellenti.

L’Italia si distingue sempre nel panorama europeo. Ho ancora nella mente un articolo [30] in cui i ristoratori di Lucca esprimono la loro rabbia per il caro-bollette, ma non per l’aumento in sé – o meglio non solo per quello – ma soprattutto per il fatto che, a causa di vincoli della Soprintendenza, viene loro impedito di installare i pannelli fotovoltaici che permetterebbero di salvare le loro attività. Ma è veramente incredibile vedere come in tutti questi mesi il Governo e il Ministro competente in materia non abbiano trovato il modo di rimuovere tali ostacoli, favorendo concretamente la transizione alle rinnovabili.

Ancora una volta, in effetti, si è vista la cecità del Governo nell’affrontare un maxi-problema, già vista con la pandemia. Esattamente come in quel caso si è scelta una gestione una gestione “centralizzata” e in sostanza monotematica – somministrazione di vaccini ignorando praticamente del tutto l’esistenza di farmaci efficaci in fase di prevenzione e di cura, snobbando così le cure domiciliari – oggi con il caro-bollette Governo e Ministero non fanno informazione sulle possibili soluzioni di risparmio energetico, né spingono la popolazione ad adottarle, pensando che siano sufficienti le soluzioni “calate dall’alto”.

Già nel caso del Covid abbiamo visto che puntare solo sulle soluzioni calate dall’alto – vaccini e anticorpi monoclonali, questi ultimi soltanto per Massimo Galli ed i pochi fortunati che hanno potuto usufruirne – non solo non ha evitato un gran numero di morti per Covid e per effetti avversi, ma addirittura si è rivelato un boomerang, se si considera che gli effetti avversi dei vaccini potrebbero essere anche largamente sottostimati perché a lungo termine, se non addirittura trans-generazionali. Con l’energia si sta ripetendo pari pari lo stesso errore, invece di coinvolgere la popolazione per un’azione anche dal basso.

Eppure, basta leggere il mio precedente articolo sul tema [31] per avere già alcuni esempi delle tante cose che le persone potrebbero fare per risparmiare notevolmente sulla spesa energetica (ad es. su quella per il riscaldamento invernale, che ne costituisce la voce principale). Ma se le persone non le si informa, come potranno mai contribuire alla rapida soluzione del problema energetico, che non lascerà a famiglie e ad aziende il tempo per attendere molte delle soluzioni “calate dall’alto”? In tale mancanza di informazione, purtroppo, anche i media hanno un ruolo, poiché sono quasi del tutto latitanti.

I meccanismi di formazione dei prezzi e le soluzioni adottate in altri Paesi

La struttura del mercato del gas può oggi essere vista come costituita da una Russia monopolista di fronte a un gran numero di acquirenti dell’UE che possono acquistare gas da altre fonti, ma solo a un costo in forte aumento. Come detto, anche in assenza di sanzioni, la Russia potrebbe voler aumentare il suo prezzo e ridurre l’offerta. Ciò, però, non spiega perché gli italiani paghino ora delle bollette gas e luce salatissime, quando il gas venduto loro – o usato per produrre elettricità – è stato in buona parte acquistato dai big player con contratti a medio o lungo termine, cioè a prezzi ben più bassi di quelli attuali.

Il gas è utilizzato fondamentalmente nella generazione di elettricità (per circa 1/3), per industria e servizi (circa 1/3) e per famiglie (un po’ meno di 1/3). È molto sostituibile in alcuni dei suoi usi (l’elettricità generata dal gas può essere sostituita da elettricità generata da altre fonti), ma assai meno per alcuni altri (un sistema di riscaldamento a gas non può bruciare petrolio o carbone). In media, Il gas russo rappresenta l’8,4% della fornitura di energia primaria nell’UE, ma ci sono ampie variazioni tra gli Stati: il Portogallo non importa gas dalla Russia, mentre l’Italia nel 2021 ne importava circa il 40% del suo fabbisogno.

Rispetto alla media della UE, il mix energetico italiano nel periodo pre-crisi si contraddistingueva per una quota maggiore di energia prodotta con il gas naturale e un peso minore di quella prodotta con il carbone e altri combustibili fossili solidi, oltre che per l’assenza di energia nucleare. Con particolare riferimento alla generazione elettrica, dal gas naturale si ottiene fino al 50% dell’elettricità prodotta nel Paese, contro il 20% circa dell’UE [35]. Pertanto, il nostro Paese dipende fortemente dal prezzo del gas, ed è interessante capire il meccanismo attraverso il quale esso si ripercuote sulle maxi-bollette di gas e luce.

A Rotterdam, esiste un mercato (il TTF) in cui viene trattata solo una piccola percentuale del gas consumato in Europa: quello che arriva per nave liquefatto (ad es. dagli USA) e che in buona parte non è soggetto a contratti a lungo termine [17]. Questo è un mercato cosiddetto “spot”, cioè dove compri e vendi ogni giorno. È solo il prezzo al TTF che nell’ultimo anno è esploso, ma esso rappresenta una piccola parte del gas totale che ci arriva ed è consumato. Tuttavia, anche tutto il resto del gas (e di conseguenza) l’elettricità venduti all’ingrosso sono esplosi di prezzo seguendo il piccolo mercato olandese. Perché?

Semplice, poiché è in atto una speculazione bella e buona (specie da parte di grossisti e big player), come messo in evidenza sia dal sottoscritto in una lunga e dettagliata analisi [26, 31], sia da Becchi & Zibordi [17], i quali osservano come “il prezzo dell’80 o 90% del gas che ci arriva via gasdotto non sia in realtà variato” (in quanto acquistato anni prima con contratti a medio o lungo termine). Ma è difficile – oltre che del tutto insufficiente per mettere un freno a questo andazzo – ottenere un tetto europeo al prezzo del gas come ha chiesto l’Italia. Le resistenze della Germania e dell’Olanda, infatti, non sembrano superabili.

Nel caso dell’elettricità, a questo effetto speculativo si somma poi il meccanismo di formazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che è il cosiddetto criterio del prezzo marginale [4]: le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte. Questo meccanismo andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi; oltretutto, anche i costi di produzione delle centrali idro-elettriche sono ora molto più bassi di quello del gas.

Il perverso criterio del prezzo marginale nella formazione del prezzo giornaliero alla Borsa elettrica, che fa piacere soprattutto ai produttori di elettricità che posseggono grandi impianti a fonti rinnovabili ma molto meno al consumatore finale. (fonte: G.B. Zorzoli / Quale Energia [43])

L’Unione Europea – seppure con grande e colpevole ritardo – sta perciò lavorando al “disaccoppiamento” dei prezzi dell’energia elettrica da quelli del gas, come da tempo richiesto da Spagna, Portogallo (che usano pochissimo gas e molte rinnovabili per produrre energia elettrica), Francia (che usa soprattutto il nucleare), e ora anche dalla Germania [40]. Così si impedirebbe alla Russia di dettare all’Europa i prezzi dell’elettricità con l’interruzione parziale o totale delle forniture di gas, sebbene non ci si potesse certo ingenuamente aspettare che Putin reagisse in modo diverso alle durissime sanzioni inflitte al proprio Paese.

Oltretutto, per le aziende esiste un tema di competitività sia rispetto alle imprese europee che extra-europee, che godono di prezzi energetici inferiori ai nostri. Alcuni Paesi hanno introdotto importanti agevolazioni che noi invece non abbiamo. Ad es. la Bormioli ha uno stabilimento in Spagna che, grazie al tetto al prezzo del gas introdotto dal Governo spagnolo, si rifornisce a prezzi molto più bassi di quelli italiani [32]. L’unica soluzione di rapida attuazione sarebbe quella di introdurre un tetto al prezzo del gas. In assenza di interventi, sia a livello europeo che nazionale, avremo un autunno di forti tensioni sociali.

Sia la Spagna che il Portogallo traggono oggi i frutti di un tetto massimo del costo del gas che è stato di recente introdotto in entrambi i paesi [39]. Il prezzo massimo è stato concordato dalla Commissione Europea (ottenendo nel contempo l’Autorizzazione a disconnettere temporaneamente la Penisola iberica dal mercato elettrico dell’UE) e il prezzo del gas utilizzato per la produzione di energia elettrica è stato fissato a 40 euro per MWh. Tenendo conto degli aumenti in corso, che probabilmente saranno necessari, si prevede che il limite di prezzo raggiungerà una media di 50 € nei prossimi 10 mesi. Il governo spagnolo si è assicurato un accordo sul fatto che rimarrà in vigore fino al 31 maggio 2023.

Spagna e Portogallo occupano una posizione unica all’interno dell’UE, perché non dipendono dalle forniture russe per il loro gas naturale come altre nazioni. La loro posizione geografica significa che importano la maggior parte delle loro forniture di gas dall’Algeria e da altri paesi. Altri vantaggi unici di Spagna e Portogallo sono che la Spagna è il paese con la più grande capacità di stoccaggio e rigassificazione del gas in Europa (ha ben 6 rigassificatori) e che il Portogallo è un leader nel settore delle energie rinnovabili nel mercato europeo. Producono una notevole quantità di energia solare, idraulica ed eolica.

Entrambe le nazioni hanno forniture energetiche incredibilmente autosufficienti. A causa della loro posizione vantaggiosa, si sono definiti un’“isola dell’energia”. Sia il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez che il suo omologo portoghese António Costa hanno utilizzato proprio questo termine. I due paesi rappresentano dunque un esempio virtuoso da seguire (la Spagna, fra l’altro, lo è stato anche nella gestione della pandemia, dove ha avuto molti meno morti e contraccolpi economici non introducendo alcun Green Pass). Dunque, questi due paesi oggi risentono ben poco della crisi energetica.

Anche la Francia si è mossa con intelligenza per risolvere il problema. Ha chiesto alla principale società elettrica di limitare l’aumento dei prezzi al 4% per il 2022 e fino a soddisfare la domanda a quel prezzo, chiedendo così all’azienda di assorbire una buona parte del costo, determinando una forte diminuzione anticipata dei flussi di cassa e una grande diminuzione del valore di mercato [8]. Ciò comporta un’inefficienza, in quanto il prezzo è inferiore al costo marginale, ma consente un aumento ampio del surplus del consumatore, a costo di una maggiore diminuzione del surplus del produttore.

L’Italia, invece, ha scelto strade inadeguate sia rispetto al tipo sia alla portata del problema. Infatti, ha puntato, da una parte, su una sorta di “sussidi” (peraltro non automatici) per le fasce più povere – ma i sussidi non diminuiscono la domanda di energia, contribuendo così a mantenere alti i prezzi dell’energia [8] – e, dall’altra, sulla tassazione del 25% degli “extraprofitti” delle società del settore energetico, rivelatasi un vero e proprio “flop”, con solo 1 miliardo incassato a fronte dei circa 5 previsti. Peraltro, un’aliquota del 25% è ridicolmente bassa. E meno male che quello di Draghi era il Governo dei “migliori”!

Qualche suggerimento non richiesto ai nostri futuri governanti

I rischi per il nostro Paese credo che siano stati ben illustrati in questo mio articolo, e dipenderanno dalle soluzioni attuate o meno nel frattempo. Nel breve periodo, come sottolineato dalla Relazione annuale della Banca d’Italia [34], “la possibilità di ricorrere a fornitori alternativi è limitata ai paesi già collegati attraverso gasdotto (Algeria, Azerbaigian, Libia, Norvegia e Paesi Bassi) e alle importazioni via nave di gas naturale liquefatto, tenendo conto della capacità di rigassificazione degli impianti esistenti. Nel medio periodo, un contributo essenziale potrà derivare da maggiori investimenti in fonti rinnovabili”.

In realtà, gli investimenti e gli investitori nelle rinnovabili in Italia ci sarebbero, ma sono bloccati a livello autorizzativo. La soluzione per aumentare l’indipendenza energetica e ridurre la bolletta elettrica è l’installazione di 60 GW di nuovi impianti da fonti rinnovabili nei prossimi tre anni, come spiegato [36] dal presidente di Elettricità Futura, Agostino Re Rebaudengo, il quale chiede al Governo di “autorizzare 60 GW di nuovi impianti da rinnovabili, pari a solo un terzo delle domande di allaccio già presentate a Terna. Essi faranno risparmiare 15 miliardi di Smc di gas ogni anno, ovvero il 20% del gas importato!”.

Questi 60 GW di nuove installazioni – che, darebbero un contributo oltre 7 volte superiore rispetto a quanto il Governo stima di ottenere con l’aumento dell’estrazione di gas nazionale – potrebbero provenire per 12 GW da eolico, idroelettrico e bioenergie e per 48 GW dal fotovoltaico. Se poi per ipotesi i 48 GW di fotovoltaico fossero tutti realizzati su superficie agricola, si utilizzerebbe appena lo 0,3% della superficie totale, oppure l’1,3% della superficie agricola già oggi abbandonata. Peraltro, gli impianti agrovoltaici previsti non sottrarrebbero neanche un metro quadrato di terreno!

Ciò in attesa degli accumuli elettrici (2025) e dell’eolico off-shore per aumentare la stabilità della rete. I costi di produzione di energia attraverso le rinnovabili, fra l’altro, sono calati moltissimo nell’ultimo decennio [37]: “Tra il 2010 e il 2021 i costi di produzione dell’elettricità degli impianti fotovoltaici si sono ridotti dell’88 %, mentre nello stesso periodo i costi di produzione degli impianti eolici si sono ridotti del 68%. Dati gli elevati costi di produzione dell’energia legati all’aumento del prezzo del gas, in Europa nel 2022 la produzione di energia da fonti rinnovabili è stata nettamente meno costosa”.

Già oggi le aziende che hanno investito per aumentare l’autosufficienza energetica, puntando sull’autoproduzione di energia attraverso il solare, “stanno godendo di un guadagno di competitività clamoroso verso i concorrenti”. Chi menziona il nucleare di nuova generazione come soluzione del problema energetico probabilmente non sa che una centrale nucleare impiega in media circa 14 anni e mezzo per essere costruita [38], dalla fase di progettazione fino alla messa in funzione. Pertanto, occorre puntare forte sulle rinnovabili, rimuovendo soprattutto i vincoli burocratici e amministrativi.

Da gennaio a giugno, invece, in Italia – come spiega un esperto [42] – “sono stati autorizzati grandi impianti per appena 2 GW, mentre avrebbero dovuto essere come minimo 10 volte tanto. Nel nostro Paese c’è ancora un grave problema di iter amministrativo e autorizzazioni. Questo stallo dipende prevalentemente dall’incapacità dello Stato di conciliare lo sviluppo delle rinnovabili con le strutture amministrative regionali e con il Ministero dei beni culturali. La procedura ‘VIA’ nazionale è di fatto bloccata, e le Regioni approvano a macchia di leopardo in maniera umorale. Gli unici impianti eolici di grande taglia sono stati autorizzati direttamente per firma del presidente del Consiglio. Vogliamo affrontare la crisi cosi?”.

Non c’è più spazio per il gas nel nostro sistema energetico verso la neutralità climatica: il gas continuerà a ricoprire un ruolo di accompagnamento della transizione energetica ma dovrà ridursi del 30% entro il 2030, in tutte le tipologie di consumo (per il riscaldamento, per i processi industriali, etc.) ma soprattutto nella generazione elettrica, perché è lì che disponiamo già in abbondanza di una alternativa sicura, efficace ed economica: le fonti rinnovabili, appunto, cui si aggiungeranno in futuro le rinnovabili basate sulle LENR (Low Energy Nuclear Reaction), che sembrano uscite da un libro di fantascienza ma sono reali.

Inoltre, non è pensabile di risolvere il problema energetico italiano agendo su solo uno o due fattori. Come illustrai a suo tempo in un mio lungo articolo [4], esistono ben 10 fattori che già prima della pandemia rendevano le bollette delle aziende e delle famiglie italiane fra le più care dell’Unione Europea. Frutto in molti casi di “favori” alle lobby di turno, negli anni sono state introdotte anche delle riforme che hanno disincentivato il passaggio alle fonti rinnovabili degli utenti. Quindi, se si vuole realmente prendere di petto la questione, occorre studiarsi per bene quelle 10 cause e intervenire sul maggior numero possibile.

Come osservato da Matteo Leonardi, co-fondatore e direttore esecutivo di ECCO, il think tank indipendente per il clima, il Governo Draghi ha tolto gli oneri di sistema dalle bollette elettriche “indipendentemente dai livelli di consumo e anche per le seconde case. Le misure per le famiglie sono quindi generiche e non selettive, mentre quelle per le imprese non sono sufficienti né pensate per soluzioni strutturali, di efficienza e produzione rinnovabile, anche impiegando le risorse del PNRR. Inoltre, il disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’elettricità ha senso, ma solo se viene fatto non come misura di emergenza ma nell’ottica di una riformulazione complessiva del disegno del mercato elettrico” [42].

Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, mi è capitato in più occasioni di rendermi conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure adottate dal Governo, che non stanno evitando la morìa di imprese.

In più, abbiamo una carta stampata omologata (con poche lodevoli eccezioni), social network con la censura sempre pronta se non sei allineato, politiche sempre più coercitive e restrittive delle libertà, povertà in costante aumento, immigrazione incontrollata che aumenta la criminalità, il degrado delle città ed alimenta lo scontro sociale. Da arma di “distrazione di massa”, le fake news e le veline di regime veicolate dai media mainstream rischiano ora di diventare un’arma di “distruzione di massa” per il nostro Paese. Il tempo stringe, urge un’inversione di rotta, o arriverà presto la fine che tutti temiamo.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Guenette G.D. & Khadan J., “The energy shock could sap global growth for years”, Blog della World Bank, worldbank.org, 22 giugno 2022.

[2]  Office for National Statistics of the United Kingdom, “Energy prices and their effect on households”, ons.gov.uk, 1° febbraio 2022.

[3]  Menichella M., “Gli effetti della pandemia economica in Italia: perché la ‘variante imprese’ rischia di dilagare”, Fondazione David Hume, 10 febbraio 2022.

[4]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[5]  Raschi M., “Moltissime aziende ci hanno già chiesto di staccare il gas”, Il Resto del Carlino, 28 agosto 2022.

[6]  Redazione, “Confcommercio: a rischio 120mila imprese e 370mila posti”, askanews.it, 25 agosto 2022.

[7]  Benassy-Quere A., “Energy crisis: Europe by candlelight?”, tresor.economie.gouv.fr, 27 maggio 2022.

[8]  Blanchard O. & Pisani-Ferry J., “Fiscal support and monetary vigilance: Economic policy implications of the Russia-Ukraine war for the European Union”, piie.com, aprile 2022.

[9]  Battistini N. et al., “Energy prices and private consumption: what are the channels?”, European Central Bank, ecb.europa.eu, marzo 2022.

[10]  Giubilei F., “Il prezzo del gas va alle stelle. Verso un inverno con razionamento”, il giornale.it, 26 agosto 2022.

[11]  Menichella M., “Il ‘boom’ dei prezzi e l’impatto del lockdown: l’Italia rischia ora la ‘tempesta perfetta’”, Fondazione David Hume, 21 aprile 2021.

[12]  Germany Country Team dell’IMF, “Germany Faces Weaker Growth Amid Energy Concerns”, International Monetary Fund, imf.org, 21 luglio 2022.

[13]  Blake H. & Bulman T., “Surging energy prices are hitting everyone, but which households are more exposed?”, Ecoscope, oecdecoscope.blog, 10 maggio 2022.

[14]  Eurosystem Staff Economic Projections, “Macroeconomic Projections for the Italian Economy”, Banca d’Italia, 10 giugno 2022.

[15]  Crank J., “How Much Can You Save By Adjusting Your Thermostat?”, Direct Energy Blog, 10 aprile 2018.

[16]  Redazione, Feltrin “Senza misure contro caro-bollette, a ottobre black out filiera legno-arredo”, Italpress, 31 agosto 2022.

[17]  Becchi P. & Zibordi G., “Cosa c’è (davvero) dietro gli aumenti dell’elettricità”, nicolaporro.it, 26 luglio 2022.

[18]  Redazione ANSA, “Energia: Anci e Upi, altri 350 milioni o tagli ai servizi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[19]  Redazione, “Gazprom ferma il Nord Stream 1. Eni: ‘Consegne di gas ridotte’. La premier francese: ‘In inverno potremmo dover staccare la luce alle case’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[20]  Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, “Sbarchi e accoglienza dei migranti: tutti i dati – Cruscotto statistico del 1° settembre 2022”, interno.gov.it, 1° settembre 2022.

[21]  Cadeddu G., “Migranti, gli sbarchi in Italia dal 1997 al 2022: i dati del Viminale”, tg24sky.it, 12 maggio 2022.

[22]  Fotia F., “Escalation della crisi energetica, dai blackout in Kosovo all’allerta della Finlandia”, meteoweb.eu, 27 agosto 2022.

[23]  International Energy Agency, “How Europe can cut natural gas imports from Russia significantly within a year”, iea.org, 3 marzo 2022.

[24]  Giannoni A., “Industrie a rischio stop: ‘Energia, costi impazziti’”, il giornale.it, 1° settembre 2022.

[25]  Redazione, “Emergenza energia, ‘Occorre agire subito’”, confcommercio.it, 26 agosto 2022.

[26]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[27]  Allocca A., “’Non pagate più le bollette di gas ed elettricità’: in UK nasce il movimento contro il caro vita, londraitalia.com, 10 agosto 2022.

[28]  Becchi P. & Zibordi G., “Energia, inflazione, follie green: cosa imparare dalle rivolte in Sri Lanka”, nicolaporro.it, 11 luglio 2022.

[29]  Redazione ANSA, “Ungheria firma contratto con Gazprom, +5,8 mln metri cubi”, ansa.it, 31 agosto 2022.

[30]  “Caro bollette, la rabbia dei ristoratori di Lucca: ‘No ai pannelli solari perché l’area è protetta’”, tgcom24.mediaset.it, 30 agosto 2022.

[31]  Menichella M., “Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il ‘lockdown energetico’”, Fondazione David Hume, 9 maggio 2022.

[32]  Redazione, “Caro energia, il distretto del vetro e delle piastrelle verso il fermo: ‘Forni spenti in attesa che il governo intervenga. Da settembre i dipendenti saranno in cassa’”, ilfattoquotidiano.it, 31 agosto 2022.

[33]  Giliberto J., “Le bollette elettriche non pagate saranno (in parte) a carico degli altri utenti”, ilsole24ore.com, 14 febbraio 2018.

[34]  Redazione, “Gas russo, Bankitalia fa il punto: ‘Fino a oggi il 43% del gas in Italia importato da Mosca’”, globalist.it, 31 maggio 2022.

[35]  I4C – Italy for Climate, “L’Italia produce il 50% dell’elettricità da gas, la più alta in UE”, italyforclimate.org, 10 giugno 2022.

[36]  “Re Rebaudengo (Elettricità Futura) sul caro bollette: ‘Il Governo autorizzi 60 GW di nuovi impianti da FER entro giugno 2022’”, Solare B2B, 28 febbraio 2022.

[37]  “Caro energia, Ref ricerche: ‘Per l’area euro costo di almeno 500 miliardi. I settori energivori ridurranno la produzione a favore dei concorrenti extra Ue’”, ilfattoquotidiano.it, 29 agosto 2022.

[38]  Jacobson M.Z., “Le 7 ragioni per cui l’energia nucleare non è la risposta per risolvere il cambiamento climatico”, greenreport.it, 3 gennaio 2022.

[39]  Redazione, “Spanish Energy Price Cap Introduced Across Spain”, rightcasa.com, 15 luglio 2022.

[40]  De Re G.M., “Bruxelles. La Ue ora si prepara a ‘sganciare’ i prezzi dell’energia da quelli del gas”, avvenire.it, 30 agosto 2022.

[41]  Scorzoni M.T., “Visco: “Covid, shock senza precedenti: farà qualche vittima tra le banche”, First online, 22 ottobre 2020.

[42]  Redazione, “Caro energia, Leonardi (Ecco): ‘Per affrontarlo indispensabile ridurre i consumi. I rigassificatori? Scommessa con rischi a carico dei cittadini’”, ilfattoquotidiano, 3 settembre 2022.

[43]  Zorzoli G.B., “La formazione del prezzo dell’elettricità e le rinnovabili”, qualenergia.it, 18 febbraio 2021.

Le possibili soluzioni del problema del caro-bollette per evitare il “lockdown energetico”

9 Maggio 2022 - di Fondazione David Hume

Dossier HumeIn primo piano

La Fondazione Hume ha pubblicato, da oltre un anno a questa parte, vari articoli che mettevano in guardia su quanto oggi sta succedendo, e cioè una “tempesta perfetta” che rischia di causare una sorta di “estinzione di massa” di interi settori dell’imprenditoria italiana. La principale – sebbene non unica – causa di questa situazione è oggi rappresentata dall’aumento “senza senso” delle bollette di luce e gas. Nelle ultime settimane è finalmente diventato chiaro anche ai non addetti ai lavori che, in Italia, il “motore primo” del caro-bollette di questi mesi è stato il meccanismo di fissazione del prezzo del gas naturale. Infatti, considerato che più del 40% dell’elettricità nel nostro Paese viene prodotta con il gas naturale in centrali a ciclo combinato e che il gas russo è a rischio – per cui si rischia una vero e proprio “lockdown energetico” che metterebbe in ginocchio l’intera nazione – la questione del gas risulta essere cruciale. Si noti che il lockdown energetico (o “lockdown produttivo”) non si avrebbe solo in caso di futuri blackout programmati dovuti, ad esempio, al taglio delle forniture di gas di Putin, ma si ha già ora per quelle attività produttive i cui costi dell’energia sono tali che esse sono costrette a fermarsi per non lavorare in perdita. Purtroppo, ci è capitato in più occasioni di renderci conto che il dibattito pubblico su questi argomenti è viziato da una conoscenza della materia generalmente molto scarsa, il che rende difficile ai decisori politici di intervenire in maniera corretta, come abbiamo visto negli scorsi mesi con le misure palliative adottate dal Governo. Vorremmo quindi qui illustrare in modo assai chiaro i problemi e accennare alle loro possibili soluzioni. Va osservato che, attualmente, l’attenzione del Governo e dei media si è spostata molto sui possibili modi di sostituzione del gas russo, perdendo di vista invece il problema del caro-bollette, che per i prezzi esorbitanti raggiunti è già potenzialmente letale per la maggior delle imprese manifatturiere italiane. L’eventuale rinuncia al gas russo farebbe salire ancor di più i prezzi dell’energia, accelerando il loro fallimento.

Il mercato dell’energia in Italia: contratti a prezzo variabile vs. a prezzo fisso  

In sintesi, come illustrato in dettaglio in un precedente articolo [1], un grande importatore di gas come ENI (che importa quasi metà del gas usato in Italia) acquista circa 2/3 del suo gas a prezzi molto bassi grazie a contratti pluriennali – in alcuni casi perfino trentennali – e solo 1/3 avendo come riferimento il prezzo “spot” (cioè attuale, e oggi altissimo) al PSV (Punto di Scambio Virtuale), la borsa del gas italiana (come vedremo quasi uguale, per prezzi e loro andamento, a quella più grande d’Europa, il TTF olandese).

La sola ENI nel 2020 denunciava a bilancio, tra il 2021 ed i successivi 30 anni, contratti di acquisto di gas a lungo termine per oltre 103 miliardi di euro [7], corrispondenti a circa 472 miliardi di metri cubi di gas, pertanto già contrattualizzati da ENI per gli anni futuri e sostanzialmente tutti del tipo “Take or pay”. Ricordando che annualmente l’Italia importa 70-75 miliardi di metri cubi di gas all’anno, i soli contratti di medio-lungo termine coprirebbero dunque completamente 6-7 anni di fabbisogno nazionale.

I pagamenti futuri dell’ENI a fronte di obbligazioni contrattuali, come rendicontati sinteticamente nel Rapporto sul bilancio annuale 2020 della Società. Si noti come gli impegni di acquisto di gas naturale siano quasi esclusivamente di tipo “take or pay”. (fonte: ENI – Relazione finanziaria annuale 2020 [7])

Invece, i grossisti italiani medi e piccoli che vendono il gas ai clienti finali lo acquistano in gran parte sul PSV da ENI o altri big player, perciò a prezzi legati alle quotazioni sul PSV-TTF. Di conseguenza, molti clienti finali pagano il gas naturale – la componente “materia prima” nella bolletta gas – il prezzo del PSV + uno “spread”, cioè un differenziale che rappresenta il margine di guadagno del venditore.

La stessa cosa succede, peraltro, per le bollette elettriche, dove il prezzo di riferimento è il Prezzo Unico Nazionale (PUN), legato alla Borsa elettrica italiana; per cui il prezzo della componente energia delle bollette elettriche è di solito dato da PUN + spread, e anche in questo caso lo spread varia da venditore a venditore, ed è il parametro spesso confrontato dagli utenti nella scelta di quest’ultimo.

Si noti, però, che questo prezzo di vendita vale solo per i contratti cosiddetti “a prezzo variabile” sottoscritti dai clienti finali, che di solito sono appunto indicizzati ai prezzi dell’energia sulle suddette borse. Una cosa simile succede anche per i mutui a tasso variabile: chi li stipula dovrà infatti rimborsare un tasso fissato con il criterio: Euribor + spread, dove l’Euribor è la componente variabile del tasso.

E come per i mutui esistono, in alternativa, i mutui a tasso fisso, anche per luce e gas esistono pure i contratti “a prezzo fisso” (o bloccato, di solito per 24 mesi), che sono convenienti quando si prevede una crescita dei rispettivi prezzi; e sono del tutto svincolati dal prezzo al PSV-TTF, sia perché i prezzi sono fissi sia poiché ad es. ENI vende a quei sottoscrittori il gas acquistato a basso costo con contratti pluriennali.

Mercato libero e mercato a maggior tutela: differenze e convenienza

Si noti che, nel mondo dell’energia italiano, esiste da una ventina d’anni: (1) il cosiddetto “mercato libero”, in cui il cliente finale può scegliere fra contratti luce e gas a prezzo variabile e contratti a prezzo fisso, e (2) il “mercato a maggior tutela” (in cui si trovano la maggior parte degli italiani), nel quale i contratti sono solo a prezzo variabile, ma il prezzo è fissato dall’Authority per l’energia, Arera, trimestralmente.

Arera fissa per i successivi tre mesi le tariffe di gas e luce – che dovrebbero garantire sul mercato in maggior tutela gli utenti meno esperti (famiglie e imprese piccole per fatturato e numero di dipendenti) – sulla base delle previsioni degli aumenti dei prezzi per i tre mesi seguenti; a questi si aggiungono le variazioni avute nei tre mesi precedenti con le correzioni fra prezzi stimati e prezzi effettivi.

In pratica, mentre i prezzi dei contratti a prezzo variabile di luce e gas sono indicizzati ai prezzi spot (ovvero attuali) sulle rispettive borse nazionali, le tariffe di Arera hanno come riferimento, rispettivamente, i futures (cioè i prezzi attesi fra 3 mesi) sulla Borsa elettrica italiana per l’elettricità e, per il gas, i futures sul TTF di Rotterdam, la principale borsa del gas in Europa, usata perché più liquida di quella italiana (il PSV).

Tuttavia, come si può vedere dalla figura seguente, l’andamento nel tempo del prezzo sulla borsa del gas italiana (PSV) è del tutto analogo a quello sulla borsa olandese (TTF). Di conseguenza, legare il prezzo del gas all’una (come nelle vendite fra grossisti e nei contratti a prezzo variabile con i clienti finali) o all’altra (come nelle tariffe trimestrali fissate da Arera) in pratica non fa granché differenza.

Confronto fra l’andamento del prezzo “spot” (in pratica, attuale) del gas naturale sulla borsa italiana di riferimento (PSV) e su quella olandese (TTF). Si noti come i due prezzi viaggino strettamente “a braccetto”, e quindi indicizzare il prezzo del gas nei contratti all’uno o all’altro sia praticamente indifferente. (fonte: elaborazione degli autori su dati European Gas Spot Index e GME)

Già in un proprio rapporto del 2015 relativo agli anni 2012-13, la stessa Authority per l’energia aveva trovato (e dunque ammesso) che i clienti domestici, le partita Iva e le PMI passate al mercato libero pagavano luce e gas il 15-20% di più rispetto al mercato a maggior tutela. In effetti, le tariffe in regime di maggior tutela risultano di solito più basse di quelle sul mercato libero, ma non sempre.

Infatti, tutto dipende dall’andamento dei prezzi delle materie prime energetiche. Se i prezzi di queste ultime aumentano, un contratto a prezzo fisso (che è disponibile soltanto sul mercato libero) può consentire al sottoscrittore un risparmio rispetto a un utente in regime di maggior tutela. Il viceversa è vero quando i prezzi delle materie prime energetiche scendono, favorendo le bassissime tariffe di Arera.

Le ragioni del caro-gas in Italia: prezzi legati alle borse vs. prezzi “doganali”  

Negli ultimi vent’anni, i prezzi del mercato “spot” TTF (e quindi anche del PSV, che come visto lo replica fedelmente) erano sempre andati di pari passo con i prezzi del gas naturale cosiddetto “doganale” (cioè del gas importato dall’estero tramite metanodotti e metaniere) rilevati al passaggio delle dogane dell’Unione Europea ai fini delle accise da applicare: secondo Arera, la correlazione fra i tre prezzi (spot TTF, metano doganale, gas liquido doganale) era di ben 0,95, ovvero altissima.

Già intorno ad aprile dello scorso anno, il prezzo dei futures del gas naturale sul TTF aveva iniziato a divergere fortemente da quello del gas naturale “2711”, che è quello “destinato alla combustione per usi civili e industriali, nonché all’autotrazione” (e come tale sottoposto ad accisa); ma è alla fine del 2021 che il prezzo del gas sul mercato TTF si separa in maniera davvero eclatante da quello dei gas doganali.

Un grafico che presenta l’evoluzione del prezzo del gas naturale da gennaio 2020 a febbraio 2022. La curva azzurra rappresenta il prezzo sul TTF olandese, la curva rossa il prezzo doganale – cioè effettivamente pagato dagli importatori italiani di gas – mentre la curva verde è un’elaborazione fatta da Arera per fissare trimestralmente il prezzo del gas per i clienti finali in regime di Maggior Tutela. (fonte: Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, mostrato nella trasmissione “Spotlight” di RaiNews24 del 22/4/22)

Si noti come, nella figura qui sopra, la curva rossa relativa al prezzo del gas doganale – ovvero al suo prezzo reale di importazione – sia molto più regolare rispetto alla curva azzurra che mostra, invece, il prezzo del gas sui mercati finanziari e che, da aprile dello scorso anno, è letteralmente “impazzita”. L’area del grafico che sta fra la curva azzurra e quella rossa è dunque quella cosiddetta degli “extra-profitti”.

Quanto si è verificato, in fondo, non stupisce, perché da un lato (quello dei gas “doganali”), vi sono contratti relativi a consegne “fisiche” che coprono periodi anche lunghi di fornitura (pluriennali) ed esigenze reali di vendita od acquisto di gas; dall’altro (mercato spot TTF), si tratta invece di contratti a breve termine guidati da obiettivi di rendimento, in altre parole da pura speculazione finanziaria.

Inoltre, a differenza delle normali borse, il PSV e il TTF non sono borse regolamentate: si tratta infatti di mercati cosiddetti OTC (Over The Counter), in cui le transazioni si effettuano sulla base di contratti bilaterali. Dunque, non possono essere assimilati alla Borsa elettrica o alle borse azionarie, con tutte le conseguenze che ne derivano e che sono ora chiare a tutti (ad es. la possibilità di manipolazione, resa facile soprattutto in periodi di scarsi scambi borsistici in termini di volumi trattati).

In pratica, negli ultimi mesi l’impatto sulle bollette dei clienti finali è stato enorme, poiché a dicembre scorso il prezzo mensile del gas al TTF superava i 100 €/MWh (mentre quello giornaliero è arrivato addirittura a 180 €/MWh), un aumento di circa 10 volte rispetto al prezzo di giugno 2021, cioè di appena 6 mesi prima; e, soprattutto, mentre fino ad aprile 2021 il prezzo al TTF e quello doganale erano quasi uguali, a dicembre il prezzo del gas al TTF risultava quasi triplo rispetto a quello doganale.

Sebbene il prezzo della componente energia incida grosso modo per circa la metà sulle bollette dei clienti domestici, esso impatta in maniera ben più rilevante sulle bollette delle imprese medio-grandi e delle attività più energivore, con il risultato che questi enormi aumenti di prezzo si sono trasferiti in maniera pesante sul “totale a pagare” della loro bolletta, come ben sappiamo dalle cronache.

Un sistema da riformare subito insieme a quello della Borsa elettrica

Nelle scorse settimane, si è discusso molto sulle possibili ragioni di quest’anomalia senza precedenti. Qualcuno ha tirato in ballo un possibile “cartello” fra i principali player del gas europei, ma i principali investitori sul mercato TTF sono normalmente i più grandi trader di materie prime (Vitol, Trafigura, Glencore) e le grandi società finanziarie di Wall Street (Morgan Stanley, Goldman Sachs).

Pertanto, queste entità hanno una potenza economica e “di fuoco” verosimilmente assai maggiore per manipolare – deliberatamente o meno – il mercato, operando di fatto come cosiddette “mani forti”. Il seguente grafico, che mostra i “volumi” trattati sul TTF negli ultimi mesi, fa vedere che i volumi a un certo punto sono crollati, segno che tutti i “big” che volevano investire sul gas l’avevano ormai fatto.

L’andamento del prezzo del gas sul TTF olandese, con i relativi volumi di scambio (le barre verticali verdi rappresentano gli acquisti, mentre le rosse sono le vendite). Si noti come verso la fine di settembre i volumi in questione siano enormemente diminuiti (per tutto il periodo evidenziato dal riquadro marrone che abbiamo aggiunto), per cui il prezzo del gas (usato come riferimento per molti contratti dei clienti finali italiani) era facilmente alterato anche da scambi relativamente modesti.

Quando i volumi di scambio sono piccoli, bastano pochi acquisti per alterare (ad es. far crescere) in maniera significativa i prezzi su un dato mercato, per cui questo potrebbe spiegare l’accaduto senza ipotizzare necessariamente del dolo. Ma, al tempo stesso, ciò mostra che questo meccanismo di formazione del prezzo del gas per il cliente finale è del tutto fuori controllo e dunque va quanto prima cambiato.

ENI impiega il 12% del gas importato per l’autoconsumo (in pratica, per produrre energia elettrica), il 10% lo vende ai propri clienti finali, mentre il grosso – ovvero il restante 78% – lo vende ad altri grossisti italiani sul PSV, cioè a prezzi tipicamente molto più alti di quelli dei contratti pluriennali con cui lo acquista, realizzando così oggi un enorme “extra-gettito” (miliardi di euro in pochi mesi) non giustificato, ed i cui impatti sono evidenti negli utili atipici del 2021 [6].

Nella tabella in alto, sono mostrati gli impieghi di gas di ENI e dei grossisti italiani nel 2020. Si noti come gli operatori più grandi del mercato all’ingrosso vendano soprattutto ad altri operatori più piccoli (sul PSV ai relativi prezzi), mentre gli operatori piccolissimi vendono soprattutto ai clienti finali, come risulta chiaramente se si guarda la tabella in basso, relativa all’approvvigionamento di gas dei grossisti italiani nel 2020. Da questa seconda tabella si vede che ENI si approvvigiona sul PSV per circa il 32% del suo gas, mentre i grossisti grandi e medi per circa l’80%, per cui il loro approvvigionamento tramite importazioni dall’estero è sostanzialmente marginale e di fatto limitato a pochissimi grandi player, come ad es. Enel, Edison, etc. (fonte: ARERA, Relazione annuale – Stato dei servizi 2020)

Come si può scoprire dalle precedenti tabelle, ENI acquista circa 2/3 del gas naturale di cui si approvvigiona con dei contratti pluriennali (dunque a prezzi “bassi”) e 1/3 a prezzi “alti” (sul PSV-TTF). Viceversa, vende a prezzi “alti” (a clienti finali e altri grossisti) circa i 2/3 del totale di gas acquistato, per cui su almeno 1/3 del gas acquistato può lucrare degli extra-profitti enormi (dell’ordine di vari miliardi nel solo 2021).

Purtroppo, distorsioni non meno gravi si verificano sulla Borsa elettrica, dove da circa 20 anni le offerte di energia elettrica vengono accettate in ordine di prezzo crescente, fino a quando la loro somma in termini di kWh arriva a soddisfare la domanda, dopodiché il prezzo del kWh dell’ultimo offerente accettato (quindi quello più alto) viene attribuito a tutte le offerte: è il cosiddetto criterio del marginal price [3].

In pratica, il Prezzo Unico Nazionale (PUN) rilevato sulla Borsa elettrica è il risultato di aste che coprono la richiesta di energia prevista, ora per ora, con l’elettricità offerta da vari operatori (Enel Energia, A2A, Acea, Sorgenia, etc.). Nelle aste si accetta, cioè si “dispaccia”, prima l’offerta più economica e poi, via via, i “pacchetti” più cari, fino a coprire tutto il fabbisogno giornaliero.

Dunque sulla Borsa elettrica – dove nasce il già citato PUN, ovvero il prezzo di circa i 2/3 dell’elettricità venduta in Italia – il prezzo a MWh dipende dalla fonte più cara selezionata (anziché da una media pesata sulle varie fonti selezionate), per cui i produttori di energie rinnovabili (e pulite), già premiati con incentivi appositi del Governo, realizzano un “extra-gettito” anche in questo caso non giustificato.

Perché occorre cambiare subito i meccanismi attuali di formazione del prezzo

Per ogni metro cubo di gas naturale scambiato fisicamente nel mondo reale, oggi sui mercati finanziari ne vengono scambiati almeno 10, attraverso successivi passaggi tra compagnie produttrici-importatrici (o grandissimi importatori internazionali) e grossisti grandi e medi e dettaglianti.

Così le decisioni prese dai grandi investitori influenzano ogni giorno il prezzo del gas – sia per i clienti finali con contratto in regime di Maggior Tutela (in virtù dell’algoritmo usato da Arera per la fissazione della componente Gas naturale) sia per i clienti finali con contratti sul mercato libero del tipo a prezzo variabile – da anni non è più legato a quello dei contratti pluriennali con i Paesi fornitori da cui originano i gasdotti che arrivano in Italia.

La serie storica dimostra che il prezzo del gas “finanziario” è sempre stato prossimo al valore del gas doganale, cioè al valore realmente pagato per il gas. Ma, come abbiamo visto in precedenza, un anno fa è cambiato tutto: il prezzo sul mercato TTF legato alla speculazione finanziaria si è distaccato sempre più dal prezzo doganale – ovvero da quello reale – “impazzendo” e ripercuotendosi sulle nostre bollette [2].

I prezzi mensili del gas naturale in Europa sul mercato “spot” TTF confrontati con i prezzi dei gas “doganali” (importati con metanodotti e metaniere) rilevati al passaggio delle dogane dell’Unione Europea. Qui il picco del gas naturale al TTF è più basso rispetto ai picchi giornalieri perché si tratta di una media mensile, ma è pur sempre un aumento di circa 10 volte rispetto al prezzo di giugno 2020. (figura tratta dall’analisi di Bidoia L., “Le speculazioni che hanno stravolto il mercato del gas europeo”, pricepedia.it, 31 dicembre 2022)

Inoltre, il meccanismo attuale che lega il prezzo del gas – per i clienti finali con contratti in regime di Maggior Tutela (ma di fatto anche per quelli sul mercato libero con contratti a prezzo variabile) – al prezzo sul TTF olandese ci espone a una doppia dipendenza dall’estero: la prima per la materia prima (poiché l’Italia importa attualmente il 97% del gas che utilizza) e la seconda per il prezzo del gas, giacché i prezzi su tale borsa salgono, appunto, per la speculazione degli investitori (in prevalenza stranieri).

Se non si interviene subito cambiando i meccanismi di fissazione del prezzo di gas ed elettricità per i clienti finali, si rischia in tempi brevi una sorta di “estinzione di massa” delle imprese italiane: in particolare di quelle manifatturiere e di tutte le attività più energivore, che non sono necessariamente attività produttive (si pensi ad es. alle lavanderie, ai supermercati con i tanti frigoriferi, etc.).

Infatti, se il costo dell’energia sale al punto da rimanere per un prolungato periodo di tempo al di sopra di una determinata soglia critica (che varia da settore merceologico a settore merceologico e da azienda ad azienda), non ci sono accantonamenti o “spalle forti” che tengano: in molti casi, potrebbero essere sufficienti soli 2-3 mesi oltre soglia per mettere l’attività fuori gioco e portarla al fallimento.

Ciò è ancor più vero per il settore manifatturiero, nel quale il costo dell’energia usata per le lavorazioni è solo una delle 5 componenti del prezzo finale di un prodotto, insieme al costo delle materie prime, al costo dei trasporti per la consegna dei prodotti, al costo della manodopera ed al margine di guadagno. Poiché anche i costi di materie prime e carburanti sono in crescita, il margine di guadagno presto si azzera.

Usando quindi un’efficace metafora, è un po’ come se una città subisse un’inondazione al punto che il livello dell’acqua sommerge sempre più i vari negozi non per 1-2 giorni, bensì per mesi. È evidente che – chi prima e chi dopo – questi negozi a un certo punto chiuderebbero. Le misure prese fin qui dal Governo sono utili quanto delle dighe di cartone contro l’acqua, o come il voler tirar via l’acqua a mano con dei secchi.

Il fatto che le prime a fallire siano le imprese più energivore – di fatto, una sorta di “specie sentinella” che avvisano dell’inizio dell’estinzione di massa – fa sì che il processo sia graduale abbastanza da rischiare di sottovalutarne la gravità, secondo il famoso principio della rana bollita di Noam Chomsky. Un’eventuale rinuncia al gas russo, tuttavia, accelererebbe il processo in modo drammatico e irreversibile.

Qual è la mossa più importante che Draghi e Cingolani dovrebbero fare?

Attualmente ci troviamo in una situazione che negli scacchi si chiama “zugzwang”, cioè “il giocatore è obbligato a muovere sapendo che qualsiasi cosa faccia è costretto a subire lo scacco matto oppure una perdita di materiale, immediata o a breve termine”. Il fatto che tocchi al Governo muovere e che tutte le mosse a disposizione conducano a delle perdite non significa, però, che non vi sia una mossa migliore.

Infatti, come il lettore avrà capito, il problema del caro-bollette (presente e futuro) non si può risolvere – al fine di mitigarne i danni sul tessuto economico – se non si cambia con estrema rapidità i meccanismi di fissazione dei prezzi del gas naturale e dell’elettricità. Tutte le altre mosse portano allo scacco matto ed a perdite ingenti: in altre parole, sono fumo negli occhi, un palliativo che non risolve un bel niente.

Ad esempio l’idea fatta circolare, nelle scorse settimane, da parte del Governo, di porre un tetto europeo ai prezzi del gas – nei confronti del quale Germania e Olanda hanno detto “no” – sarebbe solo una sorta di “lasciapassare” per l’aumento definitivo dei prezzi. Infatti, i prezzi insostenibili di oggi sono 5 volte i prezzi di un anno fa, per cui “i buoi sono già scappati” e porre un tetto a un livello così elevato (od anche intermedio) è del tutto inutile: basti considerare ad es. che i prezzi dei contratti di approvvigionamento di lungo e lunghissimo termine sono assistiti da clausole revisionali.

Qual è dunque la mossa migliore che ha il Governo? Per quanto riguarda il gas, è quella di sostituire l’indicizzazione attualmente basata sulle (imprevedibili e opache) borse del gas con un meccanismo del tutto diverso, legato ai “prezzi doganali” (ovvero reali), cioè a quelli dei contratti pluriennali stipulati dagli importatori italiani (metanodotti) e alle consegne fisiche di gas naturale liquido (GNL).

Il ministro Cingolani ha più volte sottolineato pubblicamente come il fatto che i prezzi dei contratti pluriennali – frutto di accordi bilaterali fra aziende – siano secretati costituisca un ostacolo insormontabile all’attuazione di un meccanismo basato su tali prezzi. Ma in realtà non è così, come ha di recente spiegato Marcello Minenna, direttore generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.

Infatti, nella trasmissione “Spotlight” di RaiNews24 del 22 aprile, dal titolo “La stangata”, il giornalista Luca Gaballo ha realizzato uno scoop, perché l’intervistato Minenna ha rivelato come sia oggi possibile passare a un meccanismo di formazione del prezzo del gas basato sui prezzi reali dei flussi fisici di questa materia prima, e non più su quelli di piattaforme finanziarie non regolamentate e per nulla trasparenti.

Marcello Minenna mentre spiega a Luca Gaballo il possibile intervento per ridurre il caro-bollette.

Come osserva Minenna, «nel momento in cui ci sono grandi flussi di liquidità disponibili sui mercati finanziari – e questo è l’effetto dei vari interventi di stabilizzazione dell’economia che si sono svolti per via delle crisi finanziarie globali e anche della pandemia – è chiaro che i mercati finanziari rischiano di incorporare molta più volatilità del mercato reale. Occorre dunque prendere atto di tale situazione».

«Si dovrebbe riorientare il mercato reale verso gli approvvigionamenti reali» è la semplice soluzione che Minenna propone. Semplice perché potrebbe essere implementata proprio grazie all’Agenzia che dirige, e che effettua la registrazione puntuale e verificata degli scambi di gas che avvengono nel mondo fisico. Grazie ai computer e alla digitalizzazione, quindi, oggi per la prima volta questo si può fare.

Implementazione pratica della soluzione di Minenna e chi ne beneficia

Come spiega ancora Minenna [4]: «in passato, anche per limiti dovuti ai sistemi informatici – parliamo di milioni di dichiarazioni doganali – c’erano dei tempi di rilevazione e di elaborazione, correzione del dato tali per cui il dato delle importazioni di gas del 1° di marzo era disponibile, sotto forma di dato medio certificato, magari verso metà aprile. Oggi, con la transizione digitale, questi tempi si sono molto ridotti».

Pertanto, conclude Minenna, «questi dati di approvvigionamento possono essere un punto di riferimento”, ad es. per la formazione del prezzo di vendita del gas naturale ai clienti finali, e in particolare per i contratti indicizzati. A questo punto occorrerebbe, in uno dei prossimi decreti sul caro-bollette, un emendamento che introduca l’ancoraggio del prezzo del gas fissato da Arera al mercato reale, non più al TTF.

Svincolare il prezzo del gas in bolletta dall’indice TTF è anche quanto chiesto dai senatori del Movimento 5 Stelle in una mozione a prima firma Pesco, depositata in Senato il 17 marzo [5]. «In questo momento”, sostengono giustamente i senatori nella mozione, “l’ancoraggio al TTF è l’elemento che più di tutti sta determinando l’aumento delle bollette del gas naturale per gli utenti in regime di maggior tutela».

La cosa interessante, sottolineata da Luca Gaballo, è che per realizzare questo ancoraggio con il metodo suggerito da Minenna «non serve conoscere i dettagli segreti degli accordi commerciali stipulati da ENI o da altri importatori: basta la media delle fatture pagate su cui l’Agenzia delle Dogane calcola l’accisa”. E ricorda che “non è solo una questione di equità: è in ballo la sicurezza energetica del nostro Paese».

Dunque, problema risolto? No, perché i clienti finali in regime di maggior tutela che usufruiscono delle tariffe fissate da Arera sono soltanto la maggior parte delle famiglie italiane e una parte delle imprese con un numero di dipendenti inferiori a 50 e un fatturato annuo inferiore a 10 milioni di euro. E comunque entrambi questi soggetti dovranno passare anch’essi al mercato libero entro il 31 dicembre 2023.

Detto in altre parole, rimangono fuori da questa possibile riforma i clienti del mercato libero che hanno contratti a prezzo variabile sostanzialmente indicizzati al PSV + uno spread, che comprendono – molto verosimilmente – la maggior parte delle piccole, medie e grandi imprese italiane. Nessuna riforma, infatti, è prevista per questo tipo di clienti, che sono proprio quelli più “a rischio estinzione”.

Pare quindi evidente che questo del Parlamento sia l’ennesimo intervento palliativo, che non risolve il problema alla radice e che mostra come i politici ed i legislatori non abbiano capito a fondo né il problema né l’enorme posta in palio. Per comprendere perché oggi siamo in questa situazione, giova probabilmente ripercorrere quello che è successo negli ultimi decenni nel mercato dell’energia.

Un quadro riassuntivo della situazione illustrata nel testo. Come si vede, le proposte di riforma proposte finora si riferiscono solo al meccanismo di fissazione del prezzo del gas nel mercato di maggior tutela, che però non impatta sulle medie e grandi imprese (nonché sulle piccole con più di 50 dipendenti e 10 milioni di fatturato), giacchè tutte queste sono state costrette a passare al mercato libero entro il 31 dicembre 2020. 

Perché occorre ritornare a importare il gas con contratti pluriennali

Prima della liberalizzazione del mercato dell’energia, in Italia vi era un monopolio, con due fornitori pubblici di luce (Enel) e gas (ENI). Quest’ultimo acquistava il gas importato dall’estero con contratti pluriennali. Nel 1999, con il Decreto Bersani che ha liberalizzato il mercato dell’energia, si è voluto smantellare tale monopolio e favorire la nascita della concorrenza, con l’obiettivo di avere prezzi più bassi.

Sono così nate la Borsa elettrica italiana (istituita nel 2004, un anno dopo la nascita del TTF a Rotterdam) e la Borsa del gas (istituita nel 2007 ma partita con il PSV nel 2010), mentre i fornitori di energia ed i grossisti si sono via via moltiplicati di numero, e oggi superano abbondantemente i 200 in entrambi i tipi di fornitura (luce e gas). Ma possiamo dire che ciò ha comportato un risparmio per l’utente finale?

Evidentemente in generale no, dato che sostanzialmente ciò che è successo è che si è passati sempre più dall’acquisto del gas attraverso contratti pluriennali all’acquisto tramite le neonate borse, dove i prezzi ora (da un anno a questa parte) non riflettono più i prezzi doganali (e dunque quelli dei contratti pluriennali), bensì sono molto più alti. Dunque, è necessario porre con urgenza rimedio a questa situazione.

Il modo più logico è, semplicemente, quello di tornare il più possibile indietro, allo status quo ante, per quanto sia ovviamente irrealistico pensare di rimettere il genio nella lampada, ovvero ritornare a un monopolio statale. Il punto chiave è che bisogna tornare a dei prezzi non solo agganciati ai prezzi di importazione reali, ma soprattutto tornare a importare il gas con contratti pluriennali.

Per la verità, ENI (che acquista circa il 47% del gas importato dall’Italia) si approvvigiona già per circa il 60% con importazioni a lungo termine (a basso prezzo), ma gli altri grossisti operanti sul mercato italiano si approvvigionano di gas in buona parte sul PSV (ai relativi prezzi). Quindi non c’è più un ampio uso dei contratti pluriennali, che oggi sono alla portata solo di pochissimi grandi player nostrani.

Il Governo dovrebbe pertanto incentivare l’acquisto del gas con contratti “Take or Pay”, alla stregua di quanto fa da sempre ENI (che è controllata al 30% dallo Stato). L’espressione “take or pay” indica semplicemente una clausola applicata ai contratti di fornitura di lungo periodo, la quale implica un impegno da parte della compagnia acquirente a prelevare un certo quantitativo di gas naturale in un certo lasso di tempo. Se l’acquirente non ritira la quantità di gas concordata, con il Take or Pay la paga ugualmente.

Per poter fare questo, però, vanno parallelamente semplificate le procedure e gli obblighi da parte degli importatori, che molto rischiano nelle transazioni fisiche di import ed export. Per questa ragione, già nel 2012 l’ENI considerava questo tipo di accordi di medio-lungo periodo (con i produttori di gas che assicurano gran parte delle forniture al nostro Paese) troppo onerosi e acquistava parte del suo gas sul PSV (cosa che le consente anche di diminuire i propri rischi e di giustificare la vendita del suo gas a prezzi legati al PSV).

Ma, siccome questi contratti sono strategici per la sicurezza energetica nazionale, ENI pretendeva che a farsene carico fossero lo Stato e i cittadini, attraverso le bollette. L’Authority per l’energia rimandava la questione all’allora Governo Monti, che nel maxi-decreto sulle liberalizzazioni del gennaio 2012 ha stabilito (nell’art. 16) che il prezzo del gas per il mercato a Maggior Tutela debba essere calcolato dall’Authority tenendo conto (pro quota) anche dei mercati spot (cioè giornalieri) del gas e non solo dei contratti pluriennali Take or Pay (agganciati al prezzo del petrolio), come invece accaduto fino ad allora [8].

Ciò all’epoca sembrava sensato, perché in quel periodo il prezzo del gas importato dalla Russia in Italia con contratti di approvvigionamento a lungo termine era di 34 centesimi, mentre quello “spot” in Olanda (sul TTF, il mercato di riferimento) era di soli 21 centesimi [9]. Ma all’epoca era così solo perché c’era la crisi (non a caso, qualcosa di simile – cioè un prezzo di borsa più basso di quello dei contratti pluriennali – si è ripetuto durante la pandemia, quando i prezzi alla borsa del gas sono crollati): per esempio, nel 2004 il prezzo in Italia era di 30 centesimi e quello spot sul TTF era di 70, cioè il prezzo di borsa era più del doppio».

In realtà Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, segnalò subito che il nuovo sistema introdotto dal Governo Monti non avrebbe fatto calare i prezzi nelle bollette [9]: «Il nuovo sistema farà pesare il mercato spot ad es. al 10% e questo in teoria farà calare il prezzo della materia prima, diciamo, da 34 a 32 centesimi. Ma come fa una compagnia a essere obbligata per decreto a vendere a 32 se i contratti con il fornitore sono a 34? Un conto sarebbe dire alle compagnie di fare dei contratti che impongano un X per cento di “spot”, ma mettere solo un parametro di prezzo a posteriori che senso ha?».

Si noti che, dal 2013, il prezzo del gas (inteso come la componente energia in bolletta) per i clienti finali con contratti sul mercato di Maggior Tutela è stato agganciato da Arera interamente al prezzo dei future sul TTF [10], quindi slegandolo del tutto dal prezzo dei contratti pluriennali e ponendo le basi per il disastro attuale a cui ora bisogna cercare – il più rapidamente possibile – di porre rimedio.

E oggi anche le offerte PLACET (cioè “a Prezzo Libero A Condizioni Equiparate di Tutela”) per i clienti finali, che tutti i fornitori sul mercato libero sono (da alcuni anni) obbligati a inserire fra i contratti che il cliente può scegliere, “prevedono un prezzo indicizzato al TTF determinato in ogni trimestre come media aritmetica delle quotazioni forward trimestrali OTC relative al trimestre in questione, presso l’hub TTF, rilevate da ICIS-Heren con riferimento al secondo mese solare antecedente il medesimo trimestre” [11].

Gli altri interventi che occorrerebbe attuare con urgenza sul versante del gas

Fondamentale, per poter abbassare le bollette dei clienti finali italiani rispetto al costo del gas, è anche comprendere che l’Italia non dovrebbe avere solo un grande importatore (ENI), ma occorrerebbe dividere il mercato dell’importazione su decine di operatori, realizzando una vera concorrenza sul fronte degli accordi bilaterali pluriennali (con prezzi a basso costo) e svincolandosi sempre più dalle borse (PSV, TTF). Il tutto tenuto conto di quanto segue.

Di fatto, per far si che si ritorni all’uso generalizzato di contratti pluriennali (che hanno tipicamente prezzi indicizzati al prezzo del petrolio greggio), sarebbe innanzitutto necessario: (1) fissare delle quote massime di importazione di gas per i grandi player non produttori di gas (escluse, quindi, le grandi compagnie del gas che godono di contratti pluriennali solo in virtù dei loro progetti di investimento in ricerca, pompaggio e trasporto del gas), affinché anche altri grossisti possano fare tali contratti; (2) spingere i player italiani (ad esempio, tramite una premialità fiscale) ad aumentare la quota di gas importato con contratti a medio e lungo termine.

Inoltre, poiché in regime di concorrenza niente garantisce che i prezzi di vendita ai clienti finali sarebbero agganciati ai prezzi dei contratti pluriennali – se non forse per i contratti a prezzo fisso – occorrerebbe (3) legare i prezzi dei contratti a prezzo variabile a quelli dei contratti pluriennali, verosimilmente con un meccanismo tipo quello illustrato da Minenna, ma imposto anche al mercato libero.

Ovviamente, sul mercato libero i singoli operatori / grossisti potrebbero poi aggiungere, per i contratti a prezzo variabile, un proprio spread (come avviene già oggi). Quella che cambierebbe sarebbe quindi solo la componente indicizzata del prezzo, che oggi è legata a una borsa e che in un prossimo futuro dovrebbe essere invece legata sostanzialmente ai prezzi di importazione reali della materia prima.

Non dovrebbe sfuggire, quindi, che la soluzione del problema caro-bollette del gas vada cercata in una real politik che tuteli per davvero imprese e famiglie. Non pensiamo proprio che, in questo “nuovo mondo” in cui siamo entrati, ci potrebbe essere spazio per la pura operatività di trading da parte della finanza speculativa. Ciò in quanto potrebbe presto mancare persino la capacità fisica di prodotto, specie nel caso che esca di scena la Russia. In tal caso la pressione sui prezzi salirebbe alle stelle.

In conclusione, solo intervenendo sul meccanismo di fissazione del prezzo di tutti i clienti finali con contratti oggi indicizzati al PSV o al TTF – che nel caso delle imprese sono ormai per la quasi totalità sottoscritti sul mercato libero – ci si può svincolare dai prezzi non reali delle borse del gas. Basti pensare che, già all’indomani dell’apertura della borsa del gas, il costo della materia prima quasi raddoppiò.

Dato però che, realisticamente, è improbabile che un Governo come quello italiano – già dimostratosi inadeguato rispetto ad altri paesi (come ad es. la Spagna e il Regno Unito) nel gestire la pandemia sulla base delle evidenze fornite dalla letteratura scientifica – possa cambiare in poco tempo i meccanismi di fissazione del prezzo del gas nelle bollette, ben venga nel frattempo la tassazione degli extraprofitti realizzati dalle compagnie energetiche, purché non sia fatta certamente alle aliquote attuali (10%) e nemmeno a quella del 25% di cui oggi si vocifera sui media [12], bensì almeno dell’80%, con successiva immediata ridistribuzione fra tutti i clienti finali più colpiti di questi extraprofitti lucrati.

Sulle bollette elettriche si somma un secondo effetto che amplifica il primo

Naturalmente, occorrerebbe intervenire anche sul versante “luce”, cambiando l’attuale meccanismo di fissazione del prezzo sulla Borsa elettrica, che andava bene trent’anni fa, quando le rinnovabili avevano una quota marginale, ma certamente non più oggi. A causa del criterio oggi usato – quello del prezzo marginale illustrato in precedenza – i produttori di energie rinnovabili fanno extra-profitti à gogo.

I prezzi medi mensili dell’indice Ipex (Italian Power Exchange), cioè della Borsa elettrica italiana. Anche il prezzo dell’elettricità è letteralmente “esploso” negli ultimi mesi, essendo salito di 14 volte dai valori di maggio 2020 (21,8 €/MWh). Ciò come inevitabile conseguenza dell’anomala impennata dei prezzi spot TTF del gas naturale, perché circa il 40% dell’elettricità utilizzata in Italia è prodotta con il gas naturale. L’aumento del prezzo del gas è amplificato dal meccanismo di fissazione del prezzo sulla Borsa elettrica, anacronistico ed eticamente ingiusto, che consente ai produttori di energie rinnovabili extra-profitti esagerati che si ripercuotono sulle tasche dei clienti finali. (fonte: elaborazione degli Autori su dati GME)

Si ha così l’evidente assurdo che, perfino se avessimo – in un dato momento – il 99,9% dell’elettricità venduta sulla Borsa elettrica prodotta con fonti rinnovabili (quindi a costo quasi zero), l’“ultimo kWh” prodotto con il gas la farebbe costare tutta come se fosse prodotta con il gas. Una vera presa in giro per gli Italiani che oggi, in una situazione di costi delle bollette alle stelle, non è più tollerabile.

La cosa interessante di cui nessuno sembra essersi reso conto è che il criterio del prezzo marginale attualmente utilizzato per fissare il prezzo del kWh sulla Borsa elettrica amplifica fortemente il caro-bolletta elettrico, che dunque è la somma di due componenti separate: (1) quella dovuta all’anomala impennata dei prezzi sulle borse del gas (PSV e TTF); (2) quella dovuta, appunto, al criterio del prezzo marginale.

Se si osserva la precedente figura relativa al prezzo medio mensile dell’elettricità sulla Borsa elettrica italiana, si vede che esso è aumentato di circa 14 volte da maggio 2020 a marzo 2022, mentre nello stesso periodo di tempo il prezzo medio mensile del gas è aumentato di 6,8 volte (passando dai 19,8 €/MWh di gennaio 2020 ai 135,5 €/MWh di marzo di quest’anno), ovvero quasi esattamente della metà.

Poiché il gas incide per circa il 40% sul mix energetico nazionale per la produzione di energia elettrica, l’aumento atteso delle bollette elettriche in assenza del criterio del prezzo marginale (sostituito da una semplice media pesata come chiediamo) sarebbe stato assai inferiore: verosimilmente, di 3 o 4 volte (anziché di 14 volte), dato che le rinnovabili non sono legate all’acquisto di materie prime energetiche.

Ciò permette di stimare quanto i due diversi contributi hanno inciso sul caro-bolletta elettrica italiano. Infatti, se ipotizziamo che in assenza del criterio del prezzo marginale l’aumento delle componente materia prima nelle bollette elettriche sarebbe stato di 4 volte, questo vuol dire che l’aumento del prezzo del gas è responsabile solo del 28% dell’aumento totale della componente elettricità delle bollette.

Pertanto, il grosso dell’aumento del costo di un kWh elettrico per i clienti finali – in pratica, circa il 72% di esso – è dovuto al criterio del prezzo marginale, che fa pagare uno sproposito anche i kWh prodotti quasi gratuitamente attraverso il sole (fotovoltaico), il vento (eolico) e l’idroelettrico. Donde la necessità, per ritornare a una situazione di prezzi accettabile, di eliminare il criterio del prezzo marginale.

Un quadro riassuntivo relativo ai contratti con i clienti finali per le forniture elettriche. Poiché i prezzi della componente energia sono legati al Prezzo Unico Nazionale (PUN) sulla Borsa elettrica, per i clienti con contratti a prezzo variabile si trasferiscono al cliente gli effetti dei due meccanismi di fissazione del prezzo (quello del gas e quello della luce), che pertanto necessitano di essere entrambi completamente modificati quanto prima per ritornare a una situazione sostenibile per le imprese italiane.

Gli interventi palliativi del Governo non curano le cause della malattia

Purtroppo, il cambiare i meccanismi di fissazione del prezzo (specie del gas per i clienti sul mercato libero) richiede una comprensione del problema e una volontà politica che ad oggi non vediamo. D’altra parte, la questione del caro-bollette non può essere risolta con interventi “tampone” che alleviano soltanto un po’ i sintomi (e solo per certi tipi di clienti finali), rischiando così di essere una sorta di boomerang.

Ad esempio, il dare la possibilità di pagare le bollette di luce e gas a rate (senza l’applicazione di interessi) è solo un trucco contabile, una sorta di maquillage, poiché l’importo annuo pagato dai consumatori non cambierà di un centesimo. E non basta da solo un intervento sulla bolletta che vada a toccare soltanto (e temporaneamente) gli oneri di sistema, così come non basta da sola la transizione alle rinnovabili.

Come abbiamo visto già nella lotta alla pandemia, anche in campo energetico la politica italiana sembra mancare di quella visione e concretezza di altri Paesi dell’UE, e si continuano di fatto a favorire le lobby, non ponendo l’interesse del cittadino al primo posto. In molti casi, poi, si approfitta dell’ignoranza delle persone per gettar loro fumo degli occhi, facendo credere che si stiano risolvendo i problemi.

Per esempio, il Decreto bollette 2022, diventato da poco legge con il via libera definitivo in Senato, ha fra i suoi punti cardine l’utilizzo dei climatizzatori negli edifici pubblici: prevede infatti che, dal 1° maggio, questi non possano portare gli edifici a misurare una temperatura minore di 25 °C d’estate e maggiore di 21 °C d’inverno (tenendo conto del margine di tolleranza di 2 gradi previsto dal decreto stesso).

Peccato, però, che: (1) i valori tollerati siano praticamente gli stessi normalmente usati, per cui si fa finta di cambiare tutto per non cambiare, in realtà, nulla; (2) l’abbassamento di 1 °C del riscaldamento non porti a un risparmio del 6% della spesa come scritto dai media italiani, ma solo dell’1-2%; (3) la platea interessata, quella degli edifici pubblici, sia piccola, per cui il risparmio di gas per il Paese risulta irrisorio: <0,1%.

In conclusione, il proseguire nel curare gli effetti anziché le cause della malattia rischia di portare le imprese produttive e il nostro Paese sull’orlo del baratro. La semplice introduzione di altre misure palliative e di un tetto al prezzo del gas non risolverebbero il problema e, anzi, rischierebbe di essere la pietra tombale al rientro a quotazioni storiche. I veri rimedi sono altri, e forse sarebbe ora che qualcuno si “svegliasse”.

Naturalmente, è a questo punto evidente al lettore che l’eventualità di un’interruzione alle forniture di gas russe non solo provocherebbe blackout e razionamenti, ma anche un’impennata ulteriore dei prezzi di gas e luce. Tutto ciò si sommerebbe agli effetti già tremendi del caro-bollette attuale. Pertanto, verrebbero messi a rischio il tessuto produttivo e la tenuta sociale del nostro Paese, che era già una polveriera per l’impatto economico delle misure adottate dal Governo nella gestione della pandemia.

Occorre tenere infatti presente che, secondo i dati forniti da Snam (la società che gestisce la rete italiana di distribuzione del gas) – relativi al 2018 ma rimasti altamente stabili negli ultimi anni – in Italia la domanda (e quindi il consumo) di gas sono ripartiti come segue: per circa il 40% provengono dal settore residenziale (cioè dalle famiglie), per circa il 32% dal settore termoelettrico e per circa il 25% dal settore industriale. Dunque, poiché la Russia ci fornisce il 40% del nostro fabbisogno di gas, traete voi le conclusioni.

Domanda e consumo di gas naturale in Italia per settore, espressi in miliardi di metri cubi. (fonte: Snam)

Alcune cose che ogni famiglia può fare per minimizzare il caro-bollette

Quest’ultima sezione è dedicata a ciò che le singole persone e le famiglie possono fare per mitigare l’impatto del caro-bollette sulle proprie tasche e quindi, in ultima analisi, sul nostro Paese. Infatti, l’urgenza della situazione è tale che, se si confidasse soltanto sull’azione del Governo, si potrebbe assistere all’eventuale soluzione dei problemi “a babbo morto” o, addirittura, non vederla mai.

Vi sono, essenzialmente, tre versanti su cui tutti noi possiamo agire, che sono: (1) fornitori luce e gas e relativi contratti; (2) risparmio energetico; (3) energie rinnovabili. Sebbene le opportunità e le tecnologie oggi disponibili in questo campo siano troppo numerose per essere qui illustrate tutte, si darà un qualche esempio per far capire come il contributo del singolo nel risolvere il problema sia fondamentale.

Sul fronte delle bollette, l’optare per contratti luce e gas a prezzo fisso fa risparmiare in periodi in cui si prevedono ulteriori aumenti, ma anche la scelta del timing e dell’operatore contano molto. L’ideale sarebbe stipularli quando i prezzi del gas sono più bassi (nei mesi “spalla”, ovvero nelle mezze stagioni) e, nel caso luce, con operatori che producano il 100% della propria energia da fonti rinnovabili, non solo per risparmiare ma anche al fine di incentivare gli operatori che vanno in quella direzione.

Altro risparmio sulle bollette luce e gas si può avere tramite il confronto, con appositi comparatori, fra le offerte di due o più fornitori, che si può fare solo se: (1) le loro offerte hanno lo stesso tipo di indicizzazione (ad es. sono tutte indicizzate al PUN); (2) si conoscono i costi fissi mensili scelti e applicati da ciascuno di essi, poiché non è solo il costo della materia prima a determinare la nostra spesa in bolletta. A questo riguardo, possiamo consigliare l’uso dei comparatori online di Altroconsumo e di Arera.

Sul versante del risparmio energetico, al di là dei consigli banali del web, molto si può fare, a cominciare dall’applicare in casa (l’ideale è a monte dell’interruttore generale) un misuratore di potenza elettrica assorbita, che mostra i consumi dei propri apparecchi elettrici ed elettronici. Si scoprirà così i consumi nascosti degli apparecchi elettrici ed elettronici quando sono in stand-by (ed evitabili con appositi “stand-by killer”), che la pompa di calore consuma molto anche quando pare al minimo grazie all’inverter, etc.

La strada per l’indipendenza energetica di una famiglia poggia su 3 pilastri, su cui vi è poca (e in genere superficiale) informazione da parte dei media, mentre essa sarebbe ora più che mai preziosa. Chi ne ha la possibilità, può puntare direttamente all’obiettivo finale: autoprodursi l’energia utilizzata in casa con le fonti rinnovabili. In alternativa, un mix di interventi ad hoc di vario tipo può portare a un contenimento della bolletta energetica, ma purtroppo questi non sono in genere granché noti al grande pubblico.    

Il principale consumo energetico delle famiglie è il riscaldamento invernale, seguito dal raffrescamento estivo. Tuttavia, chi passa molte ore al PC – o comunque seduto – può ridurre sensibilmente la bolletta elettrica invernale usando sotto i piedi un tappetino riscaldante da pochi watt che può essere acquistato per una manciata di euro sui principali portali di e-commerce (uno di noi ha così dimezzato la bolletta di marzo rispetto all’anno precedente, mentre a molti Italiani questa raddoppiava).

Un’altra tecnologia economica che dovrebbe essere adottata in ogni casa italiana e che si ripaga in pochissimo tempo è la Ventilazione Meccanica Controllata (VMC) effettuata applicando uno o più ventole con accoppiato un estrattore di calore (ceramico) – le si trova in vendita sul web con numerosi marchi (ad es. Ventolino ed altri) – a semplici fori ad hoc nella parete esterna, garantendo così un ricambio d’aria continuo degli ambienti trattenendo però in casa il calore d’inverno e il fresco d’estate.

Con questa semplice tecnologia (che costa dai 300 euro in su e che nulla a che vedere con gli ingombranti e costosi apparecchi di VMC usati per scuole e grandi uffici), è possibile ottenere una serie di benefici: (1) risparmio finanche del 20% sulla climatizzazione della casa; (2) si evita l’uso delle forme di riscaldamento più dispendiose poiché il ricambio d’aria è spalmato su molte ore (fino a 24); (3) si migliora, anzi ottimizza, la qualità dell’aria indoor (poiché si minimizzano la CO2, gli inquinanti e gli eventuali virus presenti).

Sul versante delle rinnovabili, invece, pochi sanno che anche chi non dispone di un tetto può risparmiare con il fotovoltaico sulla bolletta elettrica semplicemente optando per il cosiddetto fotovoltaico plug&play, cioè da balcone o terrazzo: un kit di pannelli removibili (con o senza accumulo in batterie) che si collega a una presa elettrica di casa, e che grazie all’inverter di cui è dotato il kit darà priorità di prelievo da parte degli elettrodomestici della corrente così prodotta / accumulata.

Sebbene il fotovoltaico plug&play in Italia sia limitato agli 800 W di potenza nominale massima, i kit sono economici, e quelli con una potenza nominale fino a 350 W non necessitano né di installazione (per cui non è necessario ricorrere a installatori, che “snobbano” questi kit perché loro non ci guadagnano) né di burocrazia: si comprano e si usano per l’autoconsumo, previo invio solo di una semplice Dichiarazione Unica (il modulo è scaricabile dal sito di Arera) al Distributore locale, senza obblighi o costi ulteriori.

Inoltre, oggi è possibile usufruire del risparmio delle rinnovabili anche in altri modi: ad es. acquistando da ènostra – la prima cooperativa energetica in Italia che produce energia rinnovabile attraverso un modello di partecipazione – una quota (costo unitario 500 euro), o più d’una, di un grande impianto fotovoltaico o eolico sito in un’opportuna zona d’Italia; per cui si avrà in cambio una certa quota annuale di energia elettrica al costo fisso di soli 6 cent/kWh, svincolandosi così del tutto dal prezzo di borsa.

Se invece si vuole andare nella direzione della totale indipendenza energetica della propria casa e/o garantirsi da eventuali blackout, conviene optare per un impianto fotovoltaico “stand-alone” molto sovradimensionato nei pannelli, e soprattutto nell’accumulo (tipicamente a batteria, preferibilmente del tipo litio-ferro-fosfato, ovvero LiFePo4), rispetto a un normale impianto fotovoltaico connesso in rete. E un eventuale generatore diesel o micro-eolico può assicurare un backup, come su un camper.

Una volta che si opti per il FV stand-alone, non solo non ha più senso avere un contratto gas (si cucina e si riscalda l’acqua con l’elettricità gratuita fornita dal Sole) ma, se il sistema ha un accumulo a batteria ben dimensionato per i propri consumi (in questo ci si può aiutare con i numerosi tutorial o simulatori in inglese che si trovano online), in teoria ci si potrebbe staccare dal fornitore luce: temporaneamente si perderà l’“agibilità” della casa, necessaria per affittarla o venderla, ma il risparmio sarà totale.

Se dunque vi fosse una campagna di informazione dell’opinione pubblica da parte del Governo e dei media su tutte le opportunità offerte oggi dal mercato (qui ne abbiamo solo accennate alcune), la si potrebbe coinvolgere nella soluzione del problema, ed in poco tempo abbattere in misura potenzialmente più che significativa il fabbisogno energetico in ambito residenziale. Di questi tempi, non sarebbe poco! Invece, come durante la lotta alla pandemia la comunicazione istituzionale è latitante.

Vorremmo qui esprimere la nostra gratitudine a tutte le persone che hanno indirettamente collaborato alla realizzazione di questo articolo, fornendo materiali, commenti o anche solo utili spunti di riflessione. Un estratto di questo articolo è stato pubblicato su Atlantico Quotidiano il 30 aprile.

Mario Menichella (fisico e divulgatore scientifico) – m.menichella@gmail.com

Alfonso Scarano (analista finanziario indipendente) – scaralfonso2021@gmail.com

Riferimenti bibliografici

[1]  Menichella M., “Le speculazioni sul gas che stanno creando il caro-bollette. E le Authority stanno a guardare…”, Fondazione David Hume, 4 marzo 2022.

[2]  Bidoia L., “Le speculazioni che hanno stravolto il mercato del gas europeo”, pricepedia.it, 31 dicembre 2022.

[3]  Menichella M., “Le 10 cause del caro-bolletta energetica italiano: anatomia di un disastro”, Fondazione David Hume, 10 gennaio 2022.

[4]  Gaballo L., “La stangata”, puntata di Spotlight andata in onda su RaiNews24 il 22 aprile 2022.

[5]  Redazione, “Gas, M5S chiede revisione formula del prezzo tutela”, annotrecentogiorni.com, 18 marzo 2022.

[6]  Bruschi G., “Eni, l’utile 2021 è il più alto degli ultimi 10 anni: pronta la quotazione di Plenitude. Tutti i dati di bilancio”, firstonline.info, 18 febbraio 2022.

[7]  ENI, Rapporto di bilancio della società, pubblicato in “ENI – Relazione finanziaria annuale 2020”, eni.com, 2020.

[8]  Zuliani F., “In difesa della buona politica: la strategia italiana del gas”, ilpost.it, 1° maggio 2013.

[9]  Grassia L., “Più mercato e più trivelle per tagliare i prezzi del gas”, lastampa.it, 22 gennaio 2012.

[10]  Arera, “Mercato del gas naturale – Determinazione delle componenti relative ai costi di approvvigionamento del gas naturale”, arera.it, 5 febbraio 2015.

[11]  Arera, “Offerte standard per i clienti finali – PLACET”, arera.it, 2 maggio 2022.

[12]  Di Cristofaro C., “Aumento della tassa sugli extra-profitti non spaventa gli energetici”, ilsole24ore.com, 3 maggio 2022.

L’Ucraina e noi – Il sentimento della vergogna

27 Febbraio 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

La politica internazionale ha le sue regole, una sua logica, il suo pacchetto di criteri di valutazione. Ne so poco, anzi quasi niente. Mi sono sempre occupato di altri temi, forse meno importanti, sicuramente più nazionali che internazionali. Perciò su questa guerra scoppiata in Europa non sono titolato a parlare, e infatti non lo farò.

Quello di cui vorrei parlare è qualcosa di più intimo, è qualcosa che succede dentro di me e, suppongo, possa succedere anche ad altri. Vorrei parlare di un sentimento, che probabilmente nasce proprio dall’ignoranza, dal non essere esperti di geopolitica e di strategie militari, dal fatto di vedere le cose con l’occhio ingenuo della persona comune. Un sentimento che, non mi è bene chiaro perché, è bandito dal discorso pubblico. Non emerge mai esplicitamente. Non se ne discute, o forse non se ne deve discutere.

Quel sentimento è la vergogna. Ma forse sarebbe più esatto dire: doppia vergogna. Vergogna perché, nonostante i disperati appelli del presidente Zelensky, l’Occidente, l’Europa (e ovviamente anche l’Italia) non sono disposte a fornire alcun aiuto concreto al popolo ucraino, al di là delle fantomatiche e inefficaci “sanzioni durissime”. Ma vergogna, anche, perché non solo non siamo disposti a correre alcun rischio per aiutare gli ucraini, ma stiamo trasformando in spettacolo la tragedia altrui. Comodamente seduti davanti ai teleschermi, veniamo inondati da maratone televisive come quelle del Quirinale o, in passato, quelle delle guerre del Golfo.

E’ come se, vedendo una banda di bulli che picchia a sangue un bambino, noi ci limitassimo a minacciarli di non invitarli più alle nostre feste, e in compenso non ci facessimo scappare l’occasione di filmare tutto. Eppure ci hanno insegnato che è vile voltarsi dall’altra e far fina di niente davanti a uno stupro. E che non è bello, quando c’è un incidente per strada, fare ressa intorno ai feriti non per soccorrere ma per vedere lo spettacolo.

Sono paragoni sbagliati?

Forse sì, se la domanda è soltanto: cos’altro potremmo fare?

Ma forse no, se la domanda è: che cosa siamo diventati, come cittadini e come operatori dell’informazione?

Già, che cosa siamo diventati?

A me sembra che una parola condensi tutto: siamo diventati spettatori, e come tali veniamo trattati. L’informazione, specie in tv e su internet, si preoccupa poco di farci capire e molto di assicurarci un intrattenimento permanente, h24. Quanto a noi, cittadini del ricco ed evoluto occidente, quel che ci è chiarissimo almeno da mezzo secolo (da quando i giovani americani ripudiarono la guerra del Vietnam) è che la guerra non fa per noi. Possiamo condannare, esprimere solidarietà, indignarci, accogliere profughi, imporre sanzioni economiche, ma aiutare un popolo aggredito no. Quello resta fuori del nostro orizzonte morale. Le uniche guerre che siamo disposti a fare sono quelle per i nostri stretti interessi, possibilmente solo dal cielo, meglio se affidate agli anglo-americani.

E’ un bene? E’ una conquista di civiltà? Potremmo fare diversamente?

Non ho le risposte. Ma mi accontenterei che provassimo a riflettere. E a non rimuovere. Il sentimento della vergogna è del tutto bandito dalla retorica del discorso pubblico, ma a me pare, in questo momento, il più appropriato, per non dire il più onesto. Quanto alla fuoruscita della guerra dal novero delle cose concepibili è sicuramente una conquista di civiltà. Ma non è solo questo: è anche il segno che tutto ciò che costa fatica, comporta rischi, richiede impegno e spirito di sacrificio è a sua volta uscito dal radar delle nostre vite. E non da ieri, né solo in Europa: la psicologa israeliana Hara Estroff Marano aveva descritto la mutazione nei giovani americani già due decenni fa in un libro significativamente intitolato A Nation of Whimps (una nazione di schiappe).

Forse la domanda che dovremmo farci è se, in un mondo che non è ancora tutto sulla nostra lunghezza d’onda, possiamo permetterci di essere quello che siamo. Il grado di civiltà di un paese, o di un continente, può anche essere eccessivo, non solo insufficiente. Si racconta che, a Yalta, a chi gli faceva presente che il Papa avrebbe preferito un altro assetto del mondo, Stalin avesse chiesto: quanto divisioni ha il Papa? Dev’essere la stessa domanda che si è fatto Putin: quante divisioni ha Ursula von der Leyen?

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