Boomerang elettorale?
Hanno fatto un certo scalpore, nei giorni scorsi, domande e risposte transitate sul sito dell’Inps a proposito del cosiddetto reddito di cittadinanza. La vicenda ha indubbiamente un lato folcloristico, visto il tenore di certe domande e delle relative risposte, ma anche il tono dei commenti che certi dialoghi hanno suscitato sui social. Pare che alcuni addetti Inps alla comunicazione si siano presi qualche libertà, prima fra tutte quella di non comunicare in burocratese e quella di rispondere senza salamelecchi. Chi si rivolge all’Inps con un italiano imbarazzante, chi sa navigare sui social per intrattenimento ma per acquisire una password pretende di essere assistito, chi chiede come ottenere il reddito di cittadinanza per il figlio che lavora in nero, ha ricevuto risposte che, a seconda dei punti di vista, possono essere considerate offensive o sacrosante (per me sacrosante, secondo l’Inps offensive: ha già chiesto scusa).
Al di là del folclore, tuttavia, c’è pure un lato serio. Questi primi giorni di interazione Inps-cittadini hanno fatto emergere anche molta delusione, specialmente in due casi: quello in cui la domanda non è stata accettata, e quello in cui la domanda è stata accettata, ma la cifra erogata è risultata molto inferiore alle aspettative (poche decine di euro, anziché il vagheggiato sussidio di 780 euro al mese).
Forse è presto per capire con esattezza a che cosa si deve questa partenza frenata del sussidio, ma è difficile non rilevare che c’è qualcosa che non va. Sono anni che l’Istat ci informa che la povertà assoluta coinvolge più di 1 milione e mezzo di famiglie, in cui vivono circa 5 milioni di persone. Come mai, a fronte di queste cifre, le domande finora presentate sono solo 800 mila e quelle accolte sono meno di 500 mila?
Una prima ragione è sicuramente il fatto che circa 1 povero su 3 non è cittadino italiano, e la legge pone condizioni di accesso piuttosto severe agli stranieri. Una seconda ragione è che la misura è appena partita, ed è possibile che una parte degli aventi diritto abbia deciso di fare domanda in un secondo tempo (ma perché? non è chiarissimo). Una terza ragione potrebbe essere che il numero di poveri effettivo sia sensibilmente minore di quello stimato dall’Istat, soprattutto a causa del lavoro nero. Dal momento che la legge prevede il carcere per chi usufruisce del reddito e lavora in nero, non si può escludere che molti disoccupati che lavorano in nero, prima di fare domanda attendano di capire se ci saranno controlli o se, come è assai più probabile, i controlli saranno così pochi da rendere trascurabile il rischio di essere scoperti.
Quel che si può dire fin d’ora, però, è che questa partenza lenta e un po’ contrastata del sussidio targato Cinque Stelle potrebbe produrre qualche conseguenza non prevista, sia in ambito economico sia in ambito elettorale.
Sul piano economico, il fatto che il numero di domande accolte possa essere sensibilmente inferiore al previsto potrebbe dare un po’ di sollievo ai conti pubblici, ridimensionando le preoccupazioni (e le critiche) delle opposizioni.
Sul piano politico, il fatto che, prima delle Europee, la platea dei beneficiari effettivi possa risultare molto più ristretta di quanto si pensava, e che molti si siano vista respingere la domanda, potrebbe rendere il risultato elettorale dei Cinque Stelle particolarmente deludente, o addirittura trasformare l’arma del “reddito di cittadinanza” in un boomerang elettorale.
Ma la conseguenza più importante potrebbe essere di tipo sociale. Se fossero numerosi i casi in cui il reddito di cittadinanza viene percepito ma non è dovuto, e inoltre non risultasse possibile occultarli, l’introduzione di questa misura, pensata in chiave essenzialmente solidaristica, potrebbe avere conseguenze paradossali. Anziché rafforzare la coesione sociale, il sussidio potrebbe attivare sentimenti di frustrazione e di invidia sociale, l’esatto contrario di quanto si propone. Chi campa con un reddito modesto, e osserva il vicino che lavora in nero, difficilmente potrà sopportare che quest’ultimo lo cumuli con il reddito di cittadinanza.
Possiamo pensare, naturalmente, che i casi in cui si accede al reddito in base a false autocertificazioni saranno pochissimi, e che la maggior parte degli italiani facciano dichiarazioni veritiere. Purtroppo nelle occasioni in cui sono stati fatti controlli a campione (penso, in particolare, alle autocertificazioni per le tasse universitarie e i ticket ospedalieri) il verdetto è stato un altro: le false dichiarazioni non sono mai risultate una piccola percentuale, e in diversi casi hanno coinvolto da un terzo alla metà dei casi. E questo per l’ottimo motivo che i controlli sono così rari, e le sanzioni così raramente irrogate, che i cittadini sanno perfettamente di non correre alcun reale pericolo dichiarando il falso, o stiracchiando a proprio vantaggio la verità.
C’è solo da sperare che, con un governo che si proclama “del cambiamento”, questa volta le cose vadano diversamente.