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Perché agli italiani non è piaciuto l’esperimento Albania?

25 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

Speciale

Nei giorni infuocati dei trasferimenti di migranti in Albania mi domandavo: ma come la pensano gli italiani? la maggioranza degli elettori sta con Giorgia Meloni, o condivide invece le severe critiche dell’opposizione? l’operazione Albania sta spostando consensi elettorali verso destra o verso sinistra?

Ora, grazie a un buon numero di sondaggi usciti negli ultimi giorni, possiamo azzardare qualche risposta. A prima vista, si direbbe proprio che gli italiani non abbiano gradito. Se, usando le domande dei vari questionari, dividiamo grossolanamente le risposte fra favorevoli e contrarie alla politica migratoria del governo, invariabilmente dobbiamo constatare che le critiche sono maggiori dei consensi. Secondo un sondaggio di Euromedia Research, le proporzioni fra sfavorevoli e favorevoli sono, a seconda del quesito, 54 a 37, oppure 53 a 28, oppure 49 a 34 (trascuro sempre gli indecisi). Secondo un sondaggio di YouTrend la proporzione è 55 a 45. Secondo un recentissimo sondaggio Swg la proporzione è 48 a 39. Insomma: secondo tutti i sondaggi, gli italiani bocciano l’operazione Albania.

Potremmo fermarci qui, se non fosse per due complicazioni. La prima è che, nello stesso momento in cui i sondaggi sull’opinione pubblica certificano che la gente non apprezza il modello Albania, i sondaggi elettorali non confermano il trend: il consenso ai partiti di centro-destra non cala, anzi ci sono segnali di un ulteriore rafforzamento, con Fratelli d’Italia ormai stabilmente prossimo al 30% dei consensi. Ma c’è anche una seconda complicazione: i sondaggi di questi giorni, a esaminarli attentamente, forniscono una serie di indizi che attenuano l’immagine di un’opinione pubblica risolutamente ostile all’esperimento albanese. Per leggerli, dobbiamo cambiare la domanda: anziché chiederci se gli italiani sono pro o contro quell’esperimento, dobbiamo chiederci quali sono le ragioni per cui sono contro. Ebbene, se spostiamo l’attenzione sulle ragioni, scopriamo diverse cose interessanti. Ad esempio, che sono relativamente pochi i cittadini che osteggiano l’esperimento albanese per ragioni di principio, umanitarie, o di diritto: nel sondaggio YouTrend, sono solo il 23% coloro che si dicono contrari perché l’accordo “viola i diritti umani”; nel sondaggio Swg i contrari in quanto l’accordo “viola il diritto internazionale” scendono addirittura al 15%, appena 1 italiano su 7.

E allora da dove viene la contrarietà?

Leggendo le risposte ai sondaggi, non è difficile capirlo. Una parte dei rispondenti si dice contrario non perché il modello sia iniquo, sbagliato, o disumano, ma semplicemente perché pensa che non funzionerà: questa quota, che potremmo definire di scettici, è pari al 30% nel campione di Euromedia, e al 33% nel campione Swg.

Ma il segmento più interessante è quello di coloro che giudicano negativamente l’esperimento albanese per i suoi costi. Nel campione YouTrend gli spaventati dai costi sono il 32%, nel campione Euromedia sono il 34%. In breve 1 cittadino su 3 disapprova l’accordo perché costerebbe troppo. Combinando le varie risposte, si può concludere che la maggior parte dei contrari lo sono non per ragioni di principio, ma per scetticismo sulla riuscita, o per via dei costi troppo elevati.

La sensazione che si buttassero via i soldi è stata sicuramente aiutata da due cifre ampiamente circolate sui media: l’operazione Albania sarebbe costata 1 miliardo di euro, che sarebbe potuto essere meglio impiegato rafforzando il disastrato comparto
sanitario; le trasferte dei 16 migranti sarebbero costate, da sole, 250 mila euro (15 mila euro a migrante), insomma una vera follia. Di qui la perplessità dei cittadini, l’indignazione delle opposizioni, le denunce per danno erariale, eccetera.

Molto si potrebbe controbattere ad entrambe le cifre e le argomentazioni, in primis la totale assenza di qualsiasi tentativo di condurre una seria analisi costi-benefici del progetto Albania. Qui mi accontento di osservare che la stragrande maggioranza dei
cittadini (compresi alcuni giornalisti e commentatori) non ha la minima percezione degli ordini di grandezza in gioco, al punto che non è raro sentire anche illustri opinionisti confondere i milioni con i miliardi. A molti sembra sfuggire, ad esempio,
che una cifra che può apparire enorme in un contesto familiare (1 milione di euro), ha un peso completamente diverso in contabilità nazionale.

Nel nostro caso è spesso successo che i 650 milioni di euro in 5 anni (costo ufficiale dell’esperimento) venissero presentati come se l’ammontare fosse di 1 miliardo e in 1 solo anno, e come se quella cifra, percepita come enorme, potesse alterare significativamente il bilancio annuale della sanità (in realtà lo altererebbe dello 0.09%). Per capire quanto possa essere distorsivo e forviante ragionare sulle cifre dimenticando che stiamo parlando di voci di contabilità nazionale, vorrei fornire qualche termine di paragone fra voci di spesa riportando tutto a una dimensione familiare, ossia traducendo tutto in spesa per abitante.

Ebbene, negli ultimi anni le cifre medie sono approssimativamente queste. Il valore annuo della spesa sanitaria è di circa 2300 euro per abitante (compresi bambini e i neonati). Il costo annuo del superbonus è stato di circa 500 euro per abitante. La spesa totale per l’accoglienza è dell’ordine di 50 euro all’anno per ogni abitante.

E il costo – ingente, mostruoso, vergognoso – dell’esperimento Albania?

Tenetevi forte: 2.2 euro per abitante all’anno (il costo d 2 caffè). E il costo dell’intera operazione Albania, spalmato su 5 anni? ben 11 euro per abitante.

Di qui un dubbio: siamo sicuri che gli intervistati che si sono dichiarati contrari all’operazione Albania perché troppo dispendiosa avessero idea che il costo per abitante era di 2 euro l’anno? O sapessero di averne sborsati 500 (ossia 250 volte tanti) per permettere a 1 famiglia su 20 di ristrutturare case e ville?

Se la risposta fosse che non ne erano consapevoli (perché per tutti è molto difficile ragionare sulle grandezze di contabilità nazionale), ne scaturirebbe un’altra domanda: come ha potuto, l’esecutivo, non rendersi conto che – in casi come questo – le
intuizioni della gente sono fallaci, e quindi le istituzioni hanno il compito di informare correttamente sulle vere cifre in gioco?

[articolo uscito sul Messaggero il 24 ottobre 2024]

I giudici e l’Albania

23 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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E così anche i 12 migranti (maschi, maggiorenni, non fragili) trasferiti in Albania sono stati riportati in Italia, infliggendo un duro colpo – non sappiamo ancora se fatale – al progetto di (parziale) esternalizzazione delle frontiere del governo Meloni.

La base di questa decisione della magistratura è presto detta. I giudici hanno ritenuto che, per stabilire se i paesi di rimpatrio (Egitto e Bangladesh) potessero essere considerati sicuri, non bastasse la legislazione nazionale (che considera esplicitamente sicuri quei 2 paesi), ma si dovesse tenere conto di una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea (4 ottobre 2024), che ricalca la legislazione italiana, ma se ne discosta su un punto cruciale.

Partiamo dalla legislazione italiana, che si basa su un decreto legislativo del 2008 (e suoi successivi aggiornamenti). Secondo questa fonte un paese può essere considerato sicuro “se sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge
all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione (…), né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa
di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”.

Fin qui non ci sono radicali scostamenti con la Direttiva europea. Le differenze sorgono al momento di esplicitare se il requisito di sicurezza debba valere per tutto il territorio e per qualsiasi categoria di persone, o possa invece prevedere eccezioni (territori insicuri o categorie perseguitate).

La formulazione italiana afferma che “la designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.

La formulazione europea, invece, afferma che le condizioni di sicurezza “devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato”.

Come si vede, si tratta di due approcci decisamente diversi. Se ne potrebbe dedurre che, se deve prevalere l’approccio europeo, in quanto sovraordinato a quello nazionale, bene ha fatto il tribunale di Roma a considerare non sicuri Egitto e Bangladesh, ad esempio perché in entrambi i paesi l’omosessualità è reato, o per le torture inflitte a Giulio Regeni in Egitto.

Le cose, però, non sono così semplici. Una valutazione non faziosa della vicenda Albania dovrebbe prendere in considerazione alcuni aspetti problematici.

Il primo è che, se interpretata letteralmente, la sentenza europea dovrebbe condurre a considerare non sicuri la maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia: più di metà dei paesi del mondo non sono democratici; in più di metà degli stati africani
l’omosessualità è reato; anche nei paesi democratici vi sono porzioni di territorio insicure, controllate dalla criminalità, in cui nemmeno la polizia osa entrare; per non parlare degli abusi delle forze dell’ordine, dal caso Floyd negli Stati Uniti al caso
Cucchi in Italia.

Si potrebbe obiettare che la norma europea non va interpretata letteralmente. Giusto, ma allora salta fuori il secondo aspetto problematico: può essere un giudice, o un collegio giudicante, a decidere quando le eccezioni sono abbastanza lievi da
consentire di qualificare un dato paese come sicuro, e quando sono così gravi da obbligarci a qualificarlo come non sicuro?

Insomma, anche fossimo in presenza di una magistratura imparziale, equilibrata, non politicizzata, è sensato conferirle un potere così spropositato?

Che la risposta sia no si può dedurre da un parallelo e da una considerazione collaterale: ci sono innumerevoli situazioni in cui, nonostante le questioni da decidere siano meno complesse di quella della sicurezza di un intero paese, la legge prevede il
ricorso a periti, esperti, tecnici, specialisti di qualche materia, disciplina o ambito scientifico. Nel caso del problema dello “sicurezza” di un paese, la figura che viene immediatamente in mente è quella del sociologo, e subito dopo quelle degli esperti di
diritto internazionale e di scienza politica. Di qui la domanda: come mai per problemi molto più semplici e circoscritti, come le valutazioni psichiatriche su un imputato, appare ovvia le necessità di ricorrere a un esperto, possibilmente non prevenuto, e
invece, per un problema enormemente più complesso e multidimensionale come la valutazione complessiva della sicurezza di un paese straniero, si presume che possa essere un magistrato a emettere un parere vincolante, nonostante la questione su cui
deve decidere abbia ovvie connotazioni politico-ideologiche?

E il bello è che, se a un sociologo serio si ricorresse, la prima obiezione che farebbe sarebbe la seguente: cari signori, la vostra definizione di “paese sicuro” è troppo vaga, per non dire confusa (noi diciamo fuzzy, ossia sfumata, mal definita) per consentirmi di formulare una risposta; siate molto più precisi, datemi una “definizione operativa”, e allora proverò, entro qualche mese, a fornirvi una valutazione.

Così parlerebbe il nostro ipotetico sociologo interpellato. E, nel caso dei migranti portati in Albania, non riuscirebbe a non chiedere: ma scusate, come avete fatto voi giudici, su una questione così complicata, a decidere in poche ore?

[articolo inviato alla Ragione il 20 ottobre 2024; battute: circa 5200]

A proposito delle elezioni austriache – Il fantasma di Hitler

2 Ottobre 2024 - di Luca Ricolfi

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E così, anche in Austria, come poche settimane fa in Sassonia, Turingia e Brandeburgo (3 länder della Germani Est), le elezioni le hanno stravinte due partiti che la maggior parte dei media definiscono neo-nazisti. Nel caso della Germania il partito vincente è Alternative für Deutschland (AfD), nel caso austriaco è il Partito della libertà (FPÖ), una formazione euroscettica che 25 anni fa, quando era guidata da Jörg Haider, ebbe a creare non pochi problemi a Bruxelles.

La vittoria del Partito della libertà (28.9%), quasi 4 punti in più che alle Europee di pochi mesi fa) è particolarmente significativa perché non avviene a scapito del Partito popolare (conservatore e moderato), che anzi guadagna 2 punti rispetto al risultato delle Europee, ma a scapito dei socialdemocratici (-2 punti) e dei Verdi (-3 punti).

Mai, nella storia elettorale dell’Austria, lo scarto fra i consensi alla destra e quelli alla sinistra era stato così forte: giusto per fare un paragone, in Italia le forze di destra superano quelle di sinistra di circa 6 punti, in Austria di 36.

Ciononostante, è probabile che il Partito della libertà e il suo leader Herbert Kickl (a suo tempo ghost writer di Haider) restino fuori del governo, in base alla dottrina del “cordone sanitario” contro l’estrema destra (come in Francia e Germania): Popolari e
Socialdemocratici austriaci, infatti, hanno seggi a sufficienza per formare un governo, anche senza l’aiuto dei partiti minori (Verdi e Neos, di orientamento liberale).

Ma quali sono le idee di fondo del Partito della libertà austriaco?

Direi che sono fondamentalmente quattro: ostilità alle chiusure durante il Covid; opposizione alle politiche green; contrarietà all’invio di armi in Ucraina (anche perché l’Austria dipende fortemente dal gas russo); difesa dei confini e rimpatrio degli stranieri irregolari (“remigration”).

Come è facile immaginare, il punto più importante è quest’ultimo. Secondo diversi osservatori, l’ostilità verso gli immigrati tipica dei partiti di estrema destra sarebbe connessa a pulsioni razziste, con venature nazionaliste e antisemite. E il fatto che
simili pulsioni si manifestino in area germanica, ossia in due paesi con un passato nazista, è fonte di ulteriori e più gravi preoccupazioni. Preoccupazioni che non possono non ricevere ulteriore impulso dalle ripetute (ancorché isolate) esternazioni
nostalgiche e nazisteggianti di alcuni esponenti del Partito della libertà (e pure di quelli di AfD): sul trionfo elettorale del Partito della libertà, insomma, aleggia il fantasma di Hitler.

Sono giustificate quelle preoccupazioni?

Per certi versi sì. Il passato nazista, con i suoi simboli e i suoi richiami, può offrire alla protesta populista un immaginario inquietante e aggressivo, e alimentare tentazioni di farsi giustizia da sé, innanzitutto contro gli immigrati percepiti come una
minaccia alla sicurezza e ai valori comunitari. In questo senso sì, la vittoria del Partito della Libertà è inquietante.

Per altri versi, però, l’accostamento fra FPÖ e nazismo è fuorviante. Se guardiamo all’ideologia e agli obiettivi del partito di Kickl, non possiamo non notare almeno tre differenze significative con il partito hitleriano. Primo, il nazionalismo dell’FPÖ è pacifista, e tutt’altro che aggressivo o guerrafondaio verso gli stati confinanti. Secondo, nel caleidoscopio ideologico dell’FPÖ una componente essenziale è il libertarismo, come testimoniano le sue battaglie contro le restrizioni Covid, e come suggeriscono le sue origini (fino al 1993 ha fatto parte dell’Internazionale liberale). Terzo, il bersaglio principale sono gli immigrati, in particolare gli islamici, non certo gli ebrei.

Insomma, il paragone con il Nazismo non regge: si può essere pericolosi senza essere nazisti.

Il vero problema è che nessun partito, né in Austria, né in Germania, né altrove in Europa, ha una soluzione per il paradosso migratorio: gli immigrati sono troppi (o troppo poco integrati), per assicurare ordine e sicurezza, ma sono troppo pochi per coprire la domanda di lavoro, specie qualificato. Il tutto complicato dai vincoli legislativi, soprattutto di carattere internazionale e umanitario, che rendono estremamente difficoltose anche modeste misure di espulsione degli irregolari, e persino degli autori di gravi reati.

La realtà, temo, è che chiunque governi – Popolari, Conservatori, Socialisti, “estremisti” di destra – non ha gli strumenti per risolvere il problema migratorio, finché le regole sono quelle attuali. Con un’aggravante, nel caso austriaco: gli stranieri in rapporto alla popolazione sono più del doppio che in Italia (20% contro 9%).

In queste condizioni, è normale che chi – come il partito di Kickl – non ha responsabilità di governo intercetti buona parte della protesta anti-immigrati, e riesca a farlo anche nelle realtà urbane tradizionalmente più favorevoli alla sinistra: nel
territorio autonomo di Vienna, dove la percentuale di immigrati è oltre il 30%, la FPÖ è riuscita a sfondare il tetto del 20%, un risultato eccezionale in una roccaforte progressista.

Di qui il dilemma di socialdemocratici e popolari: imbarcare gli estremisti, rinunciando alla logica del cordone sanitario, o tenerli fuori del governo, con il rischio che – alle prossime elezioni – siano ancora più forti di prima.

[articolo uscito sul Messaggero il 1° settembre 2024]

Remigration

20 Settembre 2024 - di Luca Ricolfi

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Le cose che accadono poco per volta rischiano di passare inosservate. Succede nella vita, quando un rapporto si deteriora giorno dopo giorno, e poi improvvisamente si rompe. Succede in natura, quando la parete di una collina si impregna d’acqua per
giorni e giorni e poi di colpo frana. Succede in economia, quando uno Stato accumula debito pubblico per decenni e poi va a gambe all’aria nel giro di una sola seduta di borsa.

E succede pure in politica, dove un movimento o un partito radicale possono arrivare al potere per approssimazioni successive, di vittoria elettorale in vittoria elettorale. È successo in passato con Mussolini e Hitler, potrebbe risuccedere in futuro – e in parte
già sta succedendo – con i partiti di destra radicale che da anni avanzano (e talora governano) in tanti paesi europei: Alternative für Deutschland (Germania), Rassemblement National (Francia), Partito della libertà (Austria), Veri finlandesi (Finlandia), Democratici svedesi (Svezia), Partito per la libertà (Olanda).

Quasi sempre, in questi casi, il carburante del successo elettorale è il problema degli immigrati, o meglio il monopolio politico-ideologico che sul tema immigrazione esercita la destra, in assenza di una sinistra che del problema sia disposta a farsi
carico (uniche importanti eccezioni: Danimarca e Regno Unito). Una cecità che, a livello europeo, è ancora più macroscopica, perché non riguarda solo la sinistra, ma anche i suoi alleati liberali, verdi e popolari.

Dentro questo processo di lungo periodo, che sospinge verso il potere la maggior parte delle forze politiche di estrema destra (compresi alcuni partiti con frange neo-naziste), esiste però anche una discontinuità, cui rischiamo di non dare la dovuta
attenzione: negli ultimi anni alla richiesta di fermare gli immigrati che vogliono entrare in Europa sta subentrando, sempre più frequentemente e rabbiosamente, la richiesta di riportarli indietro.

Tutto cominciò nel 2022, quando il governo Johnson stipulò un accordo con il governo del Ruanda per trasferire in quel paese i migranti illegalmente sbarcati nel Regno Unito dal 1° gennaio 2022 in poi. Anche se quell’accordo, firmato il 13 aprile
del 2022, ha subito molte traversie, e nemmeno il premier conservatore Rishi Sunak è mai riuscito a renderlo operativo, da lì in poi il problema migratorio si è posto sempre più frequentemente in termini di remigration: in varie forme, l’idea di esternalizzare
il problema ha cominciato a prendere piede in diversi paesi europei.

È successo in Danimarca, dove la ex premier socialdemocratica Mette Frederiksen è riuscita a riconquistare il governo su un programma simile a quello di Johnson e Sunak. Ma è successo di recente anche in Germania, in Svezia, in Olanda, dove l’idea
dei rimpatri più o meno forzati, e più o meno di massa, non piace solo ai partiti di estrema destra, ma – talora – comincia ad attirare l’interesse di governi e partiti di sinistra, come il governo (socialdemocratico) di Scholz, messo in crisi dall’attentato
di Solingen, o il partito BSW di Sahra Wagenknecht, strana formazione politica al tempo stesso di sinistra e anti-immigrazione.

La realtà, verosimilmente, è che in diversi paesi europei il peso demografico degli immigrati, specie se la componente islamica è dominante, sta raggiungendo un livello di guardia, ovvero una soglia difficilmente compatibile con la sicurezza e la pace
sociale. È questo che alimenta la domanda di politiche di rimpatrio o remigration, è questo che porta sempre più cittadini a rivolgersi ai partiti che non prendono sotto gamba il problema dell’immigrazione. Forse è venuto il momento che le forze
politiche progressiste ne prendano atto, se non vogliono improvvisamente risvegliarsi in un’Europa in cui nessun governo è possibile senza i voti dell’estrema destra.

[articolo uscito sulla Ragione il 17 settembre 2024]

Kamala Harris versus Donald Trump – Elezioni americane e politicamente corretto

29 Luglio 2024 - di Luca Ricolfi

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In un solo giorno è cambiato tutto. Prima della rinuncia di Biden, nessuno avrebbe scommesso sulla vittoria dei Democratici alle presidenziali di novembre. Dopo le sue dimissioni, nessuno esclude che, con Kamala Harris, i Democratici possano vincere e
restare alla Casa Bianca.

I sondaggi concordano su un solo punto: lo scarto fra Trump e Harris è modesto e dello stesso ordine di grandezza dell’errore statistico. E a questa incertezza si aggiunge quella sui vice. Harris non ha ancora scelto il suo vice, né potrebbe essere diversamente, visto che non ha ancora ottenuto l’investitura ufficiale come candidata dei Democratici. Quanto a Trump, ha già fatto un errore: scegliere il proprio vice (J.D. Vance) senza sapere ancora chi sarà il suo avversario. C’è chi dice che, se avesse saputo che a sfidarlo sarebbe stata una donna, avrebbe scelto come vice un’altra donna (verosimilmente la sua ex acerrima rivale Nikki Haley).

Alcuni dei temi in campo sono i soliti: economia, immigrazione, diritti. Altri sono nuovi: guerra in Ucraina, guerra a Gaza. Ma è verosimile che, ad infiammare la competizione, saranno soprattutto due temi generali: la gestione dell’immigrazione
(in particolare del confine con il Messico); la questione dei diritti riproduttivi, delle minoranze sessuali, e più in generale della cultura woke.

Su questi due versanti Harris e Trump hanno, entrambi, punti deboli e punti forti.

Sull’immigrazione, Trump non potrà maramaldeggiare troppo perché Harris non è certo stata una paladina delle frontiere aperte, ha anzi più volte preso posizioni che in Italia siamo abituati ad associare a Salvini e Meloni: non venite, vi aiuteremo a casa
vostra, no al traffico di esseri umani, esternalizzazione delle richieste di asilo in paesi terzi (il nostro modello Albania). Trump potrà anche accusarla di non aver fatto abbastanza, ma non certo di aver spalancato i confini. Semmai, le critiche a Kamala
Harris potrebbero arrivare dalla sinistra del partito democratico (Bernie Sanders e Alexandria Ocasio Cortez), schierata su posizioni aperturiste. Insomma, in materia di immigrazione Kamala Harris si è comportata in modo moderato, se non di destra.

In termini diametralmente opposti stanno le cose sul tema dei diritti. Qui Kamala può vantare un non ambiguo posizionamento pro aborto e pro diritti LGBT+, una linea che la colloca nel cuore della cultura woke. Ma proprio questo suo radicalismo in
materia di diritti rischia di farne il bersaglio perfetto della guerra contro il wokismo dichiarata da Trump e dal suo vice. Una guerra che, in America, è molto più vasta e coinvolgente che da noi. E che non è detto trovi donne, neri, ispanici, compattamente schierati a sostegno della candidata democratica. Kamala Harris, ad esempio, ha l’ostilità del movimento Black Lives Matter, che non ha gradito la sua antidemocratica investitura dall’alto. Quanto alle donne, la maggioranza apprezza la difesa dell’aborto, ma una parte delle femministe non gradisce l’appoggio alle istanze dei transessuali, in particolare dei trans MtF (da maschio a femmine), accusati di invadere gli spazi tradizionalmente riservati alle donne.

E poi c’è il tema forse più importante: il politicamente corretto e più in generale la mentalità woke. Una etichetta che un tempo significava solo politica degli eufemismi (sostituire donna di sevizio con colf), ma negli ultimi anni – proprio negli Stati Uniti
– ha enormemente allargato il suo significato, ben al di là del semplice bon ton linguistico. In nome della correttezza politica i campus studenteschi si sono trasformati in campi di rieducazione, migliaia di professori hanno subito sanzioni o perso il posto, la selezione dei candidati e le promozioni hanno sempre più punito le maggioranze “normali” (maschi e femmine bianchi eterosessuali) a favore di minoranze etniche o sessuali, specie se politicamente impegnati in cause ritenute giuste e prioritarie: anti-razzismo, giustizia sociale, inclusione.

Più in generale si è enormemente allargata la frattura fra due mondi: da una parte l’establishment istruito, che occupa le posizioni chiave nell’economia, nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel mondo della comunicazione, e in virtù della sua adesione alle istanze woke si sente portatore di una superiorità etica; dall’altra i ceti popolari a bassa istruzione, perennemente alle prese con le asperità della vita quotidiana, e del tutto insensibili alle sottili questioni linguistiche e giuridiche che appassionano l’élite colta. Questo è il terreno di scontro ideale per i Repubblicani, perché permette loro di presentarsi come paladini della libertà di espressione (contro la censura) e della meritocrazia (contro la politica delle quote). Già nel 2016 l’insofferenza per gli eccessi del politicamente corretto aveva aiutato l’elezione di Trump. Se vuole vincere, Kamala Harris farà bene a non scordare quella lezione.

[Articolo uscito sul Messaggero il 28 luglio 2024]

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