Modellare il mondo? – Riflessioni sulla questione palestinese

Come racconteranno la questione palestinese gli storici del futuro? Una possibilità è che non la raccontino affatto, perché, ove la miccia accesa da Hamas (e amplificata dalla reazione Israele) dovesse sfociare nella terza guerra mondiale, difficilmente ci saranno ancora degli storici.

Ma supponiamo che la terza guerra mondiale non scoppi, che a un certo punto l’incendio si spenga, e che – magari fra 50 o 100 anni – israeliani e palestinesi abbiano trovato un modus vivendi. Come verrebbe raccontata quella storia?

Una possibilità è che accada quel che, a sentire gli psicoterapeuti di orientamento sistemico, accade nella terapia di coppia. I coniugi in conflitto ricostruiscono la propria vicenda in modo diverso, ma la diversità sta essenzialmente nella punteggiatura: per l’uno il fatto decisivo è x, e quel che è seguito a x è solo la (giustificata) reazione a x, per l’altro il fatto decisivo è y, e quel che è seguito a y è solo la (giustificata) reazione a y. Così lui e lei si incolpano a vicenda della rottura della relazione, e il problema del terapeuta diventa rompere il circolo senza fine delle accuse reciproche. È possibile che lo facciano anche gli storici del futuro se, come oggi spesso accade, la preoccupazione principale non sarà di ricostruire i nessi causali fra eventi ma di dare ragione a un contendente e torto all’altro. La storia del conflitto arabo-israeliano si presta perfettamente a questa deriva narrativa, perché in effetti è facilissimo raccontarla come una serie di azioni e reazioni: proclamazione dello Stato di Israele, guerra degli Stati circostanti per distruggere il nuovo Stato, risposta vittoriosa di Israele e annessione di nuovi territori, nuova guerra contro Israele (guerra dei 6 giorni, 1967), nuova espansione di Israele che si annette la penisola del Sinai, nuova aggressione degli Stati arabi (guerra dello Yom Kippur, 1973), nuove annessioni e occupazioni di terra da parte di Israele, proliferazione dei gruppi terroristici, rappresaglie israeliane, prima e seconda Intifada, eccetera eccetera…. Il tutto intervallato da innumerevoli tentativi di arrivare alla pace, per lo più basati sullo scambio fra riconoscimento di Israele e ritiri parziali dell’esercito israeliano dai territori occupati.

C’è anche una seconda possibilità, però. Ed è che gli storici non si dividano fra filo-palestinesi e filo-israeliani, ma provino a guardare alla tragedia israelo-palestinese in un’ottica più ampia. Un’ottica che includa non solo gli Stati coinvolti nei conflitti, ma anche le organizzazioni sovra-nazionali – a partire dall’Onu – che hanno interferito con essi o provato a regolarli. Non si può escludere che, in tal caso, emerga una lettura dei fatti radicalmente diversa da quelle convenzionali. Una lettura al cui centro sta la domanda: non sarà che il peccato originale, la scintilla che ha fatto deragliare il treno della storia, sia proprio la pretesa delle Nazioni Unite – con il piano di suddivisione della Palestina del 1947 – di regolare i conflitti senza avere il monopolio della forza? Non sarà che la incessante proclamazione di diritti in assenza di qualsiasi capacità di farli rispettare sia una fonte perpetua di disordine, risentimento, violenza? Non sarà il “costruttivismo”, ossia l’idea che esista un ordine giusto e razionale calabile dall’altro, il male che ha devastato gli equilibri euro-asiatici nei decenni a cavallo dei due millenni? Che cosa sono gli interventi militari in Kossovo, in Libia, in Afghanistan, in Iraq se non tentativi maldestri di pilotare il corso della storia secondo principi che ci paiono giusti?

Forse dimentichiamo che una pace deve, prima ancora che giusta, essere stabile, ossia non foriera di nuovi e più sanguinosi conflitti. O forse, più semplicemente, dimentichiamo il monito di Guido Ceronetti che, pochi anni prima di morire, proprio a proposito dei conflitti mediorientali, ricordava un detto del libro di Lao Tzu: “Il mondo non è modellabile. Chi lo modella, lo distrugge”.




La necessità di capire – Come ragionano israeliani e palestinesi

Dopo l’orrore, per molti di noi è il tempo dello sconcerto. Il 7 ottobre abbiamo assistito, sia pure da lontano, al più barbaro episodio di violenza antisemita dai tempi delle camere a gas, eppure una parte dell’opinione pubblica tentenna. Non solo c’è chi inneggia ad Hamas (pochi, per fortuna), ma c’è un vasto movimento di opinione che, pur senza esaltare esplicitamente l’eccidio, non trova le parole per condannarlo. Si scende in piazza a sostegno della causa palestinese, si denuncia il bombardamento dell’ospedale di Gaza city (come se fosse opera di Israele), si nega il diritto di Israele a decidere come difendersi. Più fondamentalmente, e semplicisticamente, si pensa la vicenda israelo-palestinese come una tragedia in cui i buoni sono tutti da una parte (palestinesi) e i cattivi tutti dall’altra (Israele).

Di qui lo sconcerto. Come è possibile che, dopo 78 anni di retorica anti-fascista e anti-nazista, dopo aver spedito centinaia di migliaia di scolaresche ad Auschwitz, dopo aver istituito, celebrato e ricelebrato innumerevoli volte il “giorno della memoria”, dopo il diluvio di discorsi sul “dovere di non dimenticare”, siamo ancora qui a fare i conti con l’antisemitismo? Come è possibile che l’antisemitismo riemerga in occidente? E come è possibile che, quando lo fa, sia quasi sempre a sinistra?

La risposta facile è: noi ce l’abbiamo solo con Israele, non con gli ebrei. Ma è una risposta fasulla, oltreché vecchia (la ascolto dagli anni ’60). Se fosse così, non assisteremmo a migliaia di episodi – aggressioni, profanazione delle tombe, discorsi d’odio sui social media – che hanno come bersaglio singole persone di fede ebraica in Europa, negli Stati Uniti, in Canada. Soprattutto, ascolteremmo le più severe condanne nei confronti di Hamas, i cui uomini non hanno attaccato lo Stato di Israele, i suoi militari, i suoi politici, ma hanno rivolto la loro cieca violenza contro singoli e inermi cittadini, colpevoli soltanto di essere ebrei.

Ma allora qual è la risposta? Perché una parte dell’opinione pubblica è così severa con Israele e così indulgente verso Hamas?

Una ragione, senza dubbio, è l’infantilismo della mentalità woke: oggi, molto più di 30 o 40 anni fa, il mondo progressista ragiona secondo lo schema manicheo forti-deboli, con l’occidente, i paesi ricchi, e quindi innanzitutto Israele, nel ruolo di forti & cattivi. Siamo sempre lì, al “singhiozzo dell’uomo bianco” (come lo chiamava Pascal Bruckner) che vede automaticamente dalla parte del torto la civiltà occidentale, e nel ruolo di vittime tutte le altre, specie se sono ancora povere.

Ma c’è anche un’altra ragione, ed è che ci ostiniamo a leggere le vicende del medio-oriente con le nostre categorie e i nostri fantasmi, senza fare il minimo sforzo per entrare nella testa di israeliani e palestinesi. Eppure, se lo facessimo, potremmo renderci conto di tante cose. Ad esempio, che sia la società israeliana sia la società palestinese sono (ancora) società “durkheimiane”, in cui l’individuo è meno importante dell’entità collettiva cui appartiene (comunità, stato, nazione). A noi fa orrore il solo pensiero che la gioventù di Israele possa essere mandata a combattere, come non ci capacitiamo del fatto che gli ucraini sparsi per il mondo volessero tornare in patria per respingere l’invasore russo. La nostra avversione al rischio è incomparabilmente maggiore di quella dei membri delle società durkheimiane (e di quella della nostra stessa società un secolo fa), e ci rende inconcepibile il ricorso alle armi. Non per nulla al tempo degli euromissili (1977) e dell’Unione sovietica c’era chi diceva “meglio rossi che morti”, e al giorno d’oggi si possono sentire ascoltati giornalisti proclamare che gli ucraini avrebbero dovuto arrendersi ai carri armati russi. L’idea che per la libertà si possa mettere a repentaglio la propria vita ci è divenuta del tutto estranea. Come ci è divenuta estranea l’idea che in ogni guerra vi siano vittime civili, come se non avessimo memoria dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale.

Ma altrettanto incomprensibile, per molti di noi, è diventato quel che succede sul versante palestinese. Da un lato, si esita a riconoscere che quel che distingue il terrorismo dalle varie forme di resistenza e di lotta armata è la deliberata uccisione di civili, compresi anziani, donne e bambini. Dall’altro si dimentica che, nel conflitto israelo-palestinese, almeno dagli anni ’80, la componente religiosa è fondamentale. Si uccide in nome di Allah, convinti che sia doveroso farlo e – spesso – che si otterrà una ricompensa nell’aldilà. Una ventina di anni fa mi è capitato, come sociologo, di studiare le missioni suicide in Palestina, di leggere i resoconti dei “martiri” e delle loro famiglie, di studiare i passi del Corano che legittimano l’uccisione degli infedeli e di coloro che “portano la corruzione sulla terra” (in particolare: Sura V, versetto 32). Difficile, se non si hanno pregiudizi, non vedere la potenza motivazionale della religione, specie se ci si attiene alla lettera del Corano, e la guida politica di un popolo passa dalle organizzazioni laiche (l’Olp di Arafat e Abu Mazen) a quelle a matrice religiosa (come Hamas, organizzazione caritatevole involuta in terrorista).

Certo, tutto questo non deve farci recedere dai nostri sforzi di cercare una via di uscita ragionevole dalla crisi. Ma dovrebbe insegnarci che, se le vie semplici non esistono, è anche perché loro non pensano come noi, e noi non pensiamo come loro. Capire come pensa un israeliano e come pensa un palestinese, forse, è la prima cosa che dovremmo fare per aiutarli a trovare una strada meno sanguinosa di quella percorsa fin qui.




Il tempo delle credenze

Chi ha provocato la strage di civili e di malati all’ospedale di Gaza? È stato un bombardamento dell’esercito israeliano o un lancio fallito di un razzo di Hamas?

Secondo Lucio Caracciolo, uno dei più autorevoli studiosi di questioni internazionali, ci sono tre soggetti che conoscono la verità (Usa, Israele, Hamas), ma questa storia è destinata a restare “avvolta in una nube di tragica leggenda”. In assenza di testimoni indipendenti sul terreno, Hamas potrà continuare a dare la colpa all’esercito israeliano, Israele a darla ad Hamas.

E noi? Noi siamo impotenti. O meglio, siamo divisi in due campi. Quello di coloro che credono di sapere, e quello di coloro che sanno di non sapere.

Al primo campo appartengono gli schierati, convinti di poter scegliere fra le due versioni in base alle proprie convinzioni fondamentali: non può che essere stato Israele, non può che essere stato Hamas. Come Pier Paolo Pasolini che, di fronte alle stragi di Milano, Bologna, Brescia, diceva “io so, ma non ho le prove”. E diceva di sapere perché era un intellettuale, capace di collegare e interpolare frammenti di verità per ricomporli in una sola verità vera. Oggi la medesima hybris di sapere serpeggia ovunque, nei cortei degli studenti filo-palestinesi, nei media assetati di vendetta, nelle folle che in Medio Oriente assaltano le ambasciate occidentali e inneggiano alla distruzione di Israele.

Al secondo campo, quello di coloro che sanno di non sapere, appartiene la maggior parte della gente comune, ma anche una piccola minoranza di studiosi, scrittori, giornalisti, cui mi sento di appartenere anch’io. Per noi è tragico quel che è successo, ma è anche terribile il modo in cui se ne parla. È terribile che, in omaggio al dovere di cronaca, vengano accostate notizie e pseudo-notizie, fonti autorevoli e fonti prive di ogni credibilità. È terribile che il 95% dell’informazione nei media più seguiti (tv e social) non sia informazione ma spettacolo. Dove l’ospite è invitato perché si sa già che parte farà, come se un talk show fosse un combattimento fra cani. Dove è evidentissimo che nessuno vuole scoprire come sono andate le cose, e che nessuno modificherà mai la propria idea ascoltando quella degli altri.

Da dove viene questa mancanza di interesse per la verità, anche quando una verità fattuale esiste, come nel caso della tragedia di Gaza? Che cos’è che ha intossicato il mondo dell’informazione?

Fino a qualche anno fa pensavo che il problema centrale fossero la faziosità, la partigianeria, l’ignoranza, tutti guai che affliggono in modo particolare il nostro paese e il nostro sistema dei media. Oggi la vedo un po’ diversamente. Oggi la faziosità non è il problema, ma è la soluzione. Paradossale, contro-intuitiva, immorale quanto vi pare, ma a suo modo risolutiva. La faziosità risolve, in modo aberrante, quello che sta diventando il problema centrale del nostro tempo: l’impossibilità, per il cittadino comune (ma spesso anche per il cittadino più attrezzato), di valutare l’attendibilità di una notizia. Se la medesima notizia è data per vera da una fonte e per falsa da un’altra, che cosa mi resta se non decidere io, con le mie convinzioni e i miei pregiudizi, da che parte sta la verità?

In questo, la tecnologia non aiuta, e la moltiplicazione delle fonti ancor meno. La tecnologia toglie ogni valore di verità alle immagini, che possono essere manipolate e “fotoshoppate” a piacimento, come ben sanno ragazze e ragazzi che si scambiano foto in rete. E neppure gli audio si salvano: se è diventato facilissimo clonare la voce altrui e farsi credere un’altra persona (così, recentemente, una ragazza americana ha scoperto il tradimento del fidanzato), perché mai dovremmo credere all’esercito israeliano quando manda in onda una conversazione fra due palestinesi che confessano che l’attentato all’ospedale di Gaza è opera di Hamas?

Quanto alla moltiplicazione delle fonti, la sua funzione principale non è di permettere a voci scomode di farsi sentire, ma semmai di fornire ad ogni pregiudizio una fonte su cui poggiare. Un meccanismo ben noto fin dagli anni ’50, grazie agli studi di Leon Festinger (l’inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”), ma divenuto ubiquo e pervasivo nell’era dei social.

Ma, si dirà, non tutte le fonti hanno la medesima autorevolezza: ci sono fonti autorevoli e fonti screditate. Temo che questa sia una grave semplificazione. Perché le fonti autorevoli sono spesso parziali, e di fonti imparziali (e riconoscibili) ve ne sono pochissime. Forse la vera domanda è un’altra: come mai, in un mondo che ne avrebbe sempre più bisogno, la domanda di imparzialità è sempre più scarsa?




Salvate il soldato Elena – Israele e la guerra delle parole

C’è una seconda guerra, che scorre parallela a quella vera fra Israele e Hamas. È la guerra delle parole fra le fazioni politiche che se le dànno di santa ragione nei talk show, nei programmi radiofonici, sui social, sui quotidiani grandi e piccoli. E’ una guerra che, come la guerra vera, fa ampio uso di armi improprie, talora di armi proibite, o scorrette, o immorali.

Non possiamo fare quasi nulla per fermare la guerra vera, ma forse quel poco,  pochissimo, che possiamo fare è di rinunciare alle armi improprie, innanzitutto nel mondo dell’informazione.

Quali sono le armi improprie?

Io ne vedo essenzialmente due. La prima è nascondere, dissimulare o manipolare i fatti quando appaiono sfavorevoli alla causa che si intende difendere. Non si può, perché si solidarizza con Israele, sorvolare – come molti grandi media hanno fatto nei giorni scorsi – sui bambini morti a Gaza a causa dell’intervento militare. Si può benissimo ritenere che Israele abbia tutto il diritto di difendersi, che non abbia alternative, e che i morti civili – come in tutte le guerre – siano effetti collaterali inevitabili (la storia del Novecento è piena di esempi). Questo però non autorizza a non raccontare il dramma di Gaza per quel che è. Fino in fondo. Con la dovuta spietatezza, come da quasi due anni si fa ogni volta che un villaggio ucraino viene devastato dalle bombe di Putin. Il problema, semmai, è che – nella quasi totale assenza di giornalisti sul campo – il dovere di raccontare si scontra con il fatto che le fonti sono inquinate dalla propaganda. Il giornalista scrupoloso è sempre di meno un testimone, e sempre più un decodificatore di informazioni che non è in grado di verificare.

La seconda arma impropria è la criminalizzazione del dissenso, che di solito assume una di queste tre forme: togliere o ostacolare la parola (interruzioni), offendere l’interlocutore, usare la tecnica dello straw man (fraintendere volutamente l’opinione altrui). Anche qui c’è un salto logico: si pensa che, se una opinione ci appare del tutto inaccettabile, sia nostro diritto (o addirittura dovere) zittire, denigrare, deformare.

Ne abbiamo avuto un perfetto esempio qualche giorno fa a Otto e mezzo, dove la dottoressa Elena Basile, diplomatica in pensione, è stata sottoposta al trattamento completo. Aveva espresso una opinione, paradossale e discutibile quanto si vuole, ma più che legittima, ossia che il fatto che gli ostaggi americani fossero pochi era una brutta notizia perché riduceva l’incentivo degli Stati Uniti a esercitare un ruolo di moderazione. A quel punto sono cominciate le interruzioni e la lapidazione in diretta della malcapitata, più volte interrotta, invitata a vergognarsi, e del tutto fraintesa, come se avesse auspicato più ostaggi americani, anziché esporre un ragionamento politico sul possibile ruolo di mediazione degli Stati Uniti. E il processo è continuato sulla carta stampata e su internet, dove la Basile è stata dipinta come “algida”, “macchietta”, “mitomane”, “frustrata”, “usurpatrice di titoli” (perché nel programma è stata presentata come “ambasciatrice”), per lo più rinunciando a qualsiasi tentativo di smontarne razionalmente le argomentazioni.

E dire che di argomenti ve ne sarebbero stati, e ve ne sono. Le si sarebbe potuto dire, ad esempio, che è vero, la vita dei bambini ha il medesimo valore a Gaza e in Israele, ma nessun israeliano ucciderebbe mai un bambino in quanto palestinese, mentre i miliziani di Hamas i bambini israeliani li hanno uccisi in quanto israeliani. Le si sarebbe potuto ricordare la differenza capitale fra le regole di ingaggio dei soldati israeliani, e quelle dei terroristi di Hamas, per cui gli obiettivi civili – se israeliani – sono perfettamente legittimi.  Le si sarebbe potuto chiedere se si sentiva di appoggiare le manifestazioni studentesche pro-Palestima anche quando non pronunciano una sola parola di condanna per gli eccidi di civili israeliani, né manifestano il minimo moto di pietà per le vittime di tali eccidi.

Invece no. Alcuni difensori dell’ortodossia pro-Israele preferiscono impedire ai dissenzienti di esprimersi. Come se non avessero contro-argomenti, o non credessero abbastanza nelle proprie buone ragioni. È uno spettacolo triste: perché gli ospiti eterodossi si possono anche non invitare, ma – una volta che sono stati invitati – devono poter dire quello che pensano, senza subire linciaggi e processi sommari. La tanto invocata democrazia è anche questo.