Migranti, i soliti due errori

A dispetto dei raduni negazionisti, ultimo in ordine di tempo quello avvenuto in Senato pochi giorni fa, sono sempre meno numerose le persone che credono che l’epidemia sia un ricordo del passato, e che la situazione sia “sotto controllo”. E hanno perfettamente ragione. La curva dei contagi ha dato segni di peggioramento già a metà giugno, e settimana dopo settimana continua a darne, come da un po’ di tempo riconoscono le stesse autorità sanitarie, preoccupate che – all’improvviso – la situazione possa sfuggire di mano. Né le cose vanno meglio sul fronte ospedaliero, dove, quatti i quatti, da una settimana gli ingressi di nuovi pazienti sono tornati a superare il numero dei morti e dei dimessi.

La ragione per cui le cose non sono ancora precipitate non è, però, il buon comportamento degli italiani. La ragione vera, a mio parere, è che, in questo momento, mancano i tre propellenti fondamentali della diffusione del virus: la stagione fredda (con il suo corredo di nebbia, umidità e smog), la vita al chiuso, ma soprattutto una base di soggetti contagiosi sufficientemente ampia. Ho provato a fare una stima del numero di soggetti contagiosi nel mese di luglio e a confrontarla con quella di fine febbraio, quando l’epidemia partì senza che nessuno si fosse accorto di quel che stava accadendo. Ebbene, il confronto è impressionante: il numero di persone contagiose era, allora, circa 100 volte quello attuale (se volete gli ordini di grandezza: circa 20 mila persone a luglio, circa 2 milioni di persone a fine febbraio).

In concreto, questo significa che a febbraio, in media, incontravamo una persona contagiosa ogni 30, oggi ne incontriamo una ogni 3000. E’ questo, innanzitutto, che ci protegge, non la nostra autodisciplina.

Ma se questa, a grandi linee, è la situazione, allora il problema è di evitare che si ripeta quel che avvenne allora: e cioè che il virus circoli a lungo sottotraccia, senza che ci accorgiamo che il numero di contagiati sta crescendo vertiginosamente, salvo poi – d’improvviso – ritrovarci con gli ospedali ingorgati e le terapie intensive piene. E’ questo lo scenario verso cui ci stiamo avviando?

Per certi versi no, perché i sistemi di allerta sono oggi molto più funzionanti di 6 mesi fa, e quasi sicuramente – se le cose dovessero volgere al peggio – ce ne accorgeremmo intorno a quota 100 o 200 mila, non intorno a quota 1 o 2 milioni di infetti. Ma il punto è che sarebbe comunque troppo tardi, perché una base di 200 mila persone contagiose, in regime di relativo rilassamento, ci mette pochissimo a propagarsi e moltiplicarsi, rendendo la situazione di nuovo incontrollabile.

La domanda quindi diventa un’altra: stiamo facendo tutto il possibile per evitare che la situazione sfugga di mano?

Qui la risposta è risolutamente no. Non solo non stiamo facendo quel che occorrerebbe per limitare i rischi, ma stiamo ripetendo alcuni degli errori che abbiamo già commesso a febbraio, all’inizio dell’epidemia.

Allora commettemmo due errori fatali, che costarono migliaia di morti in più.

Il primo fu di minimizzare la gravità della situazione, e mettere il freno ai tamponi, per non danneggiare il turismo. Ve lo ricordate Luigi Di Maio che, in piena emergenza sanitaria, dichiara che “l’Italia è un paese sicuro”, e che il problema riguarda solo lo 0.1% dei comuni italiani? E Walter Ricciardi, fresco di nomina a consigliere del ministro della sanità, che critica il Veneto per i troppi tamponi, e pare preoccuparsi solo dell’immagine dell’Italia all’estero?

Il secondo errore fu di non bloccare i voli indiretti dalla Cina, e persino di incoraggiare i contatti con la comunità cinese (scuole e ristoranti), il tutto in ossequio al sacro terrore di apparire razzisti, discriminatori, o politicamente scorretti.

Ebbene oggi stiamo ripetendo, pari pari, quei due medesimi errori. Per salvare la stagione turistica, abbiamo riaperto i voli alla maggior parte dei paesi ricchi, compresi quelli più pericolosi non solo e non tanto per la diffusione del virus ma per la massa di persone intenzionate a trascorrere le vacanze in Italia. Avessimo tenuto conto del potenziale di ingressi di persone contagiose di ogni paese, avremmo dovuto mettere al primo posto della black list gli Stati Uniti, ma anche Regno Unito, Svizzera, Francia, Germania, Russia, Belgio, Israele, solo per citare alcuni dei paesi per noi più pericolosi.

E poi c’è il secondo, clamoroso, errore: gestire un’epidemia, ossia un problema sanitario, facendosi guidare dalle preoccupazioni ideologiche anziché dell’imperativo di tutelare la salute dei cittadini. Lo abbiamo commesso con la Cina a febbraio, lo ripetiamo oggi con i migranti in generale, e con gli sbarchi dall’Africa in particolare.

Non voglio qui ricordare, uno per uno, i focolai che negli ultimi 30 giorni sono scoppiati in varie comunità straniere, né riportare una per una le cifre, impressionati, della percentuale di positivi fra i migranti sbarcati dall’Africa. Mi limito a un’osservazione statistica: abbiamo (giustamente) introdotto l’obbligo di quarantena per gli ingressi dalla Romania, il cui numero di infetti è 15 volte quello dell’Italia, ma sembriamo ignorare che la percentuale media di positivi fra gli sbarcati (nei casi in cui sono stati effettuati e comunicati i risultati dei test), è del 19.1%, tra 50 e 100 volte quella di chi proviene dalla Romania. Per non parlare della politica verso la Tunisia, arditamente inclusa fra i paesi extra-Ue ed extra-Schengen da cui si può arrivare senza troppi vincoli, pur sapendo che è il paese che più di tutti alimenta gli sbarchi irregolari in Italia.

Ora che la frittata è fatta, il ministro dell’Interno Lamorgese dichiara “inaccettabili tutti questi sbarchi”, come se non vedesse il nesso fra la politica di apertura e di accoglienza fin da subito proclamata dal suo governo, e l’aumento degli sbarchi, quasi quadruplicati rispetto ai tempi di Salvini, e ora infinitamente più preoccupanti per i rischi sanitari che comportano.

Ma facciamocene una ragione. La priorità degli attuali governanti non è risolvere il problema dei flussi migratori, ma è marcare la discontinuità con il governo precedente, ripristinando la politica dell’accoglienza, cancellando i decreti sicurezza, mandando a processo chi li aveva concepiti. Che tutto ciò possa avere un prezzo, in termini di salute pubblica, di coesione sociale, se non di democrazia (come temeva Marco Minniti), a loro non sembra importare molto.

Speriamo solo che, a pagare il conto finale, non siano chiamati i cittadini italiani, quando l’epidemia dovesse rialzare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 1 agosto 2020




Il partito che non c’è

Ma chi ha vinto il match fra Renzi e Salvini, andato in onda martedì notte a “Porta a Porta”?

Se badiamo solo all’efficacia comunicativa, credo sia solo una questione di gusto, tanto diverse sono state le due prestazioni. Alla dialettica puntigliosa e sferzante di Renzi, Salvini ha risposto nel solito modo un po’ grezzo, ma tutto sommato efficace, con cui suole cercare (e ottenere) il consenso dei ceti popolari.

Ma se andiamo alla sostanza, alla forza delle argomentazioni dei due contendenti, le cose cambiano notevolmente. Nello scontro fra “i due Mattei” non è andato in scena un match unico, più o meno dominato da uno dei due contendenti, ma sono andati in scena due match distinti, uno sull’immigrazione, l’altro sulla politica economica (e in particolare su “quota cento”).

Il match sull’immigrazione lo ha nettamente vinto Salvini, quello sulla politica economica l’ha vinto nettamente Renzi. Se pareggio c’è stato, non è perché gli argomenti dei due contendenti si sono equivalsi, ma perché ciascuno di essi ha stravinto sul proprio terreno, e perso rovinosamente sul terreno altrui.

Sull’immigrazione, e in particolare sul problema degli sbarchi, Renzi ha tentato invano di far credere che la differenza fra il numero di arrivi quando governava lui (170 mila all’anno) e il numero di arrivi quando al Ministero dell’interno c’era Salvini (meno di 9 mila l’anno) sia attribuibile al cambiamento della situazione in Libia, piuttosto che ai differenti segnali provenienti dai governi italiani in carica. Né gli è riuscito di nascondere che, sotto il nuovo governo giallo-rosso, gli sbarchi sono quasi triplicati, e che nell’ultima tragedia in mare Salvini non c’entra nulla.  Così come non gli è stato possibile negare che, con i “cattivi” al governo, il numero assoluto di morti in mare è diminuito, e tanto meno nascondere che, con i “buoni” al governo, l’accoglienza sia stata un disastro. Insomma, sull’immigrazione Renzi ha mostrato di non avere idee concrete, ma solo posizioni morali e formule retoriche.

Sulla politica economica, tuttavia, le cose si sono capovolte. Specie su “quota 100” (la norma che permette di andare in pensione prima) Renzi è stato molto convincente. Le cifre che ha presentato sul costo di “quota 100” sono leggermente esagerate (20 miliardi in 3 anni), ma la sostanza del suo discorso è perfettamente corretta: quota 100 non è sbagliata in sé, ma costituisce una incredibile dissipazione di risorse pubbliche a favore di una piccola minoranza di anziani, e nemmeno dei più bisognosi. Con una cifra comparabile (9 miliardi l’anno), Renzi era riuscito a dare sollievo ai bilanci di milioni di famiglie. E, di nuovo con una cifra analoga, Renzi era riuscito – grazie alla decontribuzione – a dare un po’ di ossigeno alle imprese, e per questa via imprimere una spinta all’occupazione.

La posizione di Renzi, che considera sprecati 10 o 20 miliardi a favore di poche centinaia di migliaia di anziani, quando con la medesima cifra si potrebbero fare cose ben più utili, è tanto più giustificata se riflettiamo su una circostanza: tutti gli studi sulla diseguaglianza concordano sul fatto che l’unica vera, clamorosa e macroscopica diseguaglianza fatta esplodere dalla crisi è quella fra anziani (in particolare pensionati) e giovani (in particolare minori). I giovani hanno visto drammaticamente ridotti i redditi, le possibilità di occupazione, le prospettive future, minacciate dal declino generale del Paese, ma anche dall’aumento del debito pubblico, che oggi serve (anche) a finanziare “quota 100”, e domani dovrà essere ripagato innanzitutto dai figli e nipoti dei beneficiari degli attuali pensionamenti anticipati. Su questo Salvini non è stato in grado di replicare alcunché di convincente, esattamente come Renzi nulla di convincente era stato in grado di dire sul contenimento degli sbarchi. Dunque: su “quota 100” Renzi batte Salvini 3 a 0.

Se devo riassumere, direi: Salvini non ha in tasca la soluzione miracolosa per il problema dell’immigrazione clandestina ma, agli occhi di buona parte degli italiani (compresi molti ex elettori del Pd), ha il merito di non negare il problema, e di aver tentato una strada per risolverlo; Renzi non ha la soluzione in tasca per il problema della condizione giovanile, ma ha il merito di averne capito la centralità, e soprattutto l’assoluta priorità rispetto alle pur comprensibili aspirazioni degli anziani.

Un partito non negazionista sul problema dell’immigrazione irregolare, e capace di rompere con l’assistenzialismo pro-pensionati, sarebbe assai utile all’Italia. Perché le preoccupazioni popolari per l’insicurezza delle periferie, o per la concorrenza degli immigrati su salari e accesso al welfare, sono semplicemente sacrosante; e, d’altro canto, la sconfitta dell’assistenzialismo è una precondizione cruciale per non rendere irreversibile il declino economico e sociale del nostro paese.

E tuttavia, curiosamente, un tale partito non esiste, né a sinistra né a destra. Renzi e il Pd, dopo la marginalizzazione di Marco Minniti e la demonizzazione di Salvini, hanno dimostrato chiaramente che il problema dell’immigrazione non riescono a vederlo, e tanto meno ad affrontarlo. Lega e Cinque Stelle, d’altro canto, sono stati capaci di governare insieme solo spartendosi i rispettivi assistenzialismi: “quota cento” per soddisfare le voglie politiche di Salvini, reddito di cittadinanza per soddisfare quelle di Di Maio.

E’ come se, nello spazio politico, ci fosse posto per tutte le combinazioni, ma non per l’unica che servirebbe. C’è chi vede il problema dell’immigrazione, ma non riesce a rinunciare all’assistenzialismo (Lega e Cinque Stelle). C’è chi vede il pericolo dell’assistenzialismo, ma è cieco di fronte ai problemi dell’immigrazione (Italia viva e +Europa). E c’è, infine, chi non si nega nulla: il Pd e l’estrema sinistra non vedono né il problema dell’immigrazione, né i pericoli dell’assistenzialismo e della spesa in deficit.

A quanto pare, nonostante ci siano una decina di partiti, partitini e aspiranti-partito a sinistra, e quasi altrettanti a destra, l’unica cosa che il sistema politico italiano non sembra in grado di partorire è una forza politica che sia anti-assistenziale in politica economica, e non cieca sui problemi dell’immigrazione e della sicurezza. Una stranezza, e un vero peccato.

Articolo pubblicato sul Il Messaggero del 17 ottobre 2019



Proteggere lo stile di vita europeo?

Ha suscitato sentimenti diversi, dalla semplice curiosità all’indignazione, il fatto che uno degli otto vicepresidenti della Commissione Europea, il greco Margaritis Schinas, sia stato nominato «Commissario per la Protezione dello stile di vita europeo».

A qualcuno è sembrato curioso che, con tutti i problemi urgenti e concreti che ha l’Europa, occorra addirittura un Commissario per proteggere il nostro stile di vita, quasi fossimo una colonia di castori in estinzione, che rischia di smarrire la capacità di costruire tane, dighe e laghetti artificiali.

Poi però si è capito: il nuovo Commissario dovrà occuparsi soprattutto di immigrazione. Dunque, ragionano alcuni, sono gli immigrati la minaccia da cui dobbiamo essere protetti. Di qui il passaggio all’indignazione è immediato, nel clima di oggi. Su tutte spicca la reazione di Amnesty International che, dopo aver notato che “le persone che hanno migrato hanno contribuito allo stile di vita dell’Europa nel corso della sua storia”, perentoriamente ci ricorda che “lo stile di vita europeo che l’Ue deve proteggere è quello che rispetta la dignità umana e i diritti umani, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo Stato di diritto”.

Anche la presidente Ursula von der Leyen, che quell’incarico ha concepito e assegnato, accusa un certo imbarazzo, e gioca sulla difensiva: “Il nostro stile di vita europeo sostiene i valori e la bellezza della dignità di ogni singolo essere umano”.

Qual è il problema, dunque?

Il problema sta nel programma politico della von der Leyen, e nel non detto della (apparentemente) strana associazione fra migranti e protezione dello stile di vita europeo. A giudicare da quanto scritto e dichiarato fin qui, gli obiettivi finali della nuova politica migratoria europea sono tre: (a) accogliere chi ha diritto allo status di rifugiato; (b) rimpatriare chi non ha diritto ed entra illegalmente in Europa; (c) selezionare i migranti economici in base alle esigenze e alle disponibilità di posti degli stati europei (un modello molto elogiato quando a praticarlo è il Canada, ma guardato con sospetto se a ipotizzarlo è l’Unione Europea).

Alla base di questo “vasto programma”, tuttavia, non c’è solo l’idea (di puro buon senso) che in Europa si debba entrare solo legalmente. A mio parere c’è anche l’idea che, alla lunga, ingressi massicci e incontrollati (come quelli dell’era pre-Minniti) mettano a rischio il nostro modo di vivere, ossia abitudini, costumi, tradizioni, regole di comportamento che la maggior parte dei cittadini europei preferirebbe conservare, e che una parte non trascurabile dei migranti invece non sa o non vuole rispettare. Non penso solo al tasso di criminalità (che fra gli stranieri è oltre il quadruplo che fra i nativi), o alla formazione nelle città di enclaves etniche impenetrabili, ma più in generale alla condizione delle donne (mogli e figlie) in diverse famiglie di religione islamica. Fra i valori che la stragrande maggioranza degli europei preferirebbe vedere tutelati vi sono anche cose come la separazione fra credo religioso e politica, o il rispetto della libertà (e del corpo) della donna, due cose che nei virtuosi elenchi di “veri” valori europei vengono stranamente ignorate.

Ecco perché la levata di scudi contro Ursula von der Leyen lascia perplessi. Si può essere contro i confini, volere l’accoglienza erga omnes, e pensare che i migranti siano sempre una risorsa e un’opportunità per l’Europa. Si può pensare che i contatti e le ibridazioni fra culture siano fondamentalmente un arricchimento per tutti, e che l’Europa possa soddisfare senza limiti la domanda di approdo sulle nostre coste che proviene dall’Africa e dal Medio Oriente. Si può persino pensare che un tasso di criminalità degli stranieri molto più alto di quello dei nativi sia tollerabile, o sia solo l’effetto degli ostacoli che gli Stati europei frappongono all’immigrazione irregolare.

Ma si dovrebbe anche rispettare chi è di diversa opinione, e pensa che un’Europa in cui africani e islamici fossero in maggioranza (un evento che, a politiche invariate, richiede pochi decenni) sarebbe meno vivibile di quella di oggi. O chi pensa che una comunità politica abbia tutto il diritto di decidere chi ammettere a farne parte e chi no. Bollare come razzisti, fascisti, reazionari tutti coloro che non aderiscono all’ideologia dell’accoglienza indiscriminata è profondamente incivile, e in patente contraddizione con i valori europei di tolleranza, apertura e dialogo.

E’ paradossale. Per anni i governanti europei sono stati accusati di ignorare le preoccupazioni e i sentimenti dei comuni cittadini. L’ascesa del populismo è stata (giustamente) ricondotta a questa sordità dell’establishment europeo, incapace di cogliere la domanda di protezione, non solo economica, che veniva dalla gente. Ed ora che quella medesima domanda mostra di ricevere qualche ascolto, al punto da istituire un Commissario che se ne occupi, anziché prenderne atto con soddisfazione, non si trova di meglio che mettere alla sbarra Ursula von der Leyen, ossia il primo governante europeo che mostra di non ignorarla.

Stranezze della politica. O forse sarebbe meglio dire: ambiguità e debolezze degli europeisti doc. Per i quali l’Europa non andava bene prima, perché troppo lontana dalla gente, ma va ancora meno bene adesso, perché ha scelto di ascoltare la gente sbagliata.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 settembre 2019



Il semaforo della crisi

E così, dopo 15 mesi di governo giallo-verde, ne avremo non si sa quanti di governo giallo-rosso: il semaforo della crisi tiene fermo il giallo, e prova a sostituire il verde-Lega con il rosso-Pd.

Il ragionamento del neo-segretario Zingaretti, illustrato ieri nella Direzione del partito, si snoda intorno a due passaggi fondamentali.

Il primo è un comprensibile, quanto poco convincente, sforzo di allontanare ogni sospetto di opportunismo. Una excusatio non petita che si nutre di affermazioni come: “un Governo non può nascere sulla paura che qualcun altro vinca la elezioni” (ah no? la paura che Salvini stravinca le elezioni non vi tange?), dobbiamo “evitare ogni accusa di trasformismo e opportunismo” (e come farete, visto che fino a ieri escludevate solennemente qualsiasi accordo con i grillini?); “non siamo quelli pronti a manovre di Palazzo” (e cos’altro sta accadendo in queste ore, nel Palazzo della politica?).

C’è poi il secondo snodo, che in sostanza è una richiesta martellante e ripetuta di “forte discontinuità” rispetto “all’esperienza del governo uscente”. La richiesta, ovviamente, è rivolta ai superstiti del governo uscente, che non hanno alcuna intenzione di uscire come ha fatto Salvini, e contano precisamente sul Pd per rientrare. Messa così, parrebbe un aut-aut ai Cinque Stelle: o voi fate autocritica, e promettete di non fare più i populisti, oppure noi, che il voto lo temiamo meno di voi, vi abbandoneremo al vostro destino.

Arrivati a questo punto il paziente lettore della relazione di Zingaretti si aspetterebbe, come minimo, un’indicazione su quali dovrebbero essere, secondo il Pd, i capisaldi dell’azione del nuovo governo, a partire dalla “mostruosa manovra di bilancio che occorre fare”. Stabilito che, per non far scattare l’aumento dell’Iva, si tratta di reperire almeno 23 miliardi, più altri 7 di spese varie e indifferibili, ed escluso che lo si possa fare in deficit (altrimenti addio discontinuità), saremmo tutti curiosi di sapere dove il Pd pensa di poter reperire i 30 miliardi che occorrono. Nuove tasse? tagli alla sanità? sforbiciata alle agevolazioni fiscali? soppressione di quota 100? soppressione del reddito di cittadinanza?

Non è dato sapere. Invece di fornirci questa preziosa informazione, la relazione di Zingaretti si avventura in una elencazione di cinque richieste tanto perentorie quanto vaghe: “l’appartenenza leale all’Unione Europea, per un’Europa profondamente rinnovata”; “il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa”; “l’investimento su una diversa stagione dello sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale”;  “una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori”; “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”.

Di questi cinque punti, i primi tre (Europa, democrazia rappresentativa, diversa stagione dello sviluppo) sono puro fumo politichese: detti così, troverebbero d’accordo chiunque. Gli ultimi due sono invece inquietanti.

La richiesta di una svolta nelle politiche migratorie elude il problema principale di questi anni: che è di garantire l’accesso in Europa a chi ne ha diritto, senza mandare segnali che non possono non alimentare il traffico di esseri umani. E’ sconfortante che Salvini abbia sostanzialmente risolto il secondo aspetto del problema (disincentivare il business dei naufragi), facendo finta che il primo (diritti dei profughi) non esista. Ma è ancora più sconfortante che chi vuole una discontinuità, il problema manco lo veda, o peggio abbia in mente di invertire l’equazione migratoria, come se esistesse solo il primo aspetto (profughi) e non il secondo (traffico di esseri umani). Difficile non pensare che quel che si vuole, in realtà, sia un ritorno alla stagione dell’accoglienza caotica degli anni pre-Minniti, tanto più che lo sponsor principale dell’alleanza con i Cinque Stelle è Renzi, che di quella stagione si è sempre dichiarato fiero.

Quanto all’ultimo punto, l’invocazione di “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva e di attenzione al lavoro, all’equità sociale, territoriale, generazionale e di genere”, quel che è inquietante non è tanto la genericità, quanto l’analisi che sembra starle dietro. Un’analisi che si ostina ad attribuire lo stallo del Paese a questa mediocre esperienza di 15 mesi, come se l’Italia non fosse già in stagnazione quando Conte è diventato presidente del Consiglio, e come se negli anni in cui al timone c’era il Pd i nostri conti pubblici fossero in ordine. Ma, soprattutto, un’analisi che ripropone, per l’ennesima volta, la solita diagnosi sui mali del Paese, una diagnosi in cui il problema cruciale – ancora una volta – non è di metterci in condizione di produrre nuova ricchezza, ma è di redistribuire quella che già c’è, finché ce n’è.

Il fatto è che su un punto Zingaretti ha perfettamente ragione: ci vuole una discontinuità radicale rispetto al passato, perché il passato è fatto di demagogia, ricerca ossessiva del consenso, rimozione dei problemi del paese, dilazione delle decisioni difficili. Ma quel passato, bisognerebbe avere l’onestà di riconoscerlo, è il passato comune del nostro ceto politico, non il lascito esclusivo dell’ultima breve stagione di governo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 22 agosto 2019



Contro l’inferno libico

Non ha convinto quasi nessuno, nelle sue prime dichiarazioni, Ursula von der Leyen, candidata tedesca alla presidenza della Commissione Europea. E La ragione è piuttosto semplice: le forze politiche tradizionali, presunte vincitrici delle elezioni europee, sono in grave disaccordo fra loro su molte questioni cruciali, fra le quali quella migratoria.

Se si esaminano attentamente le sue dichiarazioni, si capisce facilmente perché. Come spesso accade ai governanti europei, la loro preoccupazione centrale è l’affermazione di principi astratti che possano raccogliere il più ampio consenso possibile, ma la loro attenzione alla soluzione concreta dei problemi è minima. Di qui la curiosa diffusione in Europa di una retorica, quella del “ma-anchismo” (voglio A, ma anche B), di cui erroneamente avevamo attribuito l’esclusiva a Walter Veltroni, ai tempi in cui stoicamente tentava di dare una guida alla sinistra italiana.

Oggi il ma-anchismo si ripresenta nelle parole della von der Leyen: difendere i confini, “ma anche” rafforzare i salvataggi in mare; non lasciare sola l’Italia “ma anche” non obbligare gli altri paesi europei a prendere chi sbarca in Italia; no agli scafisti “ma anche” no ai porti chiusi.

Che così dicendo la candidata alla Presidenza della Commissione rischi di scontentare tutti è meno grave del fatto che il ma-anchismo non sia una politica. Una vera politica dovrebbe, per cominciare, offrire un’analisi convincente di come le cose effettivamente funzionano, ed accettare il dato di fatto che, per determinati tipi di problemi, non esistono soluzioni in grado di rispettare tutti i nobili principi cui i politici amano richiamarsi. L’importante è che almeno i problemi risolvibili vengano risolti, e su quelli irrisolvibili ci sia un’assunzione di responsabilità, che inevitabilmente significa avere il coraggio di scegliere, quasi mai fra il male e il bene, e quasi sempre fra un male e un male minore.

Fra i problemi risolvibili vi è quello di sostenere davvero, e non solo a parole, l’UNCHR (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) nel suo lavoro di trasferimento in Europa delle persone che riesce a liberare dai campi libici e che hanno diritto allo status di rifugiato. E’ oltre un anno che l’UNCHR insiste sul fatto che in Africa (in particolare in Niger e in Libia) ci sono già alcuni centri nei quali l’UNCHR stessa riesce a raccogliere i soggetti più vulnerabili e ad effettuare i colloqui necessari per accertare il diritto alla protezione internazionale, ma tutto si scontra con la lentezza e l’opportunismo dei governi europei, che sulla carta promettono posti (4000) ma poi sono lentissimi nel rendere effettivi i trasferimenti in Europa. Voglio dire che il problema dei corridoi umanitari non è la loro inesistenza, ma il fatto che quei pochi che esistono e potrebbero funzionare ad alto regime (primo fra tutti quello che parte dal Niger) si scontrano con l’inerzia e la lentezza dell’Europa. E’ importante sottolineare che stiamo comunque parlando di numeri piccoli (4000 posti promessi da Unione Europea, Norvegia e Canada), e di un problema risolvibilissimo solo che lo si voglia affrontare. E’ noto che i soggetti che hanno diritto allo status di rifugiato, e di cui specificamente si occupa l’UNCHR, sono una piccola frazione del totale dei soggetti in movimento. Anche in Africa il problema più grosso non sono i richiedenti asilo che ne hanno diritto, ma sono gli sfollati delle zone di guerra (in particolare in Libia), e i migranti economici di cui si occupa soprattutto l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), con programmi di rientro assistito (ed economicamente incentivato) nei paesi di partenza.

Ci sono poi i problemi irrisolvibili, o meglio risolvibili solo pagando un prezzo che pochi politici sarebbero disposti a pagare. Il principale di tali problemi è quello del traffico di esseri umani in Africa, un traffico che non è fatto solo di scafisti, ma di campi di prigionia legali e illegali, con bande armate che spadroneggiano nel territorio macchiandosi dei peggiori crimini: torture, violenze sessuali, umiliazioni, estorsione di denaro, lavori forzati, vendita come schiavi.

E’ il caso di notare che buona parte del problema sta nel business dei guerriglieri che, nel sud della Libia, intercettano le persone in transito per imbarcarsi in Europa. Un’altra parte del problema è costituita dal fatto che i migranti sfuggiti ai campi di prigionia dei signori della guerra spesso, essendo entrati illegalmente in Libia, vengono rinchiusi (in condizioni disumane) nei campi di prigionia governativi, dove fioriscono due ulteriori business, quello della liberazione a pagamento, e quello del trasbordo (sempre a pagamento) su un’imbarcazione diretta in Europa.

Si può fare qualcosa di risolutivo contro questo inferno in terra?

Se escludiamo (e facciamo bene…) l’ennesimo intervento militare occidentale più o meno mascherato da missione umanitaria, l’unica strada efficace che resta aperta è quella di stroncare il traffico di esseri umani rendendolo non profittevole. Sfortunatamente, l’unico modo per renderlo non profittevole è quello di affermare, e mettere fermamente in pratica, il principio che in Europa si entra solo per via legale. Finché l’Europa consente, e per certi versi incentiva, gli ingressi via mare, il progetto di stroncare il traffico di esseri umani resta del tutto velleitario.

E’ qui che nascono i problemi. Per impedire gli ingressi illegali occorrerebbe allargare i canali di ingresso regolari sia per i richiedenti asilo (corridoi umanitari) sia per i migranti economici (sistema di quote), ma al tempo stesso, una volta assicurata la possibilità di entrare legalmente in Europa, occorrerebbe difendere i confini con risolutezza. Questi due gesti, grazie alla velocità del tam tam nell’era di internet, sarebbero un colpo durissimo per i trafficanti, esattamente come lo sarebbe la droga di Stato per gli spacciatori (a proposito, perché i radicali non fanno il medesimo ragionamento pro-legalità quando si tratta di traffico di persone?).

Quello di cui sarebbe ora di prendere atto è che, per quanto scaldi i cuori e faccia la felicità dei media, ogni sbarco irregolare riuscito, che avvenga in Italia o altrove, che sia gestito da una Ong o da uno scafista, è di fatto un formidabile incentivo al business che si dice di voler stroncare. E’ terribile dirlo, ma l’inferno libico è anche la conseguenza della speranza di riuscire a entrare in qualche modo in Europa che un po’ tutti contribuiamo a tener viva, spesso con le migliori intenzioni.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 luglio 2019