Opinione pubblica e politica. L’intervista a Luca Ricolfi

Un prete sardo solleva il velo sul conformismo: l’accoglienza, così come la stiamo vivendo in Italia non funziona, è senza regole. E’ solo buonsenso o c’è qualcosa di più?

È solo buon senso, niente di più e niente di meno.

Sulla Rete il 90% è d’accordo con il prete di Nuoro. Significa che l’opinione pubblica vede più lontano dei partiti della sinistra e dei cardinali?

Non direi che l’opinione pubblica vede “più lontano”. Direi semplicemente che vede. Il fatto è che, negli ultimi tempi, l’opinione pubblica è sempre più spaccata: c’è chi vede, perché utilizza il senso comune; e c’è chi non vede, perché usa le lenti dell’ideologia.

Lei dice: per la cultura progressista, la paura non è semplicemente infondata, è una colpa. Cosa significa, colpa nostra?

Sì, molti sedicenti progressisti usano l’espressione xenofobia (che viene dal greco, e significa solo paura dello straniero), come sinonimo di razzismo. Di qui il sillogismo: hai paura dello straniero, dunque sei razzista; ma il razzismo è una colpa; quindi devi vergognarti dei tuoi sentimenti.

È triste, perché significa che non siamo in tempi di libertà. In una società libera si possono discutere o stigmatizzare i comportamenti, non i sentimenti.

Per questo, per sottolineare quanto sia importante la libertà di sentire, come Fondazione David Hume, abbiamo adottato come motto questa frase di Tacito: “Felici i tempi in cui puoi provare i sentimenti che vuoi, e ti è lecito dire i sentimenti che provi”.

Come si può offrire protezione a chi teme di essere aggredito dall’immigrato, di perdere il lavoro perché ci sono loro che lo offrono a basso prezzo, di subire attentati da islamici radicali?

Distinguerei. Sugli attentati, islamici o no, non ci sono rimedi sicuri: fornire protezione è praticamente impossibile.  

Diverso il discorso sulla concorrenza lavorativa e sui rischi di aggressione. In questi campi fornire protezione sarebbe possibile, ma è politicamente difficile. Per ridurre le aggressioni, sarebbe indispensabile cambiare le norme che consentono ai giudici di rimettere rapidamente in libertà chi commette reati predatori. Per ridurre la concorrenza dei lavoratori stranieri si dovrebbe sradicare il lavoro nero, una realtà che è sotto gli occhi di tutti ma che né le Forze dell’ordine né la politica intendono combattere. Ed è un peccato, perché sarebbe un modo di ridare dignità a tutti i lavoratori, senza distinzione fra italiani e stranieri.

Nel suo libro ‘Sinistra e popolo’ (Longanesi 2017) lei parla di un divorzio in corso tra la sinistra e il suo elettorato. Non è troppo severo, non crede che gli elettori del Pd invece lo vogliono lo Ius Soli o l’accoglienza diffusa?

Certo, la maggioranza degli elettori del Pd vuole lo Ius Soli, e spesso anche l’accoglienza. Il problema è che queste due cose non le vogliono i ceti popolari. Che infatti preferiscono guardare ai partiti del Centro-destra e al Movimento Cinque Stelle.

Professore, lei dice di aver stima di Minniti. Non crede che la sua azione contro l’immigrazione disordinata possa far recuperare voti al Pd e alla sinistra?

Sì e no. Certo, la politica di Minniti può frenare la fuga dei ceti popolari dal Pd, ma può anche convincere una parte dei ceti medi e della sinistra radical chic a votare la Sinistra Purosangue, ovvero uno degli innumerevoli cespugli alla sinistra del Pd.

Intervista a cura di Nino Femiani apparsa su Il Resto del Carlino

 




Immigrazione: I dilemmi dell’asilo politico

Dal gennaio 2014 all’agosto 2017, l’Italia ha registrato l’arrivo di 605.147 immigrati giunti attraverso la rotta del Mediterraneo Centrale (sul tema “sbarchi”, vedi anche la scheda a cura di Rossana Cima). Il marcato incremento degli arrivi ha portato, nello stesso periodo, ad un’impennata nel numero di richieste di asilo politico presentate in Italia. La figura 1 mostra il numero di richieste di asilo dal 1990 al 2016.

Figura 1. Richieste di asilo politico (persone, 1990 – 2016)
Fonte: Ministero dell’Interno

Gli ultimi tre anni, 2014-2016, hanno fatto registrare 271.026 richieste di asilo mentre il totale dei 24 anni precedenti è stato di 370.294 (il 2016, da solo, rappresenta un quarto delle richieste di asilo presentate in Italia dal 1990). L’apertura degli hot spot per l’identificazione degli immigrati e l’introduzione di stringenti controlli di frontiera da parte dei paesi europei confinanti, anche se membri dell’area Schengen, ha fatto sì che l’Italia sia sempre meno un paese di transito e sempre più un paese di destinazione. Il rapporto richiedenti asilo/migranti sbarcati era dello 0.37 nel 2014 per poi salire allo 0.55 nel 2015 e infine 0.68 nel 2016. E’ probabile che questo rapporto aumenti ulteriormente nel 2017. Quale è stato l’esito di queste richieste di asilo?

Tabella 1. Esiti domande di asilo politico, anni 2014-2016.
Fonte: Elaborazione su dati Ministero dell’Interno. Nota: (*) esaminati nell’anno indipendentemente dalla data di richiesta asilo.

La tabella mostra che solamente nel 6% dei casi viene effettivamente riconosciuto lo status di rifugiato. Una larga parte dei richiedenti riceve altre forme di protezione e con esse il permesso di risiedere in Italia: al 15,8% dei richiedenti è stata riconosciuta la protezione sussidiaria e al 22,6% la protezione umanitaria. La protezione sussidiaria è uno status molto simile a quello di rifugiato e da’ diritto ad un permesso di soggiorno di durata quinquennale (rinnovabile), consente l’accesso allo studio e alla formazione, e allo svolgimento di una attività lavorativa. La protezione umanitaria offre le stesse possibilità, ma con un orizzonte temporale decisamente più ristretto: nei fatti, da sei mesi a due anni. Complessivamente, per ogni cento richiedenti asilo, solamente 44 ottengono il permesso di risiedere e lavorare in Italia (22 ricevono un permesso della durata di cinque anni, ossia l’orizzonte temporale più consono per favorire l’inserimento nella società italiana e una piena integrazione).

I dati del periodo 2014-2016 mostrano, quindi, che la maggioranza dei richiedenti asilo (56 su cento) vede la propria domanda rifiutata, e con essa la possibilità di vivere e lavorare legalmente in Italia (le persone a cui la domanda di asilo è stata rifiutata vengono definite in gergo i “diniegati”). Questa quota è in aumento: nel 2016, sei domande su 10 sono state bocciate. E questo, a mio avviso, costituisce un serio problema che richiede una risposta politica in tempi brevi.

I “diniegati” perdono la possibilità di risiedere e lavorare legalmente in Italia, spesso dopo un iter di 1-2 anni. A questo punto – per definizione – le uniche opportunità di lavoro saranno di tipo informale o illegale. E questo, ovviamente, porta ad ulteriori problemi di ordine pubblico. Inoltre, per molti richiedenti asilo, lo stato italiano ha già speso risorse per la formazione, l’insegnamento della lingua italiana e, talvolta, l’inserimento in percorsi lavorativi in attesa della decisione finale sul loro status giuridico. Quale risposta adottare, quindi, per affrontare il problema dei 100,000+ “diniegati”? La decisione, ovviamente, spetta alla politica, ma vale la pena ricordare qui alcuni elementi utili.

Il primo: i dati presentati mostrano i limiti di una procedura largamente basata sull’asilo politico come strumento per la gestione dei flussi migratori. In una situazione come quella italiana, in cui le risorse sono estremamente scarse, mi pare che questo sistema porti ad una allocazione di tali risorse decisamente sub-ottimale (si pensi dal 60% di dinieghi registrati nel 2016 spesso dopo un lungo iter burocratico). Inoltre, anche nella situazione “ideal-tipica” in cui lo status di rifugiato viene conferito quasi di default – come nel caso dei profughi siriani in fuga dalla guerra – la procedura attuale comunque richiede che il profugo raggiunga una delle nazioni dell’Unione Europea per presentare la propria domanda. In questo modo si creano enormi opportunità per i gruppi criminali che organizzano i viaggi attraverso il Mediterraneo. Decisamente meglio sarebbe avere dei “corridoi umanitari” praticabili, sull’esempio di altri paesi come il Canada.  Il sistema attuale va ripensato al più presto.

Il secondo: i rimpatri forzati sono molto costosi, lenti e difficili da attuare dal punto di vista legale. Inoltre, provocano un impatto piuttosto radicale sulle vite delle persone se condotti dopo molto tempo dall’arrivo.

Il terzo: le operazioni di salvataggio in mare, che hanno fornito una risposta nobile e generosa all’emergenza sbarchi, stanno adesso dimostrando i loro limiti (tra cui la creazione di un massiccio e crescente numero di “diniegati”). L’idea europea di trasformare le operazioni Sofia e Triton in strumenti per combattere i cosiddetti “trafficanti” semplicemente non sta funzionando, e difficilmente funzionerà. La soluzione a questo riguardo è probabilmente da ricercare in politiche di terra e non navali. Un’estensione a tempo indeterminato di queste operazioni rischia di creare un sistema di incentivi perverso da cui diventa sempre più difficile uscire.

Credo che il punto tre sia la pre-condizione per attuare delle politiche che portino ad una soluzione al problema dei “diniegati” che sia, allo stesso tempo, umanitaria, efficiente dal punto di vista della risorse già impiegate e che minimizzi gli incentivi di tipo illegale. Un calo sostanziale degli arrivi può aprire la strada ad una legalizzazione di coloro che siano ancora presenti sul territorio italiano, che abbiamo seguito un percorso di formazione o inserimento lavorativo come richiedenti asilo, e che non abbiano commesso reati (ad eccezione, ovviamente, del reato di clandestinità). Una possibilità sarebbe di attuare questa legalizzazione nel contesto degli accordi di ricollocamento intra-UE: accordi che per il momento non stanno funzionando, ma che il Governo italiano potrebbe cercare di sbloccare in sede europea, anche nel contesto della discussione sulla revisione della Convenzione di Dublino sul diritto di asilo. Politicamente, questa potrebbe essere una strada molto difficile da percorrere. Ma il costo politico dell’inerzia potrebbe essere ugualmente elevato.




Selezionare i migranti per contrastare la povertà

A seconda di come la si guarda, la storia economica di questi ultimi 10 anni si presenta con due facce opposte.

Il dato più confortante, a mio parere, è che nel corso del 2107, finalmente, la percentuale di famiglie in difficoltà è finalmente scesa più o meno al livello del 2007, ossia al livello pre-crisi. Per “famiglie in difficoltà” non intendo le famiglie povere (qualsiasi cosa si intenda per povero) bensì le famiglie che, alla fine del mese, sono costrette ad attingere ai risparmi o fare debiti. Questo insieme di famiglie, che storicamente si colloca fra il 10 e il 15% del totale, aveva raggiunto la cifra record del 30-35% nella fase acuta della crisi (2012-2013), ma dal 2014 è costantemente e regolarmente diminuito, fino a dimezzarsi rispetto al picco del biennio 2012-2013: oggi sono circa il 15% del totale, 1 famiglia su 7.

A questa recente diminuzione hanno contributo, a mio parere, soprattutto tre fattori. Il primo è la ripresa del Pil. Il secondo è la politica dei bonus (80 euro e incentivi alle assunzioni). Il terzo è l’accresciuta capacità delle famiglie di fronteggiare la diminuzione del potere di acquisto sfruttando la moltiplicazione delle promozioni e delle offerte di prodotti gratuiti (o apparentemente gratuiti). Quest’ultimo fattore può apparire marginale, o strano, ma lo è meno di quel che sembra se riflettiamo sul fatto che il peso delle famiglie che quadrano il bilancio, o addirittura risparmiano, è tornato ad essere quello di 10 anni fa, mentre il potere di acquisto pro capite è ancora abbondantemente al di sotto dei livelli pre-crisi (-10%). Forse a fronte di un minore potere di acquisto teorico (quello calcolato dall’Istat), le famiglie hanno messo in campo strategie di spesa più attente e sofisticate.

Tutto bene dunque, almeno dal punto di vista delle famiglie?

Non esattamente. Accanto a questo dato positivo, infatti, ve n’è un altro che appare di segno opposto: il numero dei poveri è aumentato. Per l’esattezza è quasi triplicato in 9 anni, dal 2007 al 2016. E anche negli ultimi 3-4 anni, con la ripresa del Pil e dell’occupazione, ha continuato ad aumentare, sia pure di poco. Nel 2007 gli individui che vivevano in povertà erano meno di 2 milioni, oggi sfiorano i 5: come è possibile, visto che la percentuale di famiglie in difficoltà è tornata ai livelli pre-crisi?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima di tutto sgomberare il campo da un dubbio: per poveri intendiamo i poveri veri e propri, ossia coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia di sussistenza (definita dall’Istat), e non una delle numerose definizioni allargate di povertà, quelle che – secondo Kenneth Minogue – i governanti continuamente producono per giustificare il proprio ruolo, ovvero il crescente intervento dello Stato per combattere la povertà stessa (Breve introduzione alla politica, IBL Libri 2014).

Dunque i poveri, i veri poveri, sono molti di più di 10 anni fa, e sono (leggermente) aumentati anche mentre il numero di famiglie in difficoltà diminuiva. Come è possibile?

Una prima risposta è che, se quasi tutte le famiglie povere risultano in difficoltà, non tutte le famiglie in difficoltà sono povere: una parte non è affatto povera, semplicemente spende più di quel che guadagna. E’ questo, verosimilmente, il segmento sociale che più ha beneficiato della ripresa e della politica dei bonus, una politica che ha lasciato a bocca asciutta i veri poveri, ovvero quanti, o perché inoccupati, o perché disoccupati, o perché occupati precari, irregolari o a basso reddito, non guadagnavano abbastanza per pagare le tasse e quindi usufruire del bonus (che, lo ricordiamo, non è un assegno, ma uno sgravio fiscale).

C’è però anche una seconda risposta possibile, forse più inquietante. Se andiamo a vedere chi sono i poveri oggi in Italia, scopriamo che quasi il 40% di essi sono stranieri, e che negli ultimi 4 anni questa quota è molto aumentata (prima del 2013, sfortunatamente, mancano i dati). Se poi andiamo a vedere come è cambiato il tasso di occupazione negli anni della crisi, scopriamo che quello degli italiani è diminuito, ma quello degli stranieri ha subito un vero e proprio crollo, molto più accentuato di quello degli italiani. In poche parole: l’aumento della povertà negli ultimi anni è interamente dovuto alla componente straniera, mentre la componente italiana è in sia pur lenta diminuzione. Ed è forse significativo che questo aumento del numero di stranieri poveri si sia prodotto negli ultimi 4 anni, ossia proprio nel periodo che ha visto un flusso senza precedenti di richiedenti asilo e migranti economici, con strutture di accoglienza chiaramente non all’altezza della situazione.

Difficile sottovalutare l’importanza di questi dati in vista delle prossime elezioni, in cui certamente temi come le politiche di contrasto alla povertà e il reddito di cittadinanza la faranno da padroni. Da questa analisi è infatti possibile trarre due ordini di conclusioni opposte.

Per alcuni l’aumento degli stranieri poveri dimostra soltanto che l’accoglienza non funziona se non è accompagnata da politiche di integrazione e di inserimento dei migranti.

Per altri dimostra invece che l’accoglienza genera povertà, e che le future politiche di sostegno del reddito rischiano di dirottare la maggior parte delle risorse sugli immigrati, a tutto discapito dei cittadini italiani.

Comunque la si pensi, una cosa è certa: dopo 10 anni di crisi, il problema della povertà e quello dell’immigrazione non possono più essere tenuti distinti. Di qui un dilemma, su cui gli elettori saranno chiamati a scegliere: o mobilitare sempre maggiori risorse pubbliche per sostenere il reddito degli immigrati poveri, o rendere molto più selettive le politiche di accoglienza, chiudendo le porte a chi non è in grado di sostentarsi.

Pubblicato da Il Messaggero




Gli sbarchi in Italia

Continuano a diminuire gli sbarchi in Italia. Anche agosto si chiude con un segno meno, confermando quell’inversione di tendenza iniziata circa due mesi fa. Sono infatti meno di 4mila (3.906) i migranti giunti nel nostro paese nell’ultimo mese contro i circa 21mila di un anno fa (agosto 2016). 

E proprio grazie a questo calo che ha caratterizzato gli ultimi mesi estivi il bilancio dei primi otto mesi dell’anno parla di una diminuzione di circa il 14%. Sono scesi a quota 99mila le persone che sono approdate sulle nostre coste, contro le 115mila del 2016 (gennio-agosto).

L’Italia rimane comunque la principale porta d’ingresso dell’Europa per chi sceglie la rotta del mediterraneo. Gli arrivi (via mare) in Grecia sono decisamente crollati dopo il discusso accordo fra Ue e Turchia. Quelli sulle coste spagnole, nonostante l’ aumentato registrato nell’ultimo periodo, rimangono decisamente contenuti (15.308 arrivi di cui 10.886 via mare nel 2017 secondo i dati Unhcr) se paragonati a quelli registrati in Italia. Dei circa 125mila i migranti che dall’inizio dell’anno (al 31 agosto 2017) hanno attraversando il Mediterraneo per raggiungere in Europa, l’80% ha scelto di raggiungere il nostro paese.

Arrivano principalmente da Nigeria, Guinea, Bangladesh o dalla Costa d’Avorio per approdare soprattutto nei porti siciliani come quelli di Augusta, Catania e Pozzallo.

Qui di seguito presentiamo in un modo più dettagliato la situazione in Italia.




Quel diritto alla paura ignorato dalla sinistra

Sul problema degli stranieri i dati sembrano raccontare due storie alquanto diverse. Due storie, è bene dirlo subito, entrambe sostanzialmente veritiere.

La prima storia dice che gli stranieri, anche quando sono regolari, delinquono molto più dei nativi, in Italia come nel resto d’Europa (eccetto Irlanda e Lettonia). Su questo l’evidenza empirica prodotta indipendentemente (e con metodi in parte diversi) dagli studi di Luigi Solivetti e dai dossier della Fondazione David Hume è schiacciante: in Europa gli stranieri delinquono 4 volte più dei nativi, in Italia 6 volte. Nessuno sa, per mancanza di dati, il valore esatto del tasso di criminalità relativo degli stranieri irregolari, ma una stima di larga massima suggerisce che sia 30 volte quello degli italiani, e 10 volte quello degli stranieri regolari.

La seconda storia dice che, da un paio di anni, la maggior parte dei delitti, compresi quelli di grave allarme sociale, sono in diminuzione, in controtendenza rispetto alle percezioni del pubblico, che manifesta invece una crescente preoccupazione per la criminalità, specie se i reati sono efferati e gli autori dei crimini sono stranieri. Il tasso di criminalità relativo è più basso di quello di 10 anni fa. I media, specie la tv, dedicano uno spazio sproporzionato (rispetto a quello di altri paesi) ai fatti di cronaca nera. Quanto alla presenza degli immigrati nella società italiana, da anni tutte le rilevazioni demoscopiche mostrano che sia la presenza degli stranieri, sia la percentuale di immigrati musulmani, sono sovrastimate dal pubblico.

Che il primo racconto piaccia alla destra, e il secondo alla sinistra, fa parte della fisiologia della comunicazione politica, la cui essenza non è dire il falso, ma dire solo una parte della verità. Non per nulla la formula del giuramento in tribunale non prescrive di dire la verità, ma di dire “tutta” la verità.

La vera differenza fra i due racconti sta nelle conseguenze politiche che se ne traggono. La destra usa i dati per alimentare la paura, ingigantendo i pericoli, talora anche al di là di ogni ragionevolezza. La sinistra, viceversa, usa i dati per contestare la paura, specie quella verso gli immigrati, in base alla tesi secondo cui il pubblico sopravvaluta i pericoli.

Questo modo di impostare il problema era molto diffuso già alla fine degli anni ’90 e nei primi anni ‘2000, da cui traggo questa citazione: “La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l’infondatezza” (copyright Livia Turco, ma è quel che pensavano quasi tutti a sinistra, con l’importante eccezione di Marzio Barbagli). Di qui un perdurante atteggiamento paternalistico, che contagia anche le menti più lucide e anticonformiste. In un’intervista a Repubblica di pochi giorni fa Massimo Cacciari (uno studioso con cui sono quasi sempre d’accordo) sembra pensare seriamente che, di fronte alle “menzogne della destra” la risposta delle sinistra debba essere “controbattere e razionalizzare”, “cambiare la comunicazione”, “rappresentare la questione degli immigrati in modo razionale”, “fornire dati economici”, “spiegare che non c’è un’invasione che toglie il pane alla gente”. Come se il problema fossero le “menzogne della destra” e non le paure della gente comune. Come se avere paura fosse irrazionale. Come se l’insicurezza fosse una mera percezione, che un racconto obiettivo potrebbe incaricarsi di sopprimere. Come se i dati fossero tutti e inequivocabilmente rassicuranti. Un illuminismo ingenuo sembra essersi impadronito, da almeno due decenni, della cultura di sinistra, cui non riesce proprio di prendere sul serio le paure della gente e la domanda di sicurezza che ne deriva. Eppure, pensare che i cittadini starebbero più tranquilli se solo conoscessero i dati è un non sequitur. Sarebbe come credere che, se sapessero che i morti sul lavoro sono in diminuzione, i sindacati non si preoccuperebbero più della nocività in fabbrica.

Chi ha paura di subire un furto o una violenza non è minimamente rassicurato dal fatto che questi due reati stiano diminuendo: semplicemente pensa che siano troppi (detto per inciso, non ha tutti i torti: i dati disponibili dicono che molti reati, pur in diminuzione, sono nettamente al di sopra dei livelli del 2007-2008). Chi pensa che ci siano troppi immigrati, perché li vede in coda davanti a sé in una ASL, o bighellonare presso un centro d’accoglienza, o spacciare droga sulle scale casa sua (come è capitato 20 anni fa a Italo Fontana, autore di un libro profetico sulla sordità della sinistra: Non sulle mie scale, Donzelli 2001), non si tranquillizza certo perché qualcuno gli dice che in Italia sono solo l’8%. E anche se i reati improvvisamente dimezzassero, resterebbe il fatto che il sentimento popolare non è fatto solo di paura, ma anche di indignazione. In molti casi quel che agita gli animi non è il timore di essere personalmente vittime di un crimine, ma sono le scarcerazioni facili, le pene ridotte, la sensazione di essere abbandonati e senza difesa (si pensi alle donne perseguitate da mariti o fidanzati violenti). E, nel caso degli immigrati, anche una credenza morale: l’idea che un ospite abbia uno speciale dovere di rispettare le regole.

La realtà è che la sinistra parla di xenofobia (paura dello straniero), ma la interpreta immancabilmente come xenomisia (odio per lo straniero). Ecco perché, per la cultura progressista, la paura non è semplicemente infondata, la paura è una colpa. Ma non è così, almeno dai tempi di Hobbes. La paura è il fondamento stesso del contratto sociale e dello Stato moderno, che nasce come antidoto alla sopraffazione, come superamento dello stato di natura in cui ogni uomo è “lupo” verso ogni altro uomo (homo homini lupus). Quando la paura riemerge, è perché la gente sente che lo Stato non è più in grado di far rispettare il contratto, ovvero di garantire ai cittadini il più “basico” dei beni, la sicurezza. Di fronte a questo sentimento, l’unica cosa che può attenuare la paura, e disinnescare la protesta, non è andare dai cittadini per convincerli che si stanno sbagliando, ma riconoscere il loro diritto di avere paura, e dimostrare, con i fatti, che lo Stato sta facendo tutto quanto è in suo potere per spegnerla.

Pubblicato su Il Messaggero il 9 Settembre 2017