Politica e morale

Ha suscitato un certo scalpore, a sinistra, la recente vicenda di Inigo Errejón, deputato progressista spagnolo, portavoce della coalizione SUMAR, un raggruppamento di una ventina di sigle di sinistra radicale che, con il loro 12% di consensi, hanno permesso al socialista Pedro Sanchez di formare il suo terzo governo, con vicepresidente Yolanda Diaz, storica dirigente di Unidas Podemos (unite possiamo), primo e unico partito europeo che usa il femminile sovraesteso.

I fatti, in breve. Pare che, qualche anno fa (era il 2021) il vispo quarantenne abbia aggredito sessualmente l’attrice Elisa Mouliaa, chiudendo a chiave la stanza in cui si trovava con lei e mostrandole il membro. Fin qui è una notizia orribile fra le tante, e non è
neppure certo che sia vera (sarà un processo a stabilirlo, o meglio a stabilire la verità giudiziaria sulla vicenda).

Quel che è interessante è lo sconcerto con cui la notizia è stata presa da molti. Ma come, una persona così per bene, così istruita, così progressista, così impegnata sulle battaglie a difesa delle donne, come è possibile che si comporti in questo modo? Da uno così “non ti aspetti che ti spinga sul letto, che chiuda la porta a chiave e che per quanto tu gli dica che cosa stai facendo sguaini la prova evidente del suo genere, in questo caso maschile, con la non benvenuta intenzione di condividerla” (Concita De Gregorio su Repubblica).

Lasciando da parte i giri di parole scelti per descrivere un’aggressione sessuale, concentriamoci sullo sconcerto, ben evidenziato anche dal titolo dell’articolo (“Il MeToo che non ti aspetti”). Ecco, a me quello che sconcerta è lo sconcerto. Notate bene: non il
dispiacere, la rabbia, l’indignazione, l’orrore, il disgusto, ma proprio lo sconcerto. Lo stupore. L’accadere di una cosa “che non ti aspetti”.

Ma perché mai dovremmo non solo sentire disgusto, ma pure stupirci? Qual è la matassa di pregiudizi da cui un simile stupore scaturisce? L’articolo citato lo spiega bene, quando snocciola la serie di antecedenti della vita di Errejon, antecedenti da cui sarebbe stato lecito aspettarsi un comportamento più civile: il ragazzo era “cresciuto negli scout”, “si è laureato alla Complutense di Madrid, la più prestigiosa e selettiva delle università”, nientemeno che “con tesi di critica alle egemonie e studio delle identità”. E poi, soprattutto, “ha fondato il primo partito che usa il femminile sovraesteso per definirsi” (Unidas Podemos), “a compensazione della millenaria sopraffazione lessicale”.

L’elenco delle fonti di stupore non potrebbe chiarire meglio qual è l’idea di fondo sottostante: le aggressioni sessuali non te le aspetti dai maschi istruiti, meno che mai se sono progressisti. Implicazione logica: suscitano meno stupore se provengono da maschi di ceto basso, specialmente se sono di destra.

Ma qual è la base empirica di simili credenze? Non sono a conoscenza di alcuno studio che permetta di affermare che le persone colte e di idee progressiste siano meno propense a commettere reati sessuali delle persone poco istruite e di destra.

Forse sarebbe meglio che cominciassimo a prendere in considerazione un’ipotesi più semplice e più basica: le aggressioni sessuali sono il precipitato di un mix, singolare e a suo modo unico, di esperienze, circostanze contingenti, vicende personali, pressioni
ambientali, condizionamenti culturali, disturbi della personalità, che possono – per un determinato individuo – condurlo a comportarsi in un determinato modo.

Pensare che la cultura o le credenze politiche possano esercitare un effetto sistematico su comportamenti così estremi e ripugnanti è ingenuo. Soprattutto, è ingenuo pensare che l’ideologia possa influenzare in modo apprezzabile i comportamenti, a sinistra come a destra. Se l’ideologia contasse davvero, i politici conservatori e pro-famiglia non sarebbero quasi tutti divorziati o conviventi, e i maschi che lavorano nel mondo dello spettacolo (quasi tutti progressisti) non incapperebbero così sovente in scandali sessuali.

E il principio vale anche per altri comportamenti. Pensate all’evasione fiscale: se l’ideologia contasse davvero, gli insegnanti che danno ripetizioni private (in maggioranza progressisti) non accetterebbero di farlo in nero, come quasi sempre fanno.

Ma, forse, non tutto il male vien per nuocere: lo scandalo Errejon è l’occasione, per la sinistra, di liberarsi del complesso di superiorità morale che da sempre l’affligge.

[articolo uscito sulla Ragione il 29 ottobre 2024]




Dai vecchi partiti-chiesa alle Srl minestrone di oggi. Ne è valsa la pena?

I vecchi partiti politici, che in Europa hanno scritto due secoli di storia e che quasi dovunque stanno esaurendo la loro carica vitale, hanno rappresentato qualcosa che forse ci toccherà rimpiangere a lungo.

In un certo senso, erano delle vere e proprie chiese, sia che si ispirassero alla moderna laicità illuministica sia che traessero alimento spirituale dal cristianesimo, cattolico o protestante. A caratterizzarli era una Weltanschauung, una impegnativa visione del mondo alla luce della quale veniva giudicato il passato e si elaboravano programmi di riforma della società, non necessariamente in senso progressista. Ogni partito presentava tre volti: l’ideologia – la sua specifica political culture – il programma elettorale (che poteva mutare, almeno in parte, di volta in volta), le battaglie concrete con cui voleva essere identificato – ad es., il divorzio, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’adesione alla Nato etc. etc. In genere, nessuno si prendeva la briga di leggere i programmi – spesso ampollosi, troppo tecnici, sostanzialmente noiosi – ma si era molto attenti agli obiettivi specifici per cui un partito s’impegnava a battersi. E ancor più, va sottolineato, all’ideologia che fissava l’identità etico-sociale del militante e dell’elettore abituale. Quando si entrava nella grande sala con le pareti piene dei ritratti dei nobili antenati – si chiamassero Filippo Turati o Giacomo Matteotti, Luigi Sturzo o Alcide De Gasperi, Luigi Einaudi o Benedetto Croce, Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti – si era disposti a ingoiare più di un rospo se i leader del partito decidevano politiche o contraevano alleanze poco gradite. Si tolleravano scelte tattiche discutibili giacché si era rassicurati dal far parte di una comunità etico-politica su cui vegliavano i grandi del passato.

L’ideologia era, nel senso di Guglielmo Ferrero, il collante di legittimità dei partiti, il garante della loro continuità nel tempo, il deposito bancario sul quale si poteva sempre contare nei periodi bui. “Basta esporre la vecchia bandiera socialista e avremo di nuovo migliaia di iscritti”, pare avesse detto un vecchio socialista al rientro in Italia dopo l’esilio cui l’aveva costretto il fascismo. Quella bandiera era un simbolo quasi religioso, rinviava a idealità, a storie esemplari, a “filosofie”, nel senso forte del termine, che non si esaurivano certo nelle pur condivise richieste della Repubblica e della Costituente (parole d’ordine lanciate, con la sua foga generosa, da Pietro Nenni). Alla stessa maniera, lo scudo crociato indicava la casa in cui si sarebbero potuti raccogliere tutti i cattolici, almeno quelli che avevano accettato lealmente le regole e le istituzioni della democrazia liberale e, abbandonando ogni posizione temporalista, la separazione tra Chiesa e Stato. I più “moderati” potevano anche accettare l’alleanza tattica con i partiti “atei e materialisti” della sinistra giacché a rassicurarli era, per così dire, la “comunità di partito” ovvero la “famiglia spirituale” le cui tattiche – anche le più spregiudicate – rimanevano sempre in funzione di una strategia lungimirante volta a impedire che il processo di modernizzazione si risolvesse in una devastante secolarizzazione.

In Italia, grazie a magistrati integerrimi come Francesco Saverio Borrelli, quel mondo non esiste più: i partiti non sono più familles spirituelles ma, absit iniuria verbis, comitati d’affari (in prevalenza) della borghesia. Ci si unisce, si smantellano le vecchie federazioni, si formano nuove formazioni politiche in vista di obiettivi limitati e, spesso, in nome di un anti invece che di un pro. Fermare la “resistibile ascesa” di Craxi, di Berlusconi, di Renzi, di Salvini porta a vedere a braccetto in una stessa formazione politica Monica Cirinnà e vecchi democristiani, atei razionalisti e quanti si richiamano (dicono di richiamarsi) a Sturzo e a De Gasperi. Ci troviamo dinanzi a “società a responsabilità limitata” dove ciascun azionista pensa di rimanere se stesso giacché gli è garantita libertà di coscienza sulle grandi questioni etiche. In questa maniera, però, mi sembra difficile “salvarsi l’anima” e il rischio reale è quello di diluire le vecchie identità del passato in una marmellata ideologica, che si traduce nella statua di Aldo Moro con l’Unità in tasca.

In altre parole, non assistiamo alla laicizzazione dei partiti ma a un melting pot culturale che ne stravolge i connotati tradizionali. Partiti divenuti “leggeri” sono ormai uniti da un’inconsapevole ideologia “leggera” anch’essa: ma, a guardare bene, solo in apparenza. Per fare un esempio, Alcide De Gasperi è ormai quello di Pietro Scoppola – è l’uomo di centro che guardava a sinistra – Luigi Sturzo è l’interlocutore di Piero Gobetti se non di Antonio Gramsci, Luigi Einaudi è l’antisovranista per antonomasia, rivendicabile anche da Critica liberale (organo di un laicismo fazioso, alla Ernesto Rossi, che si riteneva scomparso per sempre). Le giornate degasperiane del Trentino vengono affidate all’appeal di Ferruccio de Bortoli e di Lella Costa (famiglia Gad Lerner)! Anche nelle iconografie risorgimentali si vedevano a braccetto Pio IX, Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi, ma allora il problema era quello di “fare l’Italia”, di costruire la nazione e uno Stato moderno, non quello di rifondare il sistema politico contro “nemici” che in una “democrazia a norma” si dovrebbero riguardare (e rispettare) come “avversari”.

Nelle aggregazioni dell’epoca post-partitica, i colori si sono come diluiti, i volti della storia ormai si somigliano tutti, i valori si sono omogeneizzati, le opposte scelte di campo di un tempo sono state riassorbite (in fondo anche per Berlinguer la Nato era uno scudo protettivo!) e del tanto esaltato Piero Gobetti si rimuove l’appello intransigente ognuno al suo posto!: ovvero resti ciascuno fedele alle sue memorie e alle sue tradizioni. Intendiamoci: che un deputato cattolico su questioni rilevanti – come il welfare state, la politica estera, l’immigrazione – si allei con chi è a favore del divorzio, dell’aborto (e lo scrivente ha votato per l’uno e per l’altro), del matrimonio e adozione gay, non è certo motivo di scandalo, ma che faccia parte dello stesso partito della Cirinnà, la cui concezione della famiglia è antitetica a quella di Papa Bergoglio (per citare un pontefice in odore di anticapitalismo terzomondista) è qualcosa che si spiega solo con la retrocessione di una questione etico-politica grande come una montagna – la questione della famiglia, appunto – a fatto privato, a “problema di coscienza”. Non esprimo giudizi morali – non è compito dello studioso – mi limito a constatare un fatto e mi chiedo se un mutamento epocale come questo ci renda migliori o peggiori. Specie se si pensa che le sintesi leggere fanno pagare ad ogni elemento versato nell’infuso il prezzo della mutilazione ovvero la rinuncia “a prendere troppo sul serio” i valori che lo avevano fatto entrare nella storia. Ha ragione, pertanto, Eugenio Scalfari – e ha torto Franco Carinci che lo critica – a porre nel codice genealogico del Pd capostipiti come Piero Gobetti, i fratelli Rosselli e forse anche Guido Dorso e Altiero Spinelli. Se è vero, infatti, che “i nomi citati non sono collocabili fra i fondatori e sostenitori del PCI”, non è così scontato che “appartengono tutti alla cultura democratica” (dopo quanto ne hanno scritto Giuseppe Bedeschi, Ernesto Galli della Loggia, Luca Ricolfi)?. In realtà, quei nomi, quei simboli, rinviano a una sinistra et/et, socialista e “liberale”, nazionale e internazionalista, italiana ed europea, europea e cosmopolitica, non più nemica del capitalismo ma sempre, sotterraneamente, antiamericana, dove ciascuno può trovare quel che gli piace e nessuno è tenuto a fare i conti col proprio passato, non dovendo rispondere dell’accusa di apostasia.

Dovevano, certo, abbandonare le scene i partiti “forti”, disciplinati e dogmatici ma senza sottrarsi alle loro colpe storiche oggettive e, semmai, rivendicando fieramente i valori che li avevano indotti a guardare con interesse ai regimi politici poi crollati. Diventando un “partito radicale di massa”, come previde genialmente Augusto Del Noce in anni lontani, le vecchie sinistre hanno perso la loro anima ma non hanno reso un buon servigio al Paese giacché gli stanno fornendo – e da tempo – un “minestrone ideologico” che sta insieme solo con lo sputo, inventandosi di volta in volta un’invasione barbarica (di nazionalisti, di sovranisti, di razzisti) alla quale i loro antichi elettori non credono più.

Pubblicato su Atlantico il 6 agosto 2019



Idee e Istituzioni

Le grandi domande sul fondamento della nostra civiltà occidentale, che molti vedono sulla via del tramonto, sono destinate a non trovare mai una risposta convincente. I valori si vivono e non si motivano e quando si vivono non si sente il bisogno di giustificarli, come non si ragiona sull’amore per la propria madre. A questa idea, di cui sono sempre più convinto, è stato obiettato da un amico, uno dei pochi filosofi morali in circolazione che stimo: «Certamente anche i valori appartengono al mondo dei sentimenti, ma non si riducono a questo, tant’è che su di essi (religiosi, morali, civili, estetici) si discute da sempre e si sente il bisogno di giustificarli, anche perché coloro che hanno valori diversi dai nostri li contestano con argomenti intellettuali di vario genere. La religione e l’etica non si possono ridurre al puro emotivismo, come hanno tentato di fare alcuni filosofi neopositivisti». L’argomento è ineccepibile e ammetto che la metafora dell’amore materno poteva essere fuorviante. Rimane il fatto che i valori si possono argomentare, e ci sono diverse strategie per farlo, ma che nessuno riuscirà mai a dimostrare la superiorità o la maggiore validità dell’uno rispetto all’altro e, quindi, l’emotivismo cacciato dalla porta rispunta dalla finestra. Perché la Pace dovrebbe essere preferita alla Guerra? Perché il principio dell’Autorità varrebbe meno del principio della Libertà? Proprio perché ciascun individuo, ciascun gruppo, ciascuna agenzia politica, sociale e spirituale può avere credenze, ideali e progetti diversi si moltiplicano le sedi del confronto e della discussione, al fine di trovare una composizione (e una gerarchia ideale) che eviti la guerra di tutti contro tutti. Sennonché questi padiglioni etici e culturali, queste grandi impalcature in cui si dibatte, si argomenta, ci si scontra etc., stanno pur sempre nei giardini degli Stati, la versione moderna della comunità politica, che ne tiene sotto controllo la valenza esplosiva, anche fissando regole inique giacché è difficile porli tutti sullo stesso piano.

«Quando una civiltà, come sta accadendo alla nostra, non crede più nei suoi valori fondanti e cessa di difenderli con argomenti razionali (o pseudo tali, ma questo è secondario), anche le istituzioni collassano», scrive l’amico filosofo. E qui non sono più d’accordo. È il collasso delle istituzioni, che non è lo stesso in tutti i paesi delle due rive dell’Atlantico, ma presenta gradazioni e crepature diverse, a rendere i “valori fondanti” incomprensibili e irrilevanti come i duelli sulla Grazia e sul libero arbitrio tra il gesuita e il giansenista nel film di Luis Bunuel La via lattea(1969). Il nostro scetticismo, il nostro relativismo, il nostro empirismo non sono la causa dell’indebolimento delle nostre “radici” e tale indebolimento non è la malattia mortale che ha colpito le istituzioni politiche. Al contrario, è la morte delle istituzioni, che sarebbe riduttivo ridurre alla morte della patria, che ne è l’aspetto sentimentale e coscienziale che, proiettandosi nel passato, ci fa avvertire i paesaggi spirituali in cui siamo vissuti come irreali: fantasmi  che si allontanano sempre di più sull’orizzonte della vita vissuta, portandosi dietro Platone e Aristotele, Pagani e Cristiani, Agostino e Tommaso, Bossuet e Voltaire, Montaigne e Leibniz, aristocrazia e clero, Kant ed Hegel, Marx e Spencer, Illuministi e Romantici, borghesi e proletari. Cosa rappresentano più tutti questi “momenti dello spirito europeo” e che cosa hanno più a che fare con una società incerta sulla propria sopravvivenza e prosperità economica, come la nostra, che ha il problema della difesa dalle nuove grandi trasmigrazioni dei popoli e della protezione delle vittime della inarrestabile globalizzazione? È come se, una volta chiuso o reso progressivamente inagibile il campo sportivo in cui si svolgevano le partite di calcio, non avessero più senso né le partite, né i giocatori, né le classifiche, né i trofei sportivi: un fatto esterno vanifica il senso interno della convivenza civile. A mio padre, giovane fascista ”avanguardista”, non sarebbe mai venuto in mente di pensare: «ma perché dovrei ritenere l’Italia un valore appena al di sotto di Dio e appena al di sopra della famiglia?». Cominciò a porsi domande, a chiedersi «ma che cos’è poi questa nazione per la quale si dovrebbe essere disposti a rischiare la vita?», quando crollarono le istituzioni sotto i bombardamenti degli Alleati.

«Ma perché la fede resti viva e operante −prosegue il mio stimato interlocutore− occorre, come ci insegnano le religioni, che venga sostenuta da un’apologetica. Non basta la parola di Cristo, occorrono anche Agostino, Tommaso e l’opera oscura di mille parroci che spiegano ogni domenica al popolo i “misteri” della fede. Dove sono oggi, nella nostra società del disincanto spinto fino al cinismo, i teologi e i parroci della religione della libertà? Chi si incarica di tenere viva questa fede? Al più c’è qualcuno che, con argomenti più o meno discutibili, fa l’apologia della libertà economica». Sono d’accordo, ma la fuga degli dèi, la diaspora dei loro sacerdoti non ha nessun rapporto con la corrosione interna del potere politico che sosteneva quel mondo e ne teneva in equilibrio (sempre precario) le varie componenti? Non è casuale che “l’apologia della libertà economica” (che, a scanso di equivoci, è anche per me una componente fondamentale della libertà liberale) sia rimasta l’unica vexata quaestio, all’ordine del giorno del dibattito pubblico e che non si avverta affatto il parlarne come un innocuo dispersivo?

Non sono un determinista ma penso che non siano le idee a mettere in crisi le istituzioni ma la qualità scadente delle istituzioni (la loro scarsa tenuta, la loro debolezza) a “far venire certe idee” e spesso a farci ripiegare in un pessimismo antropologico che proiettiamo poi sull’universo intero. Non è questione di giovinezza e di vecchiaia, è il sospetto che nasce in questi casi quando è superata la soglia dei settant’anni, ma se le nostre concezioni del mondo, le nostre idee (e chiamiamole pure “ideologie”) di mezzo secolo fa  erano diverse da quelle attuali  lo si deve forse al fatto che  il sistema istituzionale reggeva ancora, almeno un poco, grazie anche alla centralità della DC, garante e fattore di stabilità, comunque si vogliano giudicare oggi i suoi uomini, i suoi programmi, i suoi stili di governo. Il nostro piccolo mondo antico, almeno fino alla svolta cruciale del ’68, era un mondo ordinato in cui ideologie e partiti ben definiti trovavano uno spazio e una funzione inequivocabili. È la ragione che spiega come una sinistra che finalmente è diventata forza di governo possa, in incaute dichiarazioni dei suoi esponenti ma, soprattutto, in tanti “discorsi a tavola”, rimpiangere gli anni che la vedevano all’opposizione e, quindi, lontana dalla nenniana stanza dei bottoni. È proprio il caso di dire: “si stava meglio quando si stava peggio”, giacché allora la casa era in ordine, l’ordine non piaceva ma era pur sempre un ordine. Ci si batteva per una migliore ridistribuzione delle carte (anche radicale) ma non si pensava di rovesciare il tavolo di gioco. Oggi che l’edificio (istituzionale) è andato in pezzi meraviglia che tutto si confonda nella mente, che ci si chieda, sempre più spesso: cos’è lo stato nazionale? Cosa sono destra e sinistra? Quali sono i valori e gli interessi che tengono unito quello che, prima del 1861, appariva al grande Alessandro Manzoni “un volgo disperso che nome non ha”?

«Ma perché le istituzioni sono franate?», mi chiederà l’amico filosofo, per richiamarmi all’importanza strutturale dei fatti sovrastrutturali (le idee, i valori, le visioni del mondo). Rispondere in termini realistici significa aprire un nuovo capitolo, far riferimento all’ordine internazionale, alle sfide della guerra fredda, all’incapacità delle istituzioni di venir incontro ai bisogni dei tempi nuovi, alla stessa political culture di un paese, che nel caso italiano ha fatto spesso registrare una crescente alienazione dei cittadini nei confronti delle istituzioni, spesso tradotta in populismi più o meno totalitari, alle difficili relazioni le due grandi potestà ereditate dal Medio Evo: l’Ecclesia e l’Imperium.

Mi rendo conto, però, che queste considerazioni sono destinate a cadere nel vuoto e, soprattutto, a deludere profondamente il lettore giacché non prefigurano, neppure in modo vago, quale potrebbe essere il nuovo sistema politico che, riportando l’ordine nei rapporti sociali e la stabilità nelle menti, potrebbe ricostruire i padiglioni dello Spirito che l’abbandono dei giardinieri ha lasciato nella desolazione e nell’insignificanza. L’Europa che, ristrutturando se stessa e dotandosi di una vera autorità federale democratica, potrebbe riassettare la vecchia casa continentale e in tal modo contribuire validamente all’ordine planetario? È difficile crederlo anche perché, come capita in tutte le stagioni di decadenza (vera o presunta), l’esperienza del passato sembra non insegnare nulla. E, d’altra parte, da tempo sono portato a credere che tra i segni inequivocabili della crisi, che stiamo attraversando da quarant’anni, il più inquietante sia proprio la perdita di quel realismo che era l’anima più vera dello storicismo. La storia è ormai il faldone di pratiche accumulate sui tavoli dei GIP e dei PM educati alla scuola del politically correct e dell’universalismo buonista. Il loro compito è stabilire quante condanne e quante assoluzioni vanno riservate ai protagonisti dei grandi eventi del passato prossimo ma anche remoto (se non remotissimo), dove sono moltissimi i casi meritevoli di damnatio memoriae e davvero pochi i casi riguardanti gli individui da riabilitare. (Bontà loro!).