Perché la sinistra si fa rappresentare dai VIP? – intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi

Dalla piazza di sabato scorso con sul palco solo intellettuali e artisti alla difesa del manifesto di Ventotene su Rai1 da parte di Benigni: perché la sinistra ha delegato la difesa dei propri capisaldi culturali e la rappresentanza delle proprie idee a questi mediatori?

Domanda difficile, perché i fattori sono tanti. Però almeno due ingredienti del cocktail mi sembrano abbastanza evidenti. Primo ingrediente: da almeno 15 anni, ossia dalla lapidazione di Walter Veltroni in poi (2008-2009), la sinistra non è stata più in grado di esprimere leader dotati al tempo stesso di spessore intellettuale e di carisma. Una situazione che il recente ringiovanimento del gruppo dirigente del Pd non ha fatto che aggravare, come del resto ci si poteva aspettare dato il trend delle istituzioni scolastiche. La distanza fra il livello di preparazione culturale e politica dei dirigenti del vecchio PCI e quello degli attuali dirigenti Pd è siderale, per non dire imbarazzante. Senza una cultura ampia, la difesa dei propri “capisaldi culturali” diventa una mission impossible.

E il secondo ingrediente?

Il secondo ingrediente è la eticizzazione del discorso politico, sempre meno ancorato a obiettivi e rivendicazioni concrete, e sempre più volto ad affermare la superiorità morale dei propri valori, come inclusione, accoglienza, diritti delle minoranze sessuali. Ed è ovvio che se la sostanza politica del tuo discorso è basata su imperativi morali piuttosto che su un vero programma politico, economico, sociale, diventa facile, e del tutto naturale, affidare il messaggio allo star system, sfruttando la popolarità dei suoi protagonisti. Un discorso di Benigni, per quanto arruffato (o proprio perché arruffato), impatta mille volte di più che una mitragliata di slogan emessi dalla bocca di Elly Schlein o di Giuseppe Conte.

Quando tutto questo è successo?

Ci sono alcune date significative: il 1992, con l’esplosione di Mani Pulite. Ma anche il 1994-1995, con l’abbandono – a sinistra – del concetto di eguaglianza a favore di quello di inclusione, un processo voluto da Alessandro Pizzorno e vanamente ostacolato da Norberto Bobbio. La fine del primo governo Prodi, nel 1998. E, ultima tappa, la defenestrazione di Veltroni, come ho già ricordato. Però una vera e propria data della svolta non esiste, perché la supplenza dello star system rispetto alla politica è un fenomeno carsico, un fiume che emerge e si inabissa periodicamente quando la politica è sputtanata, o semplicemente non è abbastanza a sinistra, o ancora più basicamente non ci scalda abbastanza il cuore. Allora arrivano artisti, cantanti, attori, scrittori, studiosi, intellettuali, giornalisti-tribuni. Può capitare per un’inchiesta giudiziaria, ma più sovente perché un governo di sinistra non lo è abbastanza.

Ad esempio?

Renzi che vara il Jobs Act, Minniti che fa gli accordi con la Libia, Enrico Letta che preferisce Draghi a Giuseppe Conte.

Nanni Moretti ci teneva a mantenere le distanze, da “questi dirigenti con i quali non vinceremo mai” e dopo lo storico intervento in piazza è tornato al proprio lavoro: oggi il rapporto sembra più osmotico?

Sì, oggi il mondo dell’arte e della cultura interviene quotidianamente perché il governo è di destra, e l’antifascismo – diversamente dai programmi politici veri e propri – è una canzone facile da cantare. Avete mai visto un concertone per il “salario minimo legale” ? Alla fine è una questione di generi letterari, poesia contro prosa. La politica parla in prosa, lo star system – ma anche il pubblico – detesta la prosa, vuole la poesia. Salire sulle navi che salvano i migranti è poesia, sostenere il salario minimo legale è prosa. Detto per inciso, è una delle ragioni della impopolarità di Carlo Calenda, il meno poetico dei nostri politici.

Non è partito tutto con la Rai3 di Angelo Guglielmi, la tv delle ragazze e via discorrendo?

No, secondo me. Quello era un fenomeno diverso. La stagione 1985-2001 ha visto una straordinaria fioritura della satira politica, che non si sostituiva alla politica ma semmai la dileggiava, senza riguardi per nessuno. Sotto la sferza di Arbore, Dandini, Guzzanti, Marcoré cadevano tutti. E cadevano pure i miti della sinistra, sbeffeggiata nelle sue innumerevoli debolezze e nei suoi tic. Nessuno, in quel gruppo, avrebbe mai assunto le posture da guru corrucciati che oggi assumono i vari Saviano e Scurati.

La satira ha perso indipendenza o originalità, per diventare un interprete organico?

Ci sono eccezioni importanti, come Crozza e Checco Zalone, ma in generale la satira mi sembra non all’altezza. Per lo più non fa ridere, e più è politicizzata meno fa ridere. L’idea che possa esistere una “satira di sinistra”, o una “satira di destra”, è già di per sé la negazione della satira.

A sinistra è saltato il concetto di doppia verità, per cui oggi le classi dirigenti dem forzano la realtà, presente e passata, per plasmarla secondo un’unica visione?

Esattamente. I dirigenti del vecchio PCI (anni ’50 e ’60) non credevano a quello che raccontavano alle masse, ed erano perfettamente consapevoli che una cosa è la realtà, un’altra cosa è la propaganda. I dirigenti della sinistra attuale, invece, non conoscendo la pratica della doppia verità, costringono sé stessi a credere vere le cose che dicono. Quindi non dispongono di un’analisi realistica della situazione.

Lo choc di Mani Pulite e la parabola di Silvio Berlusconi hanno un ruolo in tutto questo?

Sì, soprattutto Berlusconi: ha fornito un formidabile bersaglio per le esternazioni delle celebrities, come le chiama Rampini quando rileva gli stessi fenomeni negli Stati Uniti.

Chi conduce il gioco? Benigni che difende Ventotene come Schlein meglio non potrebbe è come se un giornale affidasse al vignettista la propria linea editoriale. Sono saltati gli schemi o c’è un nuovo schema?

C’è il vecchio schema dell’indignazione: mai studiare le carte, mai entrare nei dettagli, sempre scomunicare e demonizzare.

Pare che certi elettori di sinistra preferiscano farsi dire le cose da intellettuali e artisti piuttosto che dai parlamentari che eleggono. È vero?

È così, ma la ragione è la solita: l’elettore progressista ama sentirsi moralmente superiore, e questo stato d’animo glielo procura più facilmente Benigni che Schlein.

Provoco. Non è che nascondendosi dietro gli intellettuali e gli artisti d’area i politici sopperiscono all’assenza di rapporto con l’elettorato, disintermediando così la relazione tra potere e cittadinanza e realizzando il governo delle élite?

Forse, ma è una delle tante conseguenze della riduzione della politica a morale.

Oggi forse il paradigma non è destra contro sinistra ma élite da una parte e cittadini dall’altra e gli intellettuali guidano il popolo per conto delle élite?

In parte è così, ma la destra, almeno in Italia, non ha un establishment intellettuale che la sostiene: destra è diversa anche perché fa politica senza il paracadute delle élite.

Anche negli Stati Uniti i democratici hanno provato a risolvere i loro problemi mobilitando lo star system. Perché è una mossa che non produce mai risultati validi, e perché invece ci si ricorre comunque?

Non direi che non funziona mai. Con Obama lo star system ha funzionato, con Kamala Harris non poteva funzionare perché ogni endorsement di una celebrity confermava l’equazione trumpiana democratici=élite.

[intervista uscita su Libero il 21 marzo 2025]




Intervista di Tommaso Rodano (Il Fatto Quotidiano) a Luca Ricolfi – Il follemente corretto e la sinistra

1. Luca Ricolfi, dopo dieci anni di indagine sul tema ha messo a punto un termine: “follemente corretto”. Cosa intende?
In prima approssimazione si potrebbe direi che il follemente corretto è la “malattia senile” dei politicamente corretto, la sua estrema degenerazione. Ma in realtà una definizione rigorosa è impossibile, perché il vero tratto distintivo del follemente corretto è il suo meccanismo di propagazione, che si fonda sul potere intimidatorio: nell’era dei social tutti possono diventare censori indignati, ma tutti sono, al tempo stesso, potenziali vittime, esposti al rischio di venire lapidati da censori ancora più fanatici.

2. Il suo elenco degli orrori del pensiero “woke” è notevole. Personalmente, sono rimasto impressionato dalla tabella dei nuovi pronomi di genere: “ve”, “xe”, “ze”, ma quali sono gli episodi che l’hanno colpita di più mentre lavorava al libro? 
Difficile fare una graduatoria, anche perché le follie sono molto eterogenee. Ci sono follie che impattano drammaticamente, come l’ammissione dei trans biologicamente maschi nei reparti femminili delle carceri, e follie che fanno semplicemente ridere, come Lufthansa che proibisce ai piloti di dire “gentili signore e signori benvenuti a bordo” perché qualcuno potrebbe non sentirsi né signora né signore.                                                                                                                                                                                       Comunque, come persona che per mestiere scrive e insegna, forse l’episodio che più mi dà da pensare è la pretesa di ripulire l’opera di Roald Dahl, un caso in cui coesistono sia la gravità della cosa (attacco alla libertà di espressione), sia la ridicolaggine (gli interventi effettuati sul testo sono bigotti e demenziali).

3. La sua tesi è che il politicamente corretto sia uno strumento di lotta di classe al contrario: invece di combattere le disuguaglianze, crea nuove élite. Quali?
Ne menzionerei tre: le vestali della Neolingua, ossia l’esercito di comunicatori che, nelle burocrazie, nelle università, nei media, nelle aziende, si occupa di ripulire il linguaggio; le lobby del Bene, ovvero le potentissime organizzazioni, soprattutto LGBT+, che
interferiscono quotidianamente con le attività di aziende e istituzioni; infine quelle che io chiamo le “guardie rosse della diversity” ossia gli staff che, nelle università e nelle aziende, si occupano di “sensibilizzare” dipendenti e opinione pubblica, e di garantire che le politiche siano inclusive, attente alla diversità, eccetera.

4. Sì è parlato tanto di schwa sui giornali, tra gli intellettuali e tra i politici, ma nei fatti non la usa quasi nessuno. E se va al mercato, sarà difficile trovare qualcuno che si ponga il problema del pronome o delle parole da usare con chi appartiene a una minoranza sessuale. Non pensa che la preoccupazione sul politicamente corretto stia diventando a sua volta una paranoia? 
In effetti di certi aspetti del follemente corretto la gente comune se ne infischia, e nessuno la redarguisce o la penalizza per questo. Il problema è che, non appena una persona comune prova a fare capolino in ambienti culturali/intellettuali/politici, la non padronanza del linguaggio corretto tende a diventare fonte di stigma ed emarginazione.
Riguardo a quel che succede nei mercati le do pienamente ragione: sono il posto più libero del pianeta, anche perché di norma i paladini del follemente corretto non ci mettono piede (tutt’al più ci mandano la servitù, eufemisticamente chiamata “personale di
servizio”).

5. Sono peggio le forzature ridicole del “follemente corretto” o quelle speculari, a destra, del politicamente scorretto a tutti i costi? Mi vengono in mente alcuni esempi di successo, da Vannacci alle flatulenze radiofoniche della Zanzara. 
Non so se sono speculari, perché il follemente corretto è per lo più raffinato, anzi fin troppo raffinato, mentre il politicamente scorretto estremo è semplicemente volgare: sono fenomeni diversi, più che opposti. Diciamo che, se devo scegliere, preferisco il follemente corretto, perché almeno fa ridere. Mentre la satira di destra, spesso, non è affatto divertente.

6. Il follemente corretto, scrive lei, è un problema della sinistra italiana. Crede che possa condizionare anche le elezioni americane?
Tantissimo. Sono in molti a ritenere che, nel 2016, Trump abbia vinto le elezioni anche perché una parte della società americana non ne poteva più del politicamente corretto. Adesso la storia rischia di ripetersi: non prendendo le distanze dalle istanze LGBT più estreme, Harris mette a repentaglio l’elezione. Diverse femministe hanno minacciato di votare Trump, o perlomeno di non votare Harris, se la candidata democratica non prenderà esplicitamente le distanze da obbrobri come l’utero in affitto e le terapie precoci di cambio di sesso/genere, basate su ormoni e talora su operazioni chirurgiche.

7. Che ne sarà del “follemente corretto”? É destinato a cambiare i connotati alla società italiana o a sgonfiarsi nel tempo?
Penso che si sgonfierà, ma non è detto. La sinistra potrebbe essere così stupida e autolesionista da continuare a difenderlo. Su alcuni temi, come quello dei pronomi o della schwa, si può anche pensare che, dopotutto, non cambiano la vita delle persone. Ma su altre cose, come l’utero in affitto, o la difesa degli spazi femminili, perseverare nella difesa delle istanze LGBT+ potrebbe rivelarsi un azzardo.




Su sovranisti, sinistra ed elezioni. Intervista a Dino Cofrancesco

Domanda. Sovranisti e popolari insieme, uno scenario possibile per il prossimo parlamento europeo secondo lei?

Non sono un columnist: il teatrino della politica non mi ha mai interessato. Mi considero un osservatore attento del costume politico, degli stili politici, delle ideologie politiche e, pertanto, dichiaro la mia incompetenza per quel che riguarda la possibile composizione del prossimo parlamento europeo. Non credo, tuttavia, che sovranisti (qualsiasi cosa possa significare questo termine) e popolari possano comporre una maggioranza stabile e un’alleanza durevole. Sovranisti e populisti sono particolarmente esposti ai venti delle volubilità popolari e potrebbero esserci inversioni di tendenze, come dimostra il caso spagnolo, a mio avviso molto significativo. Inoltre i popolari rappresentano la vecchia Europa che resta diffidente nei loro confronti.

D. Quali sono le ragioni culturali e politiche che potrebbero portare a un’alleanza di questo tipo? E quali gli ostacoli da superare?

Le ragioni culturali e politiche, facili da individuare, si possono sintetizzare in un anti-, in una contrapposizione all’establishment politico, economico, culturale che può assumere varie volti, a seconda delle diverse storie nazionali, ma che viene percepito come un ceto transnazionale—i Macron, i Monti, i Prodi, gli Junker, i Timmermans—alla cui politica si attribuiscono le difficoltà di ogni tipo in cui versa l’Europa. Gli ostacoli da superare sono tanti. L’anti-establishment può declinarsi in varie forme, da destra a sinistra e i disaccordi possono riguardare valori irrinunciabili che mettono in secondo piano la ‘rivolta contro le élite’.

D. Ma sovranismo è sinonimo di fascismo?

Assolutamente no. E’ l’ora di finirla con questa continua evocazione dell’ombra del Banquo fascista e l’assordante All’armi siamo antifascisti! Il fascismo è quel regime che Renzo de Felice e altri storici ‘revisionisti’ ci hanno descritto e spiegato nelle loro opere e continuare a richiamarsi, contro quanti esaltano il ‘duce’, alle leggi Scelba e Mancino è semplicemente grottesco. Ma soprattutto è inquietante e umiliante: ci dice che lo ‘spirito repubblicano’ non trova di meglio che di contrapporsi a chi da più di settant’anni è scomparso tra le macerie della Seconda guerra mondiale. Ci si definisce non per quello che si è e si progetta ma per quello che si combatte. E più si alzano i toni dello scontro irreale più si rischia di ricalcare le orme assai poco esaltanti di quel vecchio e faziosissimo azionista torinese che chiedeva per i fascisti una ‘notte di S. Bartolomeo’.

D.Perché chi oggi evoca la sovranità è considerato oggi nella migliori delle ipotesi un troglodita?

Siamo un popolo di faziosi e di intolleranti che all’analisi sostituisce l’insulto. La volontà di capire l’altro è una tentazione alla quale si resiste senza difficoltà. Si prenda un quotidiano come ‘Il Foglio’ (e cito un giornale sedicente di area liberaldemocratica): negli editoriali del direttore e dei suoi principali collaboratori non c’è il minimo tentativo di comprendere l’avversario. Solo dileggi, sarcasmi, accuse di ignoranza e di incompetenza, richiami alla scala F di T. W. Adorno. Nessun sospetto che dietro il sovranismo—ovvero, per citare l’Enciclopedia Treccani, la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione» —ci sia un’angoscia epocale ovvero l’azzeramento della dimensione politica e la sua sostituzione con l’economia e col diritto. E’ un azzeramento che viene da lontano se si pensa che nel saggio di Norberto Bobbio, L‘età dei diritti, la politica—gli stati, le nazioni con i loro codici specifici—è del tutto assente. Viviamo in un’epoca in cui i diritti e gli interessi degli individui hanno cancellato tutto e poiché la gente è ritenuta incapace di perseguirli saggiamente, la stessa democrazia liberale entra in crisi, sostituita dal governo dei competenti (Cassese? Calenda? Monti?) che non mette ai voti diritti e interessi. Non ritengo che i sovranisti siano in grado di farci uscire dalle secche in cui si sono arenati i vecchi stati nazionali ma leggere che i Giulio Tremonti, i Paolo Becchi, i Paolo Savona sono ignoranti e irresponsabili mi fa pensare: ma che razza di paese stiamo diventando?

D.Quali sono i rapporti tra sovranità e globalizzazione?

Sulla base di quanto ho detto, la risposta è ovvia. La globalizzazione è planetarizzazione dell’economia (il mercato mondiale) e del diritto (i diritti universali degli individui uti singuli indipendentemente dalla loro cittadinanza) e questo comporta sconvolgimenti epocali, sul piano sociale e culturale, ai quali si reagisce con la chiusura comunitaria, col ‘nazionalismo’. Si può dissentire dal modo con cui ci si difende ma solo un cervello eterodiretto dal buonismo universalista (cattolico e laico) può pensare che non c’è nulla da cui ci si debba difendere…e che ci si debba guardare dall’’odio’.(v. l’infelice slogan elettorale di Nicola Zingaretti).

D.Il concetto di nazione è appannaggio esclusivo della destra? E oggi dunque della Lega?

Non parlerei di ‘nazione’—concetto sfuggente e ambiguo quant’altri mai— ma di ‘stato nazionale’, quale è stato messo a fuoco da Pierre Manent e, prima di lui, dal suo maestro Raymond Aron, forse la più alta coscienza etico-politica del secondo dopoguerra europeo. Lo stato nazionale volle essere l’arena istituzionale in cui si potessero tutelare efficacemente i diritti individuali, praticare la solidarietà nei confronti dei ‘fratelli’ più deboli e rimasti indietro, far fluire le correnti impetuose dell’economia tra le sponde sicure dello stato di diritto. In passato la Lega non è mai stata sensibile alla filosofia dello stato nazionale, ha inteso le nazioni come entità naturali, ha stigmatizzato il centralismo soffocatore della vita dei popoli, ha contrapposto all’edificio unitario sabaudo le nazionalità naturali (da Gianfranco Miglio a Paolo Becchi) ha affermato con vigore il diritto di secessione. La Lega inalbera ora quel tricolore sul quale Bossi sputava, meglio così. Se lo stato nazionale è il trait-d’union tra l’universo e la tribù, come dice Manent, neppure la destra tradizionale può rivendicarne l’eredità, giacché del binomio ‘universo/tribù’ salvaguarda solo la tribù. D’altra parte, la sinistra da noi non si è mai nazionalizzata veramente e il Sessantotto ha contribuito in maniera definitiva alla snazionalizzazione delle masse, come ho cercato di dimostrare nel fascicolo di Paradoxa dedicato ali ‘anni formidabili’.

D.Nazione, sicurezza, immigrati…i temi chiave della Lega. Perché oggi sono ancora vincenti in Italia nei sondaggi?

Sono vincenti et pour cause ovvero per le cause messe così bene in luce da Luca Ricolfi. Da parte mia aggiungo: siamo un’economia in recessione, con l’indice di produttività più basso d’Europa, il nostro welfare state è al collasso, il lavoro manca. ’Facciamo entrare tutti?’va bene ma siamo disposti a rinunciare a una parte del nostro reddito per assicurare ai migranti condizioni di vita decenti?. Mi ha colpito molto quanto ha dichiarato Luca Ricolfi, nell’intervista ad Anna Chirico: «Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

D.Quali errori ha compiuto la sinistra su questo fronte?

Il vecchio PCI, come previde genialmente Augusto Del Noce, è diventato un ‘partico radicale di massa’, ha convertito i desideri individuali in diritti, ha parlato, con ministri come Graziano Del Rio e Pier Carlo Padoan la lingua dell’establishment, ha frequentato più gli ambienti confindustriali che i quartieri operai. Una sproletarizzazione che non sta pagando troppo cara giacché seguita a occupare tutti i bastioni dell’apparato statale con uomini di fiducia e mantiene saldamente nelle sue mani il potere culturale (che la destra ha sempre trascurato e snobbato).

D.Il capo politico dei 5Stelle Di Maio sta provando, a partire dal richiamo ai valori della resistenza il 25 aprile, ad annoverarsi come l’unica alternativa di sinistra, in opposizione alla Lega con cui governa. Ci sta riuscendo secondo lei nel rapporto con il Pd?

L’antifascismo di Di Maio non ha nessuna credibilità, è mero opportunismo che nasce dalla volontà di posizionarsi più a sinistra di Salvini per sottrarre voti a Zingaretti. Non va trascurato, tuttavia, il fatto che almeno la metà degli elettori M5S viene da sinistra (e talora dalla sinistra estrema). Per Alessandro Di Battista e Roberto Fico, ad esempio, l’antifascismo non è solo retorica.

D.Il Pd è stato sorpassato a sinistra anche sulla vicenda Siri. Come si sta muovendo secondo lei il segretario Zingaretti?

La vicenda Siri è emblematica. In un paese normale, il solo sospetto sulla propria condotta dovrebbe indurre un membro del governo a dimettersi. In Italia, con la magistratura che ci ritroviamo, dimettersi può significare dare un addio alla vita politica. E’ ipocrita dire: «Dimostra in tribunale la tua innocenza, poi ti riprendiamo» giacché passerà tanto di quel tempo tra processo e sentenza che non ci sarà più nessun consiglio di ministri in cui rientrare. In questa vicenda Zingaretti non si mostra né giustizialista né garantista: è come se avesse impresso sulla fronte il marchio del perdente.

D.Mancano venti giorni al voto. Che giudizio dà della campagna elettorale dei competitors in campo?

Un giudizio sconsolato. Specialmente se guardo alla sinistra e ai suoi giornali—dal ‘Foglio’ a ’Repubblica’. Quando il voto è richiesto per fronteggiare un ‘pericolo mortale’ e non per sostenere un programma politico, siamo proprio alla frutta. I grandi protagonisti della politica europei e americani seducevano gli elettori attorno con progetti ambiziosi, a sinistra (Kennedy, Johnson, Blaire etc.) e a destra (de Gaulle, Thatcher etc.). Oggi si chiama a raccolta al grido di ‘no pasaran! ’ contro le camice verdi di Salvini! Come davvero siamo caduti in basso!

Intervista a cura di Alessandra Riccardi, pubblicata su Italia Oggi l’8 maggio 2019



In attesa di nuovi leader. Intervista a Luca Ricolfi

L’idea dell’accoglienza, evocata dal Papa, è un’idea molto cristiana ma non è di sinistra. Il giorno dopo sentire risuonare queste parole da un sociologo di sinistra come lei può impressionare. Può spiegare meglio che cosa intende?

Il papa e l’ONU possono permettersi il lusso di rivolgersi all’umanità intera, come se vivessimo sotto un unico super-regime mondiale, più o meno orwelliano. Invece i governanti, finché ci sono gli Stati nazionali, hanno il dovere di difendere i propri cittadini, da cui sono stati eletti. Se poi sono di sinistra hanno anche il dovere di occuparsi degli ultimi, ovvero operai, disoccupati, precari, esclusi, svantaggiati, eccetera. Se non lo fanno, e tendono a sostituirsi al Papa e all’ONU in nome del dovere dell’accoglienza di cittadini provenienti da altri Stati, vengono puniti dai loro elettori. Il governo gialloverde non è una meteora piombata sulla politica italiana dal cielo, ma la logica conseguenza della rinuncia dell’establishment progressista ad occuparsi degli ultimi.

Ministri fuori dai ministeri, politici fuori dalle Camere e presentissimi sui social network e in tv. È una degenerazione senza via di uscita o un mutamento dell’idea di rappresentanza?

Come mutamento dell’idea di rappresentanza mi pare poco riuscito, almeno nel caso dei Cinque Stelle: il 98% dei votanti per i Cinque Stelle non è iscritto alla piattaforma Rousseau.

E chi ci governa davvero dal momento che chi dovrebbe farlo è impegnato a comunicare ciò che non ha più il tempo di fare?

In realtà il tempo per il “fare” lo trovano. Solo che è un fare demoralizzante: nomine, spartizioni, lottizzazioni, regole cucite su misura di lobby varie (taxisti, per esempio) e di segmenti elettorali più o meno di nicchia. Tutto per acchiappare consenso, non certo per affrontare i problemi del paese…

È trascorso un anno dal 4 marzo 2018, il voto che anche a suo dire ha modificato e anzi ‘sconquassato’ le modalità della lotta politica. Sì è solo imbarbarita o è una mutazione genetica più profonda? E si può tornare indietro?

La mutazione riguarda la società italiana, prima ancora della politica. Quindi suppongo che non si possa tornare indietro. A meno che per ‘tornare indietro’ si intenda un ritorno della sinistra al governo, evento invece perfettamente possibile.

La ricchezza del Paese in quest’anno è sensibilmente diminuita. Gli ultimi dati parlano però di un bilancio degli operatori finanziari tornato positivo. Vuol dire che si allarga la forbice tra chi perde e chi guadagna? O si può intravedere qualche segnale di ottimismo?

Contrariamente a quanto dicono le opposizioni, non è vero che – sul piano economico – tutto va male da quando c’è il governo Conte: va male quasi tutto, non tutto. Fra le cose che non vanno male c’è l’occupazione (che è stabile da qualche trimestre) e la ricchezza finanziaria, che è minore di com’era il 4 marzo dell’anno scorso, ma maggiore (per un ammontare di 21 miliardi) di com’era a fine maggio, quando si è insediato il governo giallo-verde.

La cosa interessante è che il colpo più micidiale alla ricchezza finanziaria del sistema-Italia non l’ha dato la polemica sull’Europa (quelle perdite virtuali sono già state riassorbite) ma il trimestre di incertezza nella formazione del governo, culminato con l’azzardo Cottarelli (per i dettagli: fondazionehume.it).

L’assistenzialismo del reddito di cittadinanza, è una delle sue tesi più note, sta creando cittadini assistiti più ricchi dei lavoratori cosiddetti atipici o forse sarebbe meglio dire sottopagati. Teme che questa contraddizione deflagri in uno scontro sociale?

Più che temerlo, me lo auguro, naturalmente a condizione che il conflitto resti pacifico. Chi come me è contro i privilegi e le diseguaglianze ingiustificate non può veder bene l’emergere di una frattura sociale, quella che separerà chi guadagna sudando e chi nullafacendo.

La Lega sembra aver capitalizzato la fiducia degli italiani nonostante sulla sicurezza non sembrano essere stati fatti passi avanti. Al contrario, i casi di cronaca nera sono sempre più paurosi. E non si intravedono nuove politiche sull’immigrazione. Come se lo spiega?

La gente non era arrabbiata perché criminalità e immigrazione dilagano, ma perché il precedente governo negava l’esistenza del problema. E’ possibile che prima o poi anche a Salvini venga chiesto il conto, ma si dimentica troppo spesso una cosa: per mettere in crisi Salvini bisognerebbe strillare che la criminalità e gli ingressi irregolari sono in aumento, e questa è precisamente la cosa che i media progressisti sono propensi a non fare, sia quando l’allarme è giustificato sia quando non lo è. Fossi Salvini dormirei ancora per un po’ fra due guanciali (però non metterei l’immagine su internet).

Rispetto al Contratto, che pure è stato già un grave vulnus nel modo di vedere la rappresentanza nella nostra Repubblica, che cosa può dire che è stato attuato e che cosa no? Vede promesse mantenute?

Sì, ne vedo, anche se in modo alquanto parziale: reddito di cittadinanza al 30%, Fornero e quota 100 al 25%, flat tax al 2%.

Come si esce da quello che lei ha definito il trash della politica? In questa mediatizzazione che scavalca i contenuti pensa che l’elezione di Zingaretti sia una delle conseguenze dell’effetto Montalbano?

No, penso sia una conseguenza della disciplina del popolo di sinistra.

Una domanda da profeta più che da studioso: si attende la nascita di nuovi leader?

Sì, mi attendo che qualcuno ci provi.

In quale area esiste il vuoto da cui può nascere un Macron o un De Gasperi?

L’area in cui può nascere qualcosa di nuovo è una sola: è l’area degli smarriti.

E cioè?

Gente semplice, che non frequenta i salotti, ma viene disprezzata perché non urla e conserva un po’ di educazione.

Intervista a cura di Sabrina Cottone pubblicata su Il Giornale de 5 marzo 2019



Perché la sinistra è all’anno zero

Quello che segue è il testo originale dell’intervista di Annalisa Chirico a Luca Ricolfi. Una versione ridotta è uscita sul “Foglio” venerdì 7 settembre 2018.

Professore, a seguire il dibattito italiano, che sensazione ha? Si annoia, è nauseato, è indifferente…

Il dibattito non esiste, perché non c’è più l’opinione pubblica. Gli scambi di opinioni (talora di invettive) tra personaggi pubblici sono sostanzialmente irrilevanti (e questo vale anche per me e per quel che dirò). Un vero dibattito presuppone che ci siano persone autorevoli, rispettate da tutti o quasi, le cui prese di posizione obbligano gli altri a misurarsi.

Non è più così da almeno un quarto di secolo, ossia da quando si è instaurata la curiosa credenza che tutte le opinioni siano egualmente valide, una credenza su cui i grillini si sono buttati a pesce, trasformandola in un credo. Viviamo in un tempo in cui ci sono centinaia di personaggi carismatici, che si contendono i like della “ggente”, ma non ce n’è nemmeno uno che sia autorevole.

Quanto al mio stato d’animo sì, sono molto annoiato, perché non leggo o ascolto quasi mai qualcosa di interessante. Ma se devo scegliere un’espressione per il mio stato d’animo, direi che ho il mal di mare, che è un mix di nausea e senso di impotenza di fronte agli eventi.

Nel governo sono sempre più evidenti le due diverse anime. Salvini ha monopolizzato il dossier immigrazione che gli consente di capitalizzare il consenso e di monopolizzare la comunicazione. Di Maio cerca di ritagliarsi spazi sui dossier economici. Quanto può durare una simile combinazione?

Abbastanza, secondo alcuni. L’ex ministro Minniti, per esempio, la settimana scorsa ha affermato che quello fra Lega e Cinque Stelle è un patto di potere, come quello fra democristiani e socialisti ai tempi del Pentapartito: apparentemente litigavano ogni giorno, in realtà stavano ben saldi sulle rispettive poltrone.

Io sono meno pessimista di Minniti, perché intravedo una differenza fondamentale fra pentapartito e governo giallo-verde: ai tempi del pentapartito si potevano sommare le richieste dei democristiani e dei socialisti aumentando il debito pubblico, oggi è molto più difficile sommare le richieste di leghisti (flat tax) e Cinque stelle (reddito minimo, erroneamente chiamato di cittadinanza), perché il loro costo è elevatissimo, e il debito pubblico si può aumentare sensibilmente solo uscendo dall’Europa.

Il M5S ha già pronto il dopo-dimaio, con l’ala Beppe Grillo, Di Battista e Fico, quella purista, diciamo così, pronta a inaugurare il ritorno alle origini.

Saranno puri, ma sono anche molto sprovveduti. Non vedo facile un cambio di leadership, perché se il governo avrà successo Di Maio diventerà inamovibile, mentre se fallirà nessuna nuova dirigenza sarà in grado di resuscitare il Movimento.

Per Salvini si aprono praterie sterminate: sarà lui il nuovo leader del centrodestra?

Questa è la prospettiva più probabile. Però Salvini sottovaluta alcuni meccanismi, che alla lunga potrebbero ridimensionarlo. Il primo è la fine della luna di miele elettorale, che dovrebbe esaurirsi intorno a Natale. Il secondo è l’azione della Magistratura, che nel breve periodo lo ha rafforzato ma nel medio periodo potrebbe logorarlo. Il terzo è la reazione dell’elettorato moderato, che oggi rigetta l’estremismo umanitario del Pd e della Chiesa, ma domani porrebbe eccepire sull’estremismo anti-umanitario del leader leghista, specie nel caso in cui la Chiesa si decidesse ad assumere posizioni più pragmatiche e meno ideologiche di quelle attuali.

L’immigrazione è il tema che sta decidendo le elezioni in tutta Europa. Anzitutto, secondo lei siamo ancora in una fase di emergenza? A guardare i numeri, si direbbe di no. Meno 80 percento dal luglio 2017.

Quando si parla di emergenza bisogna distinguere. Se per emergenza si intende la presunta “invasione” via mare attuata attraverso gli sbarchi, non c’è dubbio che non c’è più alcuna emergenza, e che buona parte del lavoro l’ha fatto Minniti, non Salvini (anche se io non sottovaluterei il valore aggiunto simbolico apportato da Salvini: la gente sa che il governo sta facendo il possibile per impedire gli ingressi irregolari in Italia, mentre prima aveva la sensazione che i migranti ce li andassimo a prendere).

Se per emergenza, invece, si intende la presenza di un numero imprecisato ma comunque molto alto di migranti irregolari in Europa, direi proprio che l’emergenza c’è eccome, e tanto per cambiare è concentrata in Italia. Il problema vero dell’immigrazione non è più, ormai, un problema di flussi, ma è un problema di stock, ossia di flussi accumulati negli ultimi 7 anni. Facciamo due conti: fra l’inizio delle cosiddette primavere arabe e oggi sono sbarcati in Italia circa 800 mila migranti. Di questi una piccola parte, dell’ordine di 50-60 mila, aveva il diritto di entrarci in quanto rifugiato. Un’altra parte, 250-300 mila, ha ottenuto o otterrà altre forme di protezione, che tuttavia hanno per lo più carattere temporaneo. Il resto, quasi mezzo milione di persone, semplicemente risiede illegalmente in Europa.

Dove stanno costoro?

In parte stanno in Italia, dove lavorano in modo irregolare o al soldo della criminalità, in parte sono transitati in altri paesi europei, da cui, in base alle assurde regole europee, possono essere rimandati nel paese di prima accoglienza, tipicamente l’Italia. E’ questa la vera perdurante emergenza, rispetto alla quale anche Salvini non è riuscito a far nulla.

Vorrei ricordare che il tasso di criminalità relativo dei migranti è 4 in Europa e oltre 6 in Italia, ma supera 20 (e addirittura 30 secondo alcune stime) per i migranti irregolari in Italia. In concreto questo vuol dire che ci vogliono 20 o 30 italiani per fare altrettanto danno di quello che fa 1 solo migrante irregolare.

A proposito della capacità salviniana di cavalcare l’emergenza che non c’è, Marco Minniti ha parlato di “strategia della tensione comunicativa”.

Ha ragione, la Lega aumenta le paure dei cittadini. Ma si potrebbe ribattere che la sinistra ha passato gli ultimi tre decenni a smontare paure perfettamente giustificate, attuando una sorta di “strategia della DIStensione comunicativa”. Non so chi sia da biasimare di più. L’ira popolare contro il Pd è anche figlia del negazionismo della sinistra, che per anni e anni si è rifiutata di “vedere” quel che pure aveva sotto gli occhi.

Le piace il modello australiano del “no Way”?

Non ne conosco i dettagli, ma vorrei dire una cosa di mero buon senso storico in proposito. Noi europei illuminati accusiamo di razzismo, disumanità, xenofobia qualsiasi Stato che, in una forma o nell’altra, schieri l’esercito ai propri confini, impedendo l’entrata illegale sul suo territorio. Ma questo è semplicemente normale, è quello che da che mondo è mondo gli Stati e gli imperi hanno sempre fatto, contro ogni tipo di ingresso irregolare. I confini e le dogane servono a questo, a proteggere un territorio. Su questo l’Europa ha preso un incredibile abbaglio logico: prima abbiamo fatto cadere i dazi interni (fra aree del Paese), poi abbiamo fatto cadere le barriere commerciali fra Stati europei (mercato comune), poi con Schengen abbiamo consentito la circolazione delle persone nello spazio europeo. Infine, abituatici all’idea che chiunque può andare dove vuole, non ce la siamo sentita di difendere sul serio le frontiere dell’Europa, quasi che il confine Italia-Africa fosse assimilabile a quello fra Belgio e Olanda.

Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

A mio parere, la strada giusta non è chiudersi dentro la “fortezza Europa” e non accettare più uno straniero, ma garantire che gli ingressi siano esclusivamente legali, attraverso i corridoi umanitari e un afflusso controllato di migranti economici.

Da uno studio dell’istituto Cattaneo, emerge che per il 70 percento degli italiani gli immigrati presenti sul territorio nazionale sarebbero quattro volte quelli effettivi (circa il 7% della popolazione).

Ma lo sa l’Istituto Cattaneo che la maggior parte degli intervistati non fa di mestiere né lo statistico né lo scienziato sociale?

Lo sa che le credenze numeriche dei cittadini sono QUASI SEMPRE sbagliate, in qualsiasi campo le si indaghi? Se da un sondaggio venisse fuori che la maggior parte degli italiani pensa che i morti sul lavoro siano più di 5000 all’anno, anziché 1000 come effettivamente sono, che cosa ne dedurremmo? Credo che ci limiteremmo a dire che gli italiani sono preoccupati per la sicurezza sui posti di lavoro, e non ci azzarderemmo certo ad accusare i sindacalisti di essere “imprenditori della paura”…

Sulla vicenda della capotreno di Trenord che ha pronunciato parole irripetibili a proposito degli zingari lei ha detto che, al di là della forma, il senso dell’annuncio era sensato.

Lo ribadisco. Chiunque non viaggi in business class o con l’auto di servizio, e sia costretto a prendere treni locali, conosce perfettamente lo stato d’animo di esasperazione, impotenza, e anche di umiliazione, che nella gente normale suscita l’anarchia sui treni presi d’assalto da bande di passeggeri non-paganti, non importa se costituite da tifosi, bagnanti, gang giovanili, questuanti, zingari, o qualsiasi altro gruppo di persone che semplicemente se ne infischia delle regole. La cosa curiosa è che chi reagisce al mancato rispetto delle regole viene accusato di razzismo, xenofobia, intolleranza del diverso, e chi si proclama civile e “umano” se la prende con chi reagisce, anziché con chi viola le regole del vivere civile.

Perchè nella sinistra progressista l’ideologia sembra prevalere ancora sul senso comune? Perchè la sinistra, e i suoi rappresentanti, paiono così distanti dalla “gente”?

Non “paiono”, lo sono proprio, forse irrimediabilmente. Pur avendo, come sociologo, studiato il fenomeno, confesso che l’incapacità della sinistra di osservare la realtà con distacco conserva per me qualcosa di misterioso, quasi fosse un difetto genetico. La persona di sinistra tipica, che sia un politico o semplicemente un simpatizzante impegnato, si distingue per la sua completa mancanza di curiosità per il diverso (a meno che sia esotico), e per l’ostinazione con cui – in qualsiasi situazione – cerca solo ed esclusivamente la conferma della giustezza delle proprie convinzioni. Sul piano psicologico credo che il meccanismo sia chiaro: il militante di sinistra si nutre di autostima, e ha quindi un continuo insaziabile bisogno di conferme di essere nel giusto o, come ama dire, di rappresentare “la parte migliore del Paese”. Perché non riesca a liberarsi di questa sindrome, tuttavia, non arrivo a comprenderlo, visto che l’auto-accecamento ideologico è per lo più controproducente.

Alle volte, come direbbe Altan, mi vengono idee che non condivido, ad esempio questa: forse è di destra semplicemente chi non ha un grave deficit di autostima, e può quindi permettersi di reggere il disprezzo dei benpensanti.

Dalle statistiche del prof Barbagli, emerge che gli immigrati commettono alcuni reati (furti, borseggi etc) in percentuale maggiore degli italiani. Ma dirlo è indice di razzismo.

Barbagli è uno dei pochissimi sociologi di sinistra in cui la curiosità scientifica prevale sulla volontà di dimostrare una tesi politica formulata a priori, ossia prima di vedere i dati. E lo è da sempre. E’ lui che ha scritto Immigrazione e criminalità in Italia, un libro di vent’anni fa che squarciava il velo. Ma quasi nessuno, a sinistra, volle accettare quei dati, perché riconoscerli avrebbe fatto crollare il mito della intrinseca bontà del fenomeno migratorio.

La cultura di sinistra in Italia fornisce la più impressionate conferma empirica della teoria della riduzione della dissonanza cognitiva, formulata dal grande psicologo sociale Leon Festinger nel 1957: quando la realtà smentisce le nostre credenze non cambiamo le credenze, ma cerchiamo di reinterpretare la realtà per rimetterla d’accordo con le credenze che ci fanno stare bene. Negando i dati, o ignorandoli, naturalmente.

Dal 2013 sono arrivati in Italia 700mila migranti, attualmente si contano 135mila ricorsi per richieste d’asilo. Qualcuno si domanda dove siano finiti tutti gli altri…I più hanno usato l’Italia come terra di passaggio per spostarsi in nord Europa. Chi rimane da noi di solito entra nell’economia illegale. Ma se lo dici sei razzista.

Esatto, è in questo senso che dicevo che non è vero che l’emergenza sia finita. L’emergenza sono le legioni di irregolari in Europa, che circolano senza averne diritto. Nessuno sa esattamente quanti siano, ma un rapido conto con i pochi dati disponibili suggerisce che non possano essere meno di un milione di persone.

Lei crede alla storia che gli italiani siano diventati razzisti?

Come studioso provo imbarazzo nel vedere tanti colleghi dare credito a questa tesi, che indubbiamente ha un’utilità politica, ma è priva di sostegno empirico. La tesi dell’italiano diventato razzista si basa su un errore logico. Dal fatto che si osino esprimere sentimenti di ostilità verso gli immigrati si deduce un cambiamento degli atteggiamenti di fondo degli italiani. Non si vuole capire che quel che è successo è molto più semplice: nel clima precedente all’avvento di questo governo, certe idee non potevano essere espresse per timore di essere stigmatizzati dalla cultura dominante cattolico-democratica-accogliente, mentre ora trovano libero corso perché esistono un governo e una maggioranza che le sostengono.

In breve, gli italiani ieri come oggi non sono razzisti, ma semplicemente ostili all’immigrazione incontrollata, perché ne vedono le conseguenze, nei quartieri popolari, nelle scuole, presso le ASL. La differenza è che ieri tacevano intimiditi dal clima dominante, ora si sentono più liberi di dire la loro. Il meccanismo è lo stesso di 25 anni fa, quando vinse Berlusconi: la maggioranza degli italiani è sempre stata cauta e conservatrice, ma solo dopo il 1994 è diventato relativamente facile dichiararsi “di destra”.

E’ sempre il medesimo errore, che si ripete eguale a sé stesso. Quando perdono le elezioni, i progressisti credono che gli italiani siano cambiati, e siano improvvisamente diventati nostalgici, fascisti, xenofobi, razzisti, mentre quel che accade è molto più elementare: in certi momenti l’egemonia culturale della sinistra si allenta, e quindi gli italiani si sentono liberi di dire quel che pensano. Non è bello, ma è tutto qui. Siamo un popolo fondamentalmente conservatore e acquiescente, che ogni tanto – quando il costo dell’esternazione si abbassa – rivela quel che pensa

Perchè, se tutte le statistiche confermano il calo dei reati, le persone si sentono più insicure?

Per vari motivi, ma forse due sono più importanti degli altri. Il primo è che fa parte della modernità (e del welfare stesso!) uno spettacolare, talora ossessivo ed eccessivo, aumento degli standard di sicurezza. Se la televisione ti terrorizza persino per le tue placche dentarie, è logico che tu ti preoccupi ancora di più di non essere derubata, picchiata, violentata, accoltellata per strada o all’uscita da una discoteca. Il secondo motivo è l’ineccepibile teorema-Serracchiani: se a farti del male è un ospite, che noi abbiamo salvato in mare, rifocillato e accolto, hai tutto il diritto di indignarti molto di più.

Non trova paradossale che si accusino, a ragione, gli “impresari della paura” quando cavalcano emergenze inesistenti come l’invasione straniera mentre c’è una forma di sudditanza verso chi agita l’emergenza femminicidio, anch’essa smentita dai numeri.

Sì, è paradossale ma è la norma. Fra le ineguaglianze del nostro mondo c’è anche il trattamento discriminatorio cui vengono sottoposte alcune delle “buone cause”, a fronte del trattamento privilegiato riservato ad altre. Ci sono in giro per il mondo decine di migliaia di buone cause, ma solo alcune ricevono supporto finanziario e adeguato sostegno morale. Nessuno si impegnerebbe per la causa delle nonne non autosufficienti, ma il salvataggio di una specie rara di volatili in Amazzonia può ricevere milioni di like. Così è per i temi politici: la nostra è una cultura dei diritti di alcune specifiche minoranze (o presunte tali: le donne sono maggioranza…), che però diventa completamente muta di fronte ai diritti meno glamour (ad esempio che i ponti e le scuole non crollino, o che le case popolari siano occupate da abusivi).

Mentre sulla nave Diciotti si consuma un braccio di ferro con decine di persone ammassate per giorni, e due soli bagni in uso, Matteo Renzi è impegnato nelle riprese del programma tv sulle bellezze di Firenze.

Mi sembra una fotografia perfetta del ragazzo di Rignano.

Qual è il suo giudizio su Renzi? Lei vede leadership alternative emergenti? A ottobre ci sarà la Leopolda: lei parteciperebbe nelle vesti di sociologo per parlare di immigrazione e dintorni?

Sulla mia partecipazione, mai dire mai. Però tenga presente che, almeno finora, la sinistra – cui pure appartengo – mi ha sempre considerato radioattivo, e tenuto rigorosamente fuori del suo circuito.

Quanto a Renzi, sono fra gli ingenui che ha fatto la coda alle primarie per fargli vincere la partita con Bersani. Il mio giudizio è lo stesso che i cinesi danno su Mao Tse Tung (o come diavolo si scrive oggi): “70% giusto, 30% sbagliato”.

Oggi non lo rivoterei, non per gli errori che ha commesso, ma perché non li ha riconosciuti, quando farlo sarebbe stato utilissimo e salvifico per il Pd. Detto questo, non vedo leader più validi di lui, se a un leader si chiede anche energia e capacità di entrare in sintonia con i cittadini. Calenda e Minniti sono ottimi, ma non mi sembrano avere la stoffa del leader. Cuperlo, di cui ho grandissima stima, è un intellettuale del Novecento (anzi dell’Ottocento, se badiamo alla cortesia e alla signorilità dei modi). Zingaretti è solo un Bersani più giovane. Umanamente il mio preferito è Richetti, ma non so se abbia la stoffa del leader.

Veniamo ai temi economici. Lei ha criticato il decreto dignità. Adesso, dopo il crollo di ponte Morandi, il vicepremier Di Maio annuncia che il governo procederà alla revisione delle concessioni, e che alternativamente si procederà a nazionalizzazioni o a modifica delle clausole contrattuali…Certo, messa così, fa un po’ paura. (effetto sugli investitori, è bene tornare allo stato padrone? Etc)

No, tornare allo Stato padrone è una pessima idea. Ma rinunciare alla vigilanza, al controllo, alla trasparenza, come finora tutti i governi hanno fatto, è forse anche peggio.

In due mesi gli investitori esteri hanno ridotto l’esposizione sull’Italia per oltre 70 miliardi di euro. Ora l’Italia guarda anche alla Cina come possibile finanziatore del debito pubblico. Ma Di Maio ha rassicurato tutti dicendo che è “allarmismo infondato” e che il governo punterà sul “contatto diretto” con gli investitori.

Spero che Di Maio, quando dice queste stupidaggini, poi si faccia una risata davanti allo specchio. Se invece prende sul serio quel che dice, la situazione può diventare molto pericolosa.

Lei crede alla tesi del “complotto” dei mercati? Si evocano da più parti i “poteri forti” che non vorrebbero questo governo…

La tesi del complotto non regge, perché i mercati (cioè gli investitori) si preoccupano solo di far soldi, non certo di rovesciare i governi. Quel che c’è di vero, però, nella visione paranoide del ruolo dei mercati, è che può accadere che i mercati scommettano al ribasso su un paese, trascinandolo nel baratro. E’ successo nel 2011, anche perché parte dell’establishment europeo puntava sulla caduta del governo Berlusconi, potrebbe benissimo risuccedere oggi.

L’Ocse certifica che l’Italia è l’unico paese del G7 dove la crescita economica rallenta. Forse si stanno realizzando i sogni grillini di “decrescita”..Lei prevede che sarebbe una decrescita “felice” à la Latouche?

La “decrescita infelice” l’abbiamo già avuta nel 2008-2014. Da questo governo io non mi aspetto decrescita, ma un tonfo, se Tria e Mattarella non ce la fanno a fermare i due scavezzacolli.

Da dove dovrebbe ripartire, secondo lei, l’alternativa al fronte populista? Dall’europeismo? Dal lavoro? …Giuliano Ferrara dice che i sovranisti vanno contrastati non per quello che fanno, ma per quello che sono. Si riferisce all’idea dei muri, dell’antiglobalismo, delle paure infondate etc

Non credo che, oggi come oggi, uno schieramento pro-Europa abbia molte possibilità di successo, chiunque lo guidi. Dire che “ci vuole più Europa” è stato uno sbaglio enorme, quando i difetti dell’Unione europea erano sotto gli occhi di tutti da almeno 3 legislature. Basterebbe rileggere (anzi leggere, perché sicuramente a sinistra non l’hanno letto) Rischi fatali, la spietata analisi dell’Europa che Giulio Tremonti fece all’inizio della legislatura 2004-2009.

Per me demonizzare il cosiddetto sovranismo è una sciocchezza, che potrà portare solo a una Caporetto politica del “fronte democratico”, o come diavolo vorranno chiamarlo. La critica dell’Europa non può essere monopolio del fronte populista, ma andrebbe sostanzialmente condivisa. Dovrebbe essere un presupposto comune di tutte le forze politiche, come la democrazia è stata l’orizzonte comune di destra e sinistra. L’Europa ha portato alcuni vantaggi, ma politicamente ha fallito. Se non si riconosce questo, se ci si trincera dietro la stanca retorica del “sogno europeo”, si consegna l’Europa ai suoi nemici.

Una volta accettato che TUTTI siamo profondamente scontenti dell’Europa, e che su tante cose i populisti hanno le loro ragioni, si può cominciare a spiegare – se ci si riesce – dove e perché le loro non sono le soluzioni ottimali. Che esistono soluzioni migliori. E che certi rischi, primo fra tutti il collasso dell’euro, non li vogliamo correre.

Intervista a cura di Annalisa Chirico pubblicata su Il Foglio del 7 settembre 2018