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Kamala Harris versus Donald Trump – Elezioni americane e politicamente corretto

29 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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In un solo giorno è cambiato tutto. Prima della rinuncia di Biden, nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria dei Democratici alle presidenziali di novembre. Dopo le sue dimissioni, nessuno esclude che, con Kamala Harris, i Democratici possano vincere e
restare alla Casa Bianca.

I sondaggi concordano su un solo punto: lo scarto fra Trump e Harris è modesto e dello stesso ordine di grandezza dell’errore statistico. E a questa incertezza si aggiunge quella sui vice. Harris non ha ancora scelto il suo vice, né potrebbe essere diversamente, visto che non ha ancora ottenuto l’investitura ufficiale come candidata dei Democratici. Quanto a Trump, ha già fatto un errore: scegliere il proprio vice (J.D. Vance) senza sapere ancora chi sarà il suo avversario. C’è chi dice che, se avesse saputo che a sfidarlo sarebbe stata una donna, avrebbe scelto come vice un’altra donna (verosimilmente la sua ex acerrima rivale Nikki Haley).

Alcuni dei temi in campo sono i soliti: economia, immigrazione, diritti. Altri sono nuovi: guerra in Ucraina, guerra a Gaza. Ma è verosimile che, ad infiammare la competizione, saranno soprattutto due temi generali: la gestione dell’immigrazione
(in particolare del confine con il Messico); la questione dei diritti riproduttivi, delle minoranze sessuali, e più in generale della cultura woke.

Su questi due versanti Harris e Trump hanno, entrambi, punti deboli e punti forti.

Sull’immigrazione, Trump non potrà maramaldeggiare troppo perché Harris non è certo stata una paladina delle frontiere aperte, ha anzi più volte preso posizioni che in Italia siamo abituati ad associare a Salvini e Meloni: non venite, vi aiuteremo a casa
vostra, no al traffico di esseri umani, esternalizzazione delle richieste di asilo in paesi terzi (il nostro modello Albania). Trump potrà anche accusarla di non aver fatto abbastanza, ma non certo di aver spalancato i confini. Semmai, le critiche a Kamala
Harris potrebbero arrivare dalla sinistra del partito democratico (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez), schierata su posizioni aperturiste. Insomma, in materia di immigrazione Kamala Harris si è comportata in modo moderato, se non di destra.

In termini diametralmente opposti stanno le cose sul tema dei diritti. Qui Kamala può vantare un non ambiguo posizionamento pro aborto e pro diritti LGBT+, una linea che la colloca nel cuore della cultura woke. Ma proprio questo suo radicalismo in
materia di diritti rischia di farne il bersaglio perfetto della guerra contro il wokismo dichiarata da Trump e dal suo vice. Una guerra che, in America, è molto più vasta e coinvolgente che da noi. E che non è detto trovi donne, neri, ispanici, compattamente schierati a sostegno della candidata democratica. Kamala Harris, ad esempio, ha l’ostilità del movimento Black Lives Matter, che non ha gradito la sua antidemocratica investitura dall’alto. Quanto alle donne, la maggioranza apprezza la difesa dell’aborto, ma una parte delle femministe non gradisce l’appoggio alle istanze dei transessuali, in particolare dei trans MtF (da maschio a femmine), accusati di invadere gli spazi tradizionalmente riservati alle donne.

E poi c’è il tema forse più importante: il politicamente corretto e più in generale la mentalità woke. Una etichetta che un tempo significava solo politica degli eufemismi (sostituire donna di sevizio con colf), ma negli ultimi anni – proprio negli Stati Uniti
– ha enormemente allargato il suo significato, ben al di là del semplice bon ton linguistico. In nome della correttezza politica i campus studenteschi si sono trasformati in campi di rieducazione, migliaia di professori hanno subito sanzioni o perso il posto, la selezione dei candidati e le promozioni hanno sempre più punito le maggioranze “normali” (maschi e femmine bianchi eterosessuali) a favore di minoranze etniche o sessuali, specie se politicamente impegnati in cause ritenute giuste e prioritarie: anti-razzismo, giustizia sociale, inclusione.

Più in generale si è enormemente allargata la frattura fra due mondi: da una parte l’establishment istruito, che occupa le posizioni chiave nell’economia, nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel mondo della comunicazione, e in virtù della sua adesione alle istanze woke si sente portatore di una superiorità etica; dall’altra i ceti popolari a bassa istruzione, perennemente alle prese con le asperità della vita quotidiana, e del tutto insensibili alle sottili questioni linguistiche e giuridiche che appassionano l’élite colta. Questo è il terreno di scontro ideale per i Repubblicani, perché permette loro di presentarsi come paladini della libertà di espressione (contro la censura) e della meritocrazia (contro la politica delle quote). Già nel 2016 l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto aveva aiutato l’elezione di Trump. Se vuole vincere, Kamala Harris farà bene a non scordare quella lezione.

[Articolo uscito sul Messaggero il 28 luglio 2024]

Elezione di Ursula von der Leyen – L’arroccamento

20 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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Con 401 voti favorevoli Ursula von der Leyen è stata rieletta alla presidenza della Commissione Europea. Ne bastavano 361, ne ha avuti 40 in più. Il numero di voti ottenuti è quasi identico al numero di seggi (401) di cui dispongono i tre partiti – popolari, socialisti, liberali – che da sempre reggono le sorti dell’Unione Europea. Ma la corrispondenza aritmetica è fallace: in realtà, contro von der Leyen hanno votato diverse decine di franchi tiratori della sua stessa maggioranza, ed è solo grazie al soccorso dei Verdi che la maggioranza è risultata ampia. Quanto al partito di Giorgia Meloni, dopo molti dubbi e incertezze, ha finito per votare contro, insieme alle destre-destre.

L’ampio discorso con cui von der Leyen ha chiesto la riconferma conteneva, tra le altre cose, alcune robuste aperture ai Verdi sul Green Deal, e qualche timido segnale ai Conservatori di Giorgia Meloni sul problema migratorio. È abbastanza logico che i
Verdi non si siano fatti sfuggire l’opportunità di entrare in maggioranza, è meno chiaro se abbia fatto bene o male Giorgia Meloni a votare contro.

Le due letture che ascolteremo nei prossimi giorni sono entrambe ragionevoli: gli ultra-europeisti diranno che così l’Italia si è isolata, gli euro-scettici diranno che von der Leyen ha concesso troppo poco sul contrasto all’immigrazione e quasi nulla sui problemi degli agricoltori. Quel che mi sembra difficile negare è che le aperture ai Verdi sul Grean Deal sono state più significative di quelle ai Conservatori sul contrasto all’immigrazione (è mancato, in particolare, qualsiasi riferimento all’esternalizzazione delle frontiere e al modello Albania).

Quanto ai partiti italiani, è interessante notare che il voto su von der Leyen ha spaccato sia la maggioranza di governo sia l’opposizione. Fra i partiti di governo Forza Italia ha votato convintamente a favore, la Lega convintamente contro, mentre Fratelli d’Italia è rimasto incerto fino all’ultimo (salvo poi votare come la Lega). Fra i partiti di opposizione il Pd ha votato a favore, i Cinque Stelle contro, mentre l’alleanza Verdi-Sinistra si è già spaccata fra Verdi (a favore) e Sinistra (contro).

Sul piano internazionale, un aspetto molto importante – e non del tutto scontato – del discorso di von der Leyen è stato il suo netto posizionamento pro-Ucraina (sostegno a oltranza) e il suo altrettanto netto richiamo anti-Israele sugli eccidi di civili nella
striscia di Gaza. Una presa di posizione che non meriterebbe particolare attenzione se non avvenisse nelle stesse ore in cui le dichiarazioni del neo-nominato vice di Trump, il sentore James David Vance, delineano una linea politico-militare statunitense
diametralmente opposta: compromesso territoriale con la Russia di Putin, disco verde a Israele per Gaza. Dobbiamo prepararci, in caso di vittoria di Trump, a un inedito quanto drammatico contrasto strategico-militare fra Europa e Usa?

Non meno gravido di implicazioni è quanto Ursula von der Leyen ha annunciato sul piano politico interno, e cioè il suo impegno nella “lotta agli estremismi”. Un monito chiaramente rivolto a Viktor Orbán e ai nuovi gruppi dei Patrioti e dei Sovranisti, piuttosto che ai Conservatori di Giorgia Meloni o al piccolo gruppo della sinistra estrema. Quel che la neo-presidente ha delineato, per molti versi, è la variante europea della strategia francese del “cordone sanitario” contro la destra estrema, con la sola importante differenza di non aver chiesto i voti dell’estrema sinistra.Questa linea politica non è priva di senso, specie se si crede che la posta in gioco sia la democrazia, che le destre estreme costituiscano una seria minaccia all’ordine democratico, e che la santa alleanza delle forze democratiche – dai Verdi ai Popolari – sia in grado di erigere una robusta e duratura barriera contro la “marea nera” montante. Ma siamo sicuri che sia la lettura giusta, o l’unica possibile? I risultati elettorali mostrano che i tre raggruppamenti di destra cui von der Leyen ha chiuso la porta sono i medesimi che il voto popolare ha premiato. E che il gruppo cui invece la ha aperta (i Verdi) è fra quelli puniti dal voto. Insomma: la nuova Commissione europea ha scelto di muoversi nella direzione opposta a quella dell’opinione pubblica, pur avendo l’opportunità – grazie alla presenza dei Conservatori – di dare un sia pur piccolo segnale di sintonia con le preoccupazioni degli elettori. Quasi che l’avanzata simultanea delle destre – di tutte le destre, compresi Conservatori e Popolari – fosse il sintomo di una malattia, piuttosto che un segnale di preoccupazioni più o meno legittime dei cittadini, come quelle in materia di immigrazione e di politiche agricole.

Che questa scelta di arroccamento dell’establishment europeo sia stata lungimirante o miope, lo vedremo fra qualche anno, quando si tornerà al voto. Per ora sia lecito sollevare il dubbio.

[articolo uscito sul Messaggero il 19 luglio 2017]

Onda nera e dilemma migratorio

13 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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A guardarle da lontano, le elezioni europee forniscono un risultato molto chiaro: indietro liberali, verdi, socialisti, avanti tutte e tre le destre: Popolari di Ursula von der Leyen, Riformisti di Giorgia Meloni, Identitari di Marine Le Pen. E altrettanto
chiaro, anche se non a tutti, è il triplice messaggio che è stato recapitato a Bruxelles: non ci convince la velocità (eccessiva) della transizione green, non ci va l’inconcludenza in materia di flussi migratori irregolari, non ci piace il politicamente
corretto dei burocrati europei.

Complessivamente, gli equilibri politici si sono spostati verso destra, in alcuni casi in modo clamoroso: in Francia è crollato il partito di Macron, e quello di Marine Le Pen ha toccato la quota stratosferica del 32%; in Germania sono crollati i
Socialdemocratici del cancelliere Scholtz, superati dalla AFD (Alternative für Deutschland), un partito di destra così estrema da essere stato espulso da Identità e Democrazia, il gruppo più a destra del Parlamento Europeo. Tutto ciò ha suggerito ai
commentatori più pittoreschi di parlare di un’onda nera che starebbe sommergendo le fragili istituzioni europee.

A guardarle più da vicino, ovvero paese per paese, le elezioni europee raccontano una storia assai meno univoca, forse più interessante. Ci sono paesi, anche importanti, in cui i socialisti sono cresciuti sensibilmente: in Francia sono rinati, dopo essere quasi scomparsi nelle elezioni del 2022; in Italia, con il 24% del Pd, hanno ottenuto il miglior risultato dai tempi dell’exploit di Renzi, che rialse a dieci anni fa (41% alle Europee del 2014).

Anche il mito dell’onda nera andrebbe ridimensionato. Se, ad esempio, prendiamo i due paesi scandinavi (Finlandia e Svezia), attualmente governati da coalizioni di destra, non mancano le sorprese: in entrambi i paesi i partiti di estrema destra (Veri
Finlandesi e Democratici svedesi) hanno ottenuto risultati elettorali pessimi, a fronte di buoni risultati delle forze progressiste.

I casi più interessanti, però, a mio parere sono quelli della Danimarca e della Germania. Questi due paesi, infatti, illustrano bene quanto cruciale sia, per gli equilibri elettorali della sinistra, il modo in cui viene affrontato il tema migratorio.

In Danimarca, nel 2022, la premier socialdemocratica Mette Frederiksen aveva vinto le elezioni politiche su una linea securitaria, ventilando addirittura il trasferimento dei migranti irregolari in Ruanda, sulla linea del premier britannico Rishi Sunak. Il
risultato, però, è stato che due anni dopo, alle elezioni Europee, il suo partito è stato scavalcato dall’Alleanza di sinistra, un partito di sinistra-sinistra.

La vicenda è interessante perché ricalca, in un arco di tempo molto più breve, quel che in Italia è capitato al Pd nel decennio 2014-2024. La svolta riformista impressa da Renzi e Gentiloni con il Jobs Act e la linea dura sull’immigrazione (ministro Minniti) hanno innescato una progressiva crisi di rigetto, con la scissione di Leu, i tormenti del dopo-Renzi, la riconquista della “ditta” da parte di Bersani e compagni, la sconfitta di Bonaccini, l’ascesa finale di Elly Schlein, coronata dal successo alle Europee. La
differenza con il caso danese è che lì la reazione alla sinistra moderata e riformista è stata rapida e affidata a un a partito più a sinistra dei socialdemocratici, mentre da noi è stata lunga e affidata alla scalata interna al Partito Democratico.

In Germania le cose sono andate in un modo ancora più inedito. Qualche mese fa, di fronte alla irresolutezza dei socialdemocratici in tema di migranti, e al connesso deflusso di voti popolari verso l’AFD, Sahra Wagenknecht, politica proveniente dalla Linke (il partito più a sinistra della Germania), ha deciso di fondare un partito al tempo stesso di sinistra e anti-migranti. Alla prima prova elettorale, le Europee dei giorni scorsi, il suo partito nuovo di zecca ha totalizzato il 6.2%, che sommato al 15.9% della AFD porta oltre il 22% la quota di elettori che hanno espresso un voto innanzitutto anti-immigrati.

Il caso tedesco e il caso danese illustrano nel modo più chiaro la crucialità che, per la sinistra di governo, assume il dilemma migratorio. Snobbare o negare il problema aliena le simpatie dei ceti popolari, e finisce per ingrossare le file dei partiti di
estrema destra. Prenderlo su di sé, rende meno ardua la conquista del governo, ma alla lunga crea divisioni nel campo progressista, alimentando la crescita della sinistra-sinistra. Anche di questo, prima o poi, dovrà farsi carico Elly Schlein.

[articolo uscito sul Messaggero il 12 giugno 2024]

Migranti, l’esperimento Albania

8 Giugno 2024 - di Luca Ricolfi

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Difficile, dopo lo scontro in Albania fra Giorgia Meloni e il segretario di +Europa, discutere di migranti in modo pacato, senza troppa ideologia. Eppure dobbiamo farlo, se non vogliamo che questo problema, nei prossimi anni, finisca per concentrare su di
sé tutta l’attenzione della politica, a scapito dei tanti problemi che affliggono il paese, dai bassi salari alle liste di attesa in ospedale, dai morti sul lavoro alla mancanza di asili nido, dal declino della scuola al modesto tasso di occupazione delle donne.

Intanto, vale forse la pena sottolineare che quello dei migranti è un problema irrisolto non solo sul versante dell’immigrazione irregolare, ma anche su quello dei flussi regolari. È di pochi giorni fa la scoperta di enormi squilibri, specie in alcune regioni
del Sud, fra il numero di contratti di lavoro nominali (connessi ai decreti flussi) e il numero di posti di lavoro effettivamente attivati. Tutto fa pensare che anche i flussi regolari nascondano un ingente traffico di falsi contratti di lavoro, verosimilmente
gestiti dalla criminalità organizzata. Forse è venuto il momento di chiedersi se, oltre a intensificare i controlli, non sia il caso – dopo oltre vent’anni – di porre mano alla legge Bossi-Fini, che come si sa si fonda sulla finzione che il lavoratore che emigra
abbia già – in Italia – un datore di lavoro che lo attende.

Se dai flussi regolari ci volgiamo a quelli irregolari, e in particolare agli sbarchi sulle nostre coste, il dato che non possiamo ignorare è che nessuna fra le politiche adottate fin qui dall’Italia è stata capace di risolvere il problema. Fermare le partenze nei paesi di origine, una politica perseguita in epoche diverse da Berlusconi e da Minniti, si scontra con la instabilità dei governi che dovrebbero bloccare i flussi all’origine, ma anche con la difficoltà di neutralizzare i trafficanti e garantire il rispetto dei diritti
umani nei paesi di partenza. Ma non meno problematica è l’altra linea di condotta, per lo più sponsorizzata dalla sinistra e dai vertici dell’Unione Europea, e che punta sulla cosiddetta redistribuzione (di fatto: dall’Italia agli altri paesi). Contrariamente a
quanto si sente spesso lamentare, quel tipo di politica non è fallita solo per un deficit di solidarietà, imputabile anzitutto all’Ungheria del “cattivo” Orban, ma perché il meccanismo della redistribuzione è intrinsecamente poco efficace, dal momento che non è obbligatorio, e comunque coinvolge solo una modestissima frazione degli sbarcati.

Rispetto a queste due strategie classiche – fermare alla partenza e redistribuire – l’accordo con l’Albania si presenta come un terzo modello di gestione dei flussi irregolari. L’idea è di deviare una parte dei soccorsi in mare verso un paese extra-Ue,
e di espletare lì le pratiche di identificazione e valutazione della domanda di asilo. I vantaggi, rispetto ai due modelli storici, sono principalmente due: primo, si evita la dispersione sul territorio italiano di migranti irregolari, che non hanno diritto all’asilo
e rischiano di entrare in circuiti illegali; secondo, si introduce (o si spera di introdurre) un elemento di deterrenza e freno alle partenze.

Solo il tempo potrà dirci se il modello Albania funzionerà, se i benefici per l’Italia supereranno i costi, e se i diritti dei migranti saranno adeguatamente tutelati. Nel frattempo, è forse il caso di prendere atto che ben 14 paesi dell’Unione europea hanno manifestato interesse per l’idea di coinvolgere paesi extra-Ue, come l’Albania, nella gestione dei flussi migratori. Può darsi che questo inatteso interesse per il modello italiano sia strumentale, ossia dettato da ragioni elettorali: alla vigilia del voto europeo tutti i partiti, che siano al governo o siano all’opposizione, hanno bisogno di dire all’opinione pubblica che non hanno rimosso il problema dell’immigrazione.

Resta il fatto che, sul tema degli ingressi irregolari in Europa, le alternative in campo o sono troppo radicali, come le deportazioni in Ruanda ventilate tempo fa dalla Danimarca, o sono troppo blande, come la mera riproposizione dei recenti, traballanti, accordi di redistribuzione.

In breve, il modello Albania è l’unica idea nuova in campo. Ma più che un’idea, è un esperimento, che subirà molti aggiustamenti, e di cui per ora nessuno è in grado di prevedere accuratamente l’esito. Ecco perché, schierarsi a priori a favore o contro, è irrazionale: di fronte agli esperimenti, l’unico atteggiamento razionale è la curiosità.

[articolo uscito sul Messaggero il 7 giugno 2024]

L’esperimento – Accordo con l’Albania

15 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Alle volte gli economisti mi stupiscono per la loro ingenuità. L’ultima volta che mi è successo è stato sabato scorso, leggendo su Repubblica un articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti (due fra i miei economisti preferiti) sul progetto Meloni-Rama di delocalizzare in Albania 36 mila richieste di asilo l’anno, costruendo ex novo due appositi centri con una capacità totale di 3000 richiedenti asilo. Il nocciolo del ragionamento dei due illustri economisti è il seguente: il numero effettivo di domande smaltite sarà inferiore a 3000 all’anno perché il tempo medio di processamento delle richieste è 12 mesi, non 4 settimane.

In effetti, è quel che si insegna in vari corsi universitari, innanzitutto quelli di ingegneria gestionale, quando si spiega la formuletta che collega le vendite annuali con lo stock di merci in magazzino e il loro tempo medio di giacenza: se devo vendere 36000 e il mio magazzino tiene 3000 allora devo rinnovare il magazzino 12 volte l’anno. Banale, e leggermente cinico, visto che stiamo parlando di essere umani.

Però la formula è ineccepibile, come tutte le identità contabili. Il punto è un altro: perché mai il tempo di smaltimento delle domande dovrebbe essere 12 mesi, o addirittura superiore?

La risposta di Boeri e Perotti è: perché in Veneto, dove le cose vanno meglio che altrove, gli “operatori del settore” ci hanno detto che ci vogliono almeno 12 mesi. E, se accettiamo questa stima e la infiliamo nella formula di magazzino, salta fuori che non potremo processare più di 3000 domane e anzi, tenuto conto di altri fattori rallentanti, ne finiremo per processare circa 2000, con costi pro capite enormi, visti i costi fissi che i due centri albanesi comporteranno.

Ma la vera domanda è perché mai, in una struttura nuova di zecca, e dedicata solo alla gestione dei migranti, i tempi di smaltimento delle domande dovrebbero essere quelli medi attuali sul territorio della penisola, dove le questure sono sovraccariche (come gli ospedali!), le procedure sono complicate e farraginose (anche per il coinvolgimento di enti del terzo settore), e alle carenze di personale nelle questure e nelle commissioni territoriali non si riesce a porre rimedio?

E se accadesse invece esattamente l’inverso, ossia che proprio in Albania – e solo in Albania – i migranti potessero esercitare il diritto di essere ascoltati in tempi ragionevoli, senza le umiliazioni, le peregrinazioni, le infinite attese cui da sempre sono costretti in Italia?

In breve: la capacità effettiva dei due centri albanesi (36000 domande, o solo 2000?) non è determinabile con una formula contabile, ma è un interessante problema di sociologia dell’organizzazione. Può darsi benissimo che le cose vadano come prevedono Boeri e Perotti, e persino che vadano peggio: se a oltre 20 anni dal varo della legge Bossi-Fini nessun governo è riuscito a oliare gli ingranaggi della burocrazia dell’accoglienza, è possibilissimo che non ci riesca nemmeno questo governo.

Ma perché non dargli una chance? O, perlomeno, augurarsi che in Albania le cose vadano meglio che sul suolo italiano? Perché scommettere sempre e solo sul fallimento dei tentativi italiani di gestire il problema degli sbarchi? Perché le menti più brillanti di questo paese, anche quando sono chiaramente collocate nel campo riformista, si ingegnano soltanto a profetizzare fallimenti, anziché a dare idee su come correggere quel che non va e far riuscire l’esperimento?

Forse, una vera sinistra riformista, liberale, empirista, deve ancora nascere in Italia. Perché, se ci fosse, la sua stella polare sarebbe l’interesse nazionale, non la speranza – neanche poi tanto segreta – che l’esperimento albanese si riveli l’ennesimo flop.

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