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Modellare il mondo? – Riflessioni sulla questione palestinese

1 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Come racconteranno la questione palestinese gli storici del futuro? Una possibilità è che non la raccontino affatto, perché, ove la miccia accesa da Hamas (e amplificata dalla reazione Israele) dovesse sfociare nella terza guerra mondiale, difficilmente ci saranno ancora degli storici.

Ma supponiamo che la terza guerra mondiale non scoppi, che a un certo punto l’incendio si spenga, e che – magari fra 50 o 100 anni – israeliani e palestinesi abbiano trovato un modus vivendi. Come verrebbe raccontata quella storia?

Una possibilità è che accada quel che, a sentire gli psicoterapeuti di orientamento sistemico, accade nella terapia di coppia. I coniugi in conflitto ricostruiscono la propria vicenda in modo diverso, ma la diversità sta essenzialmente nella punteggiatura: per l’uno il fatto decisivo è x, e quel che è seguito a x è solo la (giustificata) reazione a x, per l’altro il fatto decisivo è y, e quel che è seguito a y è solo la (giustificata) reazione a y. Così lui e lei si incolpano a vicenda della rottura della relazione, e il problema del terapeuta diventa rompere il circolo senza fine delle accuse reciproche. È possibile che lo facciano anche gli storici del futuro se, come oggi spesso accade, la preoccupazione principale non sarà di ricostruire i nessi causali fra eventi ma di dare ragione a un contendente e torto all’altro. La storia del conflitto arabo-israeliano si presta perfettamente a questa deriva narrativa, perché in effetti è facilissimo raccontarla come una serie di azioni e reazioni: proclamazione dello Stato di Israele, guerra degli Stati circostanti per distruggere il nuovo Stato, risposta vittoriosa di Israele e annessione di nuovi territori, nuova guerra contro Israele (guerra dei 6 giorni, 1967), nuova espansione di Israele che si annette la penisola del Sinai, nuova aggressione degli Stati arabi (guerra dello Yom Kippur, 1973), nuove annessioni e occupazioni di terra da parte di Israele, proliferazione dei gruppi terroristici, rappresaglie israeliane, prima e seconda Intifada, eccetera eccetera…. Il tutto intervallato da innumerevoli tentativi di arrivare alla pace, per lo più basati sullo scambio fra riconoscimento di Israele e ritiri parziali dell’esercito israeliano dai territori occupati.

C’è anche una seconda possibilità, però. Ed è che gli storici non si dividano fra filo-palestinesi e filo-israeliani, ma provino a guardare alla tragedia israelo-palestinese in un’ottica più ampia. Un’ottica che includa non solo gli Stati coinvolti nei conflitti, ma anche le organizzazioni sovra-nazionali – a partire dall’Onu – che hanno interferito con essi o provato a regolarli. Non si può escludere che, in tal caso, emerga una lettura dei fatti radicalmente diversa da quelle convenzionali. Una lettura al cui centro sta la domanda: non sarà che il peccato originale, la scintilla che ha fatto deragliare il treno della storia, sia proprio la pretesa delle Nazioni Unite – con il piano di suddivisione della Palestina del 1947 – di regolare i conflitti senza avere il monopolio della forza? Non sarà che la incessante proclamazione di diritti in assenza di qualsiasi capacità di farli rispettare sia una fonte perpetua di disordine, risentimento, violenza? Non sarà il “costruttivismo”, ossia l’idea che esista un ordine giusto e razionale calabile dall’altro, il male che ha devastato gli equilibri euro-asiatici nei decenni a cavallo dei due millenni? Che cosa sono gli interventi militari in Kossovo, in Libia, in Afghanistan, in Iraq se non tentativi maldestri di pilotare il corso della storia secondo principi che ci paiono giusti?

Forse dimentichiamo che una pace deve, prima ancora che giusta, essere stabile, ossia non foriera di nuovi e più sanguinosi conflitti. O forse, più semplicemente, dimentichiamo il monito di Guido Ceronetti che, pochi anni prima di morire, proprio a proposito dei conflitti mediorientali, ricordava un detto del libro di Lao Tzu: “Il mondo non è modellabile. Chi lo modella, lo distrugge”.

La necessità di capire – Come ragionano israeliani e palestinesi

30 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Dopo l’orrore, per molti di noi è il tempo dello sconcerto. Il 7 ottobre abbiamo assistito, sia pure da lontano, al più barbaro episodio di violenza antisemita dai tempi delle camere a gas, eppure una parte dell’opinione pubblica tentenna. Non solo c’è chi inneggia ad Hamas (pochi, per fortuna), ma c’è un vasto movimento di opinione che, pur senza esaltare esplicitamente l’eccidio, non trova le parole per condannarlo. Si scende in piazza a sostegno della causa palestinese, si denuncia il bombardamento dell’ospedale di Gaza city (come se fosse opera di Israele), si nega il diritto di Israele a decidere come difendersi. Più fondamentalmente, e semplicisticamente, si pensa la vicenda israelo-palestinese come una tragedia in cui i buoni sono tutti da una parte (palestinesi) e i cattivi tutti dall’altra (Israele).

Di qui lo sconcerto. Come è possibile che, dopo 78 anni di retorica anti-fascista e anti-nazista, dopo aver spedito centinaia di migliaia di scolaresche ad Auschwitz, dopo aver istituito, celebrato e ricelebrato innumerevoli volte il “giorno della memoria”, dopo il diluvio di discorsi sul “dovere di non dimenticare”, siamo ancora qui a fare i conti con l’antisemitismo? Come è possibile che l’antisemitismo riemerga in occidente? E come è possibile che, quando lo fa, sia quasi sempre a sinistra?

La risposta facile è: noi ce l’abbiamo solo con Israele, non con gli ebrei. Ma è una risposta fasulla, oltreché vecchia (la ascolto dagli anni ’60). Se fosse così, non assisteremmo a migliaia di episodi – aggressioni, profanazione delle tombe, discorsi d’odio sui social media – che hanno come bersaglio singole persone di fede ebraica in Europa, negli Stati Uniti, in Canada. Soprattutto, ascolteremmo le più severe condanne nei confronti di Hamas, i cui uomini non hanno attaccato lo Stato di Israele, i suoi militari, i suoi politici, ma hanno rivolto la loro cieca violenza contro singoli e inermi cittadini, colpevoli soltanto di essere ebrei.

Ma allora qual è la risposta? Perché una parte dell’opinione pubblica è così severa con Israele e così indulgente verso Hamas?

Una ragione, senza dubbio, è l’infantilismo della mentalità woke: oggi, molto più di 30 o 40 anni fa, il mondo progressista ragiona secondo lo schema manicheo forti-deboli, con l’occidente, i paesi ricchi, e quindi innanzitutto Israele, nel ruolo di forti & cattivi. Siamo sempre lì, al “singhiozzo dell’uomo bianco” (come lo chiamava Pascal Bruckner) che vede automaticamente dalla parte del torto la civiltà occidentale, e nel ruolo di vittime tutte le altre, specie se sono ancora povere.

Ma c’è anche un’altra ragione, ed è che ci ostiniamo a leggere le vicende del medio-oriente con le nostre categorie e i nostri fantasmi, senza fare il minimo sforzo per entrare nella testa di israeliani e palestinesi. Eppure, se lo facessimo, potremmo renderci conto di tante cose. Ad esempio, che sia la società israeliana sia la società palestinese sono (ancora) società “durkheimiane”, in cui l’individuo è meno importante dell’entità collettiva cui appartiene (comunità, stato, nazione). A noi fa orrore il solo pensiero che la gioventù di Israele possa essere mandata a combattere, come non ci capacitiamo del fatto che gli ucraini sparsi per il mondo volessero tornare in patria per respingere l’invasore russo. La nostra avversione al rischio è incomparabilmente maggiore di quella dei membri delle società durkheimiane (e di quella della nostra stessa società un secolo fa), e ci rende inconcepibile il ricorso alle armi. Non per nulla al tempo degli euromissili (1977) e dell’Unione sovietica c’era chi diceva “meglio rossi che morti”, e al giorno d’oggi si possono sentire ascoltati giornalisti proclamare che gli ucraini avrebbero dovuto arrendersi ai carri armati russi. L’idea che per la libertà si possa mettere a repentaglio la propria vita ci è divenuta del tutto estranea. Come ci è divenuta estranea l’idea che in ogni guerra vi siano vittime civili, come se non avessimo memoria dei bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale.

Ma altrettanto incomprensibile, per molti di noi, è diventato quel che succede sul versante palestinese. Da un lato, si esita a riconoscere che quel che distingue il terrorismo dalle varie forme di resistenza e di lotta armata è la deliberata uccisione di civili, compresi anziani, donne e bambini. Dall’altro si dimentica che, nel conflitto israelo-palestinese, almeno dagli anni ’80, la componente religiosa è fondamentale. Si uccide in nome di Allah, convinti che sia doveroso farlo e – spesso – che si otterrà una ricompensa nell’aldilà. Una ventina di anni fa mi è capitato, come sociologo, di studiare le missioni suicide in Palestina, di leggere i resoconti dei “martiri” e delle loro famiglie, di studiare i passi del Corano che legittimano l’uccisione degli infedeli e di coloro che “portano la corruzione sulla terra” (in particolare: Sura V, versetto 32). Difficile, se non si hanno pregiudizi, non vedere la potenza motivazionale della religione, specie se ci si attiene alla lettera del Corano, e la guida politica di un popolo passa dalle organizzazioni laiche (l’Olp di Arafat e Abu Mazen) a quelle a matrice religiosa (come Hamas, organizzazione caritatevole involuta in terrorista).

Certo, tutto questo non deve farci recedere dai nostri sforzi di cercare una via di uscita ragionevole dalla crisi. Ma dovrebbe insegnarci che, se le vie semplici non esistono, è anche perché loro non pensano come noi, e noi non pensiamo come loro. Capire come pensa un israeliano e come pensa un palestinese, forse, è la prima cosa che dovremmo fare per aiutarli a trovare una strada meno sanguinosa di quella percorsa fin qui.

Il tempo delle credenze

21 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

Dossier Hume

Chi ha provocato la strage di civili e di malati all’ospedale di Gaza? È stato un bombardamento dell’esercito israeliano o un lancio fallito di un razzo di Hamas?

Secondo Lucio Caracciolo, uno dei più autorevoli studiosi di questioni internazionali, ci sono tre soggetti che conoscono la verità (Usa, Israele, Hamas), ma questa storia è destinata a restare “avvolta in una nube di tragica leggenda”. In assenza di testimoni indipendenti sul terreno, Hamas potrà continuare a dare la colpa all’esercito israeliano, Israele a darla ad Hamas.

E noi? Noi siamo impotenti. O meglio, siamo divisi in due campi. Quello di coloro che credono di sapere, e quello di coloro che sanno di non sapere.

Al primo campo appartengono gli schierati, convinti di poter scegliere fra le due versioni in base alle proprie convinzioni fondamentali: non può che essere stato Israele, non può che essere stato Hamas. Come Pier Paolo Pasolini che, di fronte alle stragi di Milano, Bologna, Brescia, diceva “io so, ma non ho le prove”. E diceva di sapere perché era un intellettuale, capace di collegare e interpolare frammenti di verità per ricomporli in una sola verità vera. Oggi la medesima hybris di sapere serpeggia ovunque, nei cortei degli studenti filo-palestinesi, nei media assetati di vendetta, nelle folle che in Medio Oriente assaltano le ambasciate occidentali e inneggiano alla distruzione di Israele.

Al secondo campo, quello di coloro che sanno di non sapere, appartiene la maggior parte della gente comune, ma anche una piccola minoranza di studiosi, scrittori, giornalisti, cui mi sento di appartenere anch’io. Per noi è tragico quel che è successo, ma è anche terribile il modo in cui se ne parla. È terribile che, in omaggio al dovere di cronaca, vengano accostate notizie e pseudo-notizie, fonti autorevoli e fonti prive di ogni credibilità. È terribile che il 95% dell’informazione nei media più seguiti (tv e social) non sia informazione ma spettacolo. Dove l’ospite è invitato perché si sa già che parte farà, come se un talk show fosse un combattimento fra cani. Dove è evidentissimo che nessuno vuole scoprire come sono andate le cose, e che nessuno modificherà mai la propria idea ascoltando quella degli altri.

Da dove viene questa mancanza di interesse per la verità, anche quando una verità fattuale esiste, come nel caso della tragedia di Gaza? Che cos’è che ha intossicato il mondo dell’informazione?

Fino a qualche anno fa pensavo che il problema centrale fossero la faziosità, la partigianeria, l’ignoranza, tutti guai che affliggono in modo particolare il nostro paese e il nostro sistema dei media. Oggi la vedo un po’ diversamente. Oggi la faziosità non è il problema, ma è la soluzione. Paradossale, contro-intuitiva, immorale quanto vi pare, ma a suo modo risolutiva. La faziosità risolve, in modo aberrante, quello che sta diventando il problema centrale del nostro tempo: l’impossibilità, per il cittadino comune (ma spesso anche per il cittadino più attrezzato), di valutare l’attendibilità di una notizia. Se la medesima notizia è data per vera da una fonte e per falsa da un’altra, che cosa mi resta se non decidere io, con le mie convinzioni e i miei pregiudizi, da che parte sta la verità?

In questo, la tecnologia non aiuta, e la moltiplicazione delle fonti ancor meno. La tecnologia toglie ogni valore di verità alle immagini, che possono essere manipolate e “fotoshoppate” a piacimento, come ben sanno ragazze e ragazzi che si scambiano foto in rete. E neppure gli audio si salvano: se è diventato facilissimo clonare la voce altrui e farsi credere un’altra persona (così, recentemente, una ragazza americana ha scoperto il tradimento del fidanzato), perché mai dovremmo credere all’esercito israeliano quando manda in onda una conversazione fra due palestinesi che confessano che l’attentato all’ospedale di Gaza è opera di Hamas?

Quanto alla moltiplicazione delle fonti, la sua funzione principale non è di permettere a voci scomode di farsi sentire, ma semmai di fornire ad ogni pregiudizio una fonte su cui poggiare. Un meccanismo ben noto fin dagli anni ’50, grazie agli studi di Leon Festinger (l’inventore della “teoria della dissonanza cognitiva”), ma divenuto ubiquo e pervasivo nell’era dei social.

Ma, si dirà, non tutte le fonti hanno la medesima autorevolezza: ci sono fonti autorevoli e fonti screditate. Temo che questa sia una grave semplificazione. Perché le fonti autorevoli sono spesso parziali, e di fonti imparziali (e riconoscibili) ve ne sono pochissime. Forse la vera domanda è un’altra: come mai, in un mondo che ne avrebbe sempre più bisogno, la domanda di imparzialità è sempre più scarsa?

Salvate il soldato Elena – Israele e la guerra delle parole

18 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPoliticaSocietà

C’è una seconda guerra, che scorre parallela a quella vera fra Israele e Hamas. È la guerra delle parole fra le fazioni politiche che se le dànno di santa ragione nei talk show, nei programmi radiofonici, sui social, sui quotidiani grandi e piccoli. E’ una guerra che, come la guerra vera, fa ampio uso di armi improprie, talora di armi proibite, o scorrette, o immorali.

Non possiamo fare quasi nulla per fermare la guerra vera, ma forse quel poco,  pochissimo, che possiamo fare è di rinunciare alle armi improprie, innanzitutto nel mondo dell’informazione.

Quali sono le armi improprie?

Io ne vedo essenzialmente due. La prima è nascondere, dissimulare o manipolare i fatti quando appaiono sfavorevoli alla causa che si intende difendere. Non si può, perché si solidarizza con Israele, sorvolare – come molti grandi media hanno fatto nei giorni scorsi – sui bambini morti a Gaza a causa dell’intervento militare. Si può benissimo ritenere che Israele abbia tutto il diritto di difendersi, che non abbia alternative, e che i morti civili – come in tutte le guerre – siano effetti collaterali inevitabili (la storia del Novecento è piena di esempi). Questo però non autorizza a non raccontare il dramma di Gaza per quel che è. Fino in fondo. Con la dovuta spietatezza, come da quasi due anni si fa ogni volta che un villaggio ucraino viene devastato dalle bombe di Putin. Il problema, semmai, è che – nella quasi totale assenza di giornalisti sul campo – il dovere di raccontare si scontra con il fatto che le fonti sono inquinate dalla propaganda. Il giornalista scrupoloso è sempre di meno un testimone, e sempre più un decodificatore di informazioni che non è in grado di verificare.

La seconda arma impropria è la criminalizzazione del dissenso, che di solito assume una di queste tre forme: togliere o ostacolare la parola (interruzioni), offendere l’interlocutore, usare la tecnica dello straw man (fraintendere volutamente l’opinione altrui). Anche qui c’è un salto logico: si pensa che, se una opinione ci appare del tutto inaccettabile, sia nostro diritto (o addirittura dovere) zittire, denigrare, deformare.

Ne abbiamo avuto un perfetto esempio qualche giorno fa a Otto e mezzo, dove la dottoressa Elena Basile, diplomatica in pensione, è stata sottoposta al trattamento completo. Aveva espresso una opinione, paradossale e discutibile quanto si vuole, ma più che legittima, ossia che il fatto che gli ostaggi americani fossero pochi era una brutta notizia perché riduceva l’incentivo degli Stati Uniti a esercitare un ruolo di moderazione. A quel punto sono cominciate le interruzioni e la lapidazione in diretta della malcapitata, più volte interrotta, invitata a vergognarsi, e del tutto fraintesa, come se avesse auspicato più ostaggi americani, anziché esporre un ragionamento politico sul possibile ruolo di mediazione degli Stati Uniti. E il processo è continuato sulla carta stampata e su internet, dove la Basile è stata dipinta come “algida”, “macchietta”, “mitomane”, “frustrata”, “usurpatrice di titoli” (perché nel programma è stata presentata come “ambasciatrice”), per lo più rinunciando a qualsiasi tentativo di smontarne razionalmente le argomentazioni.

E dire che di argomenti ve ne sarebbero stati, e ve ne sono. Le si sarebbe potuto dire, ad esempio, che è vero, la vita dei bambini ha il medesimo valore a Gaza e in Israele, ma nessun israeliano ucciderebbe mai un bambino in quanto palestinese, mentre i miliziani di Hamas i bambini israeliani li hanno uccisi in quanto israeliani. Le si sarebbe potuto ricordare la differenza capitale fra le regole di ingaggio dei soldati israeliani, e quelle dei terroristi di Hamas, per cui gli obiettivi civili – se israeliani – sono perfettamente legittimi.  Le si sarebbe potuto chiedere se si sentiva di appoggiare le manifestazioni studentesche pro-Palestima anche quando non pronunciano una sola parola di condanna per gli eccidi di civili israeliani, né manifestano il minimo moto di pietà per le vittime di tali eccidi.

Invece no. Alcuni difensori dell’ortodossia pro-Israele preferiscono impedire ai dissenzienti di esprimersi. Come se non avessero contro-argomenti, o non credessero abbastanza nelle proprie buone ragioni. È uno spettacolo triste: perché gli ospiti eterodossi si possono anche non invitare, ma – una volta che sono stati invitati – devono poter dire quello che pensano, senza subire linciaggi e processi sommari. La tanto invocata democrazia è anche questo.

“Lo Zar è autentico oppure no?” – Sulla morte di Evgenij Prigozhin

28 Agosto 2023 - di Paolo Musso

In primo pianoPolitica

La morte (ampiamente annunciata) di Evgenij Prigozhin, avvenuta mercoledì 23 agosto, ha riproposto tutti gli interrogativi sulla sua apparentemente incomprensibile rivolta e la sua ancor più incomprensibile resa.

Almeno una, fra le tante ipotesi avanzate, cioè quella complottista, per cui sarebbe stata tutta una farsa, orchestrata di comune accordo con Putin per far “venire allo scoperto” i potenziali traditori, dovrebbe essere stata spazzata via, visto che il suo presunto complice l’ha appena fatto fuori (anche se i suoi fautori difficilmente se ne daranno per intesi, dato che per loro non vale né il principio di realtà né quello di non contraddizione).

Ma se questa ipotesi è certamente sbagliata, è difficile dire quale sia invece quella giusta, anche perché il fallimento della rivolta ha impedito di cogliere appieno l’enormità dell’evento, che appare invece in tutta la sua imponenza se si pensa a cosa sarebbe successo se la Wagner fosse arrivata a Mosca e Prigozhin avesse preso il potere, come a un certo punto è sembrato perfettamente possibile. Si sarebbe infatti trattato del primo colpo di Stato riuscito in Russia dopo quello della Rivoluzione d’Ottobre del 1917, oltre un secolo fa, nonché dell’unico finora verificatosi in una moderna superpotenza.

Tenendo presente questo, i fatti, già di per sé sconcertanti, diventano quasi incomprensibili, a cominciare da quale fosse il vero obiettivo della rivolta.

È difficile credere che Prigozhin volesse davvero prendere d’assalto la capitale del più grande Paese del mondo con appena ventimila mercenari e senza nessun appoggio evidente da parte di altri poteri dello Stato. Ma è almeno altrettanto difficile credere che abbia intrapreso un’azione così dirompente e senza ritorno solo per qualche rivendicazione “sindacale” (il non assorbimento della Wagner nell’esercito russo) o politica (la testa dei suoi nemici Shoigu e Gerasimov).

E poi, altre domande. Come è stato possibile che la Wagner abbia potuto penetrare come un coltello nel burro per centinaia di chilometri nel territorio della seconda superpotenza del mondo, che per giunta si trovava già da tempo in stato di mobilitazione generale a causa della guerra? E perché la rivolta di Prigozhin ha avuto un così entusiastico sostegno popolare? Chi l’ha fermato e come, se fino a quel momento nessuno aveva mosso un dito? O, se si è fermato da solo, perché l’ha fatto, sapendo perfettamente che con ciò avrebbe firmato la sua condanna a morte?

Alcune risposte sensate sono state date, ma mi sono sempre sembrate insufficienti.

Sul primo punto, per esempio, Lucio Caracciolo aveva sostenuto che ciò era dipeso dal fatto che Putin ha mandato in Ucraina tutti i soldati che ha potuto, lasciando quasi completamente sguarnito il territorio del suo immenso paese, il che sembra plausibile (benché contraddica l’altra tesi dello stesso Caracciolo secondo cui la Russia sarebbe in grado di continuare la guerra praticamente all’infinito; ma questo è un altro discorso, che prima o poi riprenderò).

Ciò però non spiega perché da parte dell’esercito russo non ci sia stata la benché minima reazione all’avanzata della Wagner  (un paio di aerei militari abbattuti e una dozzina di soldati uccisi non indicano certo una resistenza organizzata, ma piuttosto delle sporadiche iniziative individuali, verosimilmente non autorizzate). E ciò benché il suo primo passo sia stato occupare il centro di comando di Rostov che presiedeva all’intera “Operazione Speciale”, cioè il luogo meglio difeso di tutta la Russia.

Quanto al perché Prigozhin si sia fermato, il mistero è ancor più fitto. Uno dei nostri generali a riposo che collaborano come esperti con le televisioni (non mi ricordo più chi, forse Angioni) aveva detto che la Wagner non poteva essere già arrivata così vicino a Mosca come Prigozhin sosteneva, perché i mezzi militari non si muovono così rapidamente. Anche questo sembra plausibile, ma, di nuovo, non spiega granché. Infatti, quando pure gli ci fosse voluto ancora un giorno o due per raggiungere la capitale, non sarebbe cambiato molto, dato che nessuno sembrava volersi muovere per difenderla.

Personalmente, ho sempre pensato che Prigozhin si sia fermato di sua iniziativa, semplicemente perché non c’è il minimo indizio che sia stato fermato da qualcun altro. Ma perché mai abbia deciso di farlo e di cercare un accordo con Putin pur sapendo perfettamente che era un suicidio, questo davvero non riuscivo a capirlo.

Poi giovedì scorso, proprio il giorno dopo la sua morte, ho ascoltato una lettura “alternativa” di questi eventi fatta dal grande scrittore russo dissidente Mikhail Shishkin che ho trovato molto convincente e che perciò qui vi ripropongo.

Intervenendo alla tavola rotonda Tra democrazia e autocrazia: il destino della libertà nell’ambito del 44° Meeting di Rimini, Shishkin ha spiegato che in Occidente abbiamo un’idea dei russi basata essenzialmente sulla loro grande letteratura, che si interroga continuamente sul male, sulla colpa, sulla responsabilità, ecc. Ma in realtà questo modo di pensare è limitato a una ristretta élite di persone istruite, mentre alla grandissima maggioranza dei russi di tutte queste grandi domande non importa nulla, essendo ancora legati a una concezione della politica di tipo zarista.

Per loro la vera questione da porsi «era ed è e resta tuttora: “Lo Zar è autentico oppure no?” Questa è la principale domanda russa, perché se lo Zar è autentico, allora ci sarà l’ordine, se invece lo Zar è falso, allora ci sarà l’anarchia, i torbidi, il caos». E l’unico modo per capire se lo Zar è autentico oppure no è vedere se vince.

Per questo Stalin, che ha ucciso milioni di persone, ma ha vinto la guerra contro Hitler, è ancor oggi amatissimo dal popolo, mentre Gorbacev, che ha cercato di modernizzare il paese, ma ha perso la guerra in Afghanistan e la guerra fredda contro l’Occidente, è generalmente disprezzato.

Sempre per questo, mi permetto di aggiungere (perché di questo Shishkin non ha parlato, ma mi sembra coerente con la sua logica), è un errore di prospettiva pensare, come molti fanno, che il tentativo di democratizzare la Russia sia fallito quando Boris Eltsin prese a cannonate il Parlamento che gli si era ribellato (peraltro ancora dominato dai comunisti irriducibili che avevano tentato il golpe contro Gorbacev, quindi non esattamente dei campioni della democrazia). Al contrario: ciò agli occhi del popolo avrebbe dovuto legittimare Eltsin come “autentico Zar”, il che semmai lo avrebbe aiutato a continuare il processo di democratizzazione. A impedirglielo (oltre alla vodka…) fu la crisi cecena, che non riuscì a domare e che pertanto lo delegittimò.

E infatti il suo successore Putin, che da ex ufficiale del KGB conosceva bene i meccanismi del potere in Russia, iniziò la sua carriera politica promettendo di vincere la guerra in Cecenia con qualsiasi mezzo («inseguiremo i terroristi dovunque si nascondano, anche dentro il cesso»). Avendo mantenuto la promessa, pur usando una brutalità inaudita, venne accettato da tutti come autentico Zar. E ancor più lo divenne nel 2014, con l’annessione della Crimea e di parte del Donbass.

A questo punto qualcuno potrebbe osservare che tutti i regimi usano le guerre per rafforzarsi, in modo da unire il popolo contro il nemico esterno e sviare la sua attenzione dai problemi interni. Questo è certamente vero, ma non è esattamente la stessa cosa. Secondo Shishkin, infatti, in Russia il semplice richiamo patriottico all’unità contro il nemico esterno non basta, perché se il popolo ha la sensazione che lo Zar non sia in grado di vincere perderà la fiducia in lui e non sarà più disposto a seguirlo, nonostante la minaccia incombente.

Non è che il patriottismo per i russi non conti: conta moltissimo, invece. Però non c’entra nulla con la loro concezione del potere, che è pragmatica fino alla brutalità e non contiene alcun elemento di idealismo. La vittoria dello Zar non ha (non primariamente, almeno) lo scopo di garantire il bene della patria e del popolo, bensì quello di dimostrare la sua forza e la sua capacità di imporsi a tutti. Perciò lo Zar non deve necessariamente fare la guerra, ma, se la inizia, deve necessariamente vincerla (il che, fra parentesi, significa che è illusorio sperare che Putin si decida a trattare: sa bene, infatti, che se lo fa è morto).

Per questo, secondo Shishkin, Putin è ormai da tempo considerato un falso Zar e tutti stanno aspettando che ne sorga un altro che possa prendere il suo posto. Prigozhin aveva le caratteristiche giuste: era forte; era spietato (caratteristica negativa per un leader occidentale, ma non per uno Zar); era l’unico che era riuscito a vincere (a Bakhmut) da quando Putin aveva iniziato a perdere; era l’unico che aveva osato denunciare pubblicamente la debolezza del falso Zar; e infine aveva avuto l’ardire supremo di muovere in armi contro di lui.

Quindi l’azione di Prigozhin era davvero ciò che sembrava: un tentativo di colpo di Stato. E, a dispetto delle apparenze, non era affatto campato in aria, ma poteva davvero riuscire. Il motivo per cui nessuno l’ha appoggiato apertamente, ma nessuno l’ha nemmeno ostacolato, infatti, è che erano tutti in attesa di vedere che cosa avrebbe fatto. Se fosse andato fino in fondo, sarebbe stata la prova che era proprio lui il vero Zar che aspettavano e allora tutti l’avrebbero seguito.

Ma perché Prigozhin invece si è fermato?

Perché, ha risposto Shishkin, mentre «tutta la popolazione era pronta ad accettare il fatto che lui potesse diventare il nuovo Zar della Russia, l’unico a metterlo in dubbio era lo stesso Prigozhin, che psicologicamente si è dimostrato non pronto a prendere il potere, che avrebbe avuto ai suoi piedi».

Quella esitazione è stata fatale. Una volta fermatosi, Prigozhin non poteva più ripartire: per tutti, ormai, compresi i suoi stessi uomini, era diventato anche lui un falso Zar. E a quel punto non gli restava che sforzarsi di credere alle promesse di Putin, pur sapendo benissimo che erano false.

A chi ha una concezione razionalista della storia, per cui il suo svolgersi è il prodotto di cause sempre perfettamente logiche e perfettamente coerenti, questa spiegazione apparirà di sicuro insoddisfacente. A chi, come me, è invece convinto che la storia non è fatta da forze impersonali, ma dagli esseri umani, che non agiscono solo in base alla ragione, ma anche alle emozioni, dovrebbe sembrare molto plausibile.

D’altronde, tante volte abbiamo visto campioni affermati e blasonati giungere a un passo dal trionfo agognato per tutta la vita e poi farsi prendere dal panico e fallire proprio quando bastava allungare la mano per raccoglierlo – o meglio, proprioperché bastava allungare la mano per raccoglierlo. E se succede nello sport, dove in fondo è in gioco solo la gloria o al massimo i quattrini, perché mai non dovrebbe accadere anche in situazioni ben più drammatiche, in cui è in gioco la vita, propria e altrui, e magari anche il destino del mondo?

Inoltre, la lettura di Shishkin ha anche un altro punto a suo favore: è l’unica (almeno fra quelle fin qui proposte) che si accordi con tutti i fatti attualmente noti. Magari un giorno verranno alla luce altri fatti che la smentiranno, ma per ora le cose stanno così. E ciò non è poco.

Resta però ancora una domanda: cosa succederà adesso?

Secondo Shishkin, anche se per il momento Putin è rimasto al potere, la sua condizione non è cambiata, perché non è lui che ha vinto, ma Prigozhin che ha perso, mentre la situazione in Ucraina resta critica. Di conseguenza, tutti continuano provvisoriamente ad ubbidire all’attuale Zar, ma continuano a considerarlo delegittimato e perciò continuano ad aspettare che sorga un nuovo pretendente a cui non tremino il cuore e la mano nel momento supremo.

Shishkin ritiene che ciò accadrà molto presto, perché è convinto che Putin sia gravemente malato e che quello che si vede in pubblico sia ormai da tempo un suo sosia. In ogni caso, quando ciò accadrà, sia domani o più tardi, chiunque prenda il suo posto metterà subito fine alla guerra, esattamente come avrebbe fatto Prigozhin se avesse avuto successo.

Non ho elementi per dire se la prima convinzione di Shishkin sia giustificata, anche se lo spero, ma almeno la seconda mi sembra plausibile, posto (ovviamente) che la sua chiave di lettura sia corretta.

La ragione, infatti, è sempre la stessa: per legittimarsi lo Zar deve vincere e in Ucraina, ormai, ciò non è più possibile. Prigozhin lo sapeva bene, avendo visto con i suoi occhi la situazione sul campo e i cadaveri dei suoi uomini, che aveva perfino mostrato in diretta televisiva al “falso Zar” che intendeva spodestare. Ma nessuno che aspiri al ruolo di “autentico Zar” di tutte le Russie può permettersi di cominciare il suo regno facendosi logorare dal terribile tritacarne ucraino.

Perciò, chiunque sarà il successore di Putin, secondo Shishkin per prima cosa cercherà di chiudere quella nefasta partita il più presto possibile, riconoscendo la sconfitta, ma dandone la colpa al “falso Zar” appena abbattuto, per poi cercare la sua definitiva legittimazione attraverso una vittoria di altro tipo, presumibilmente contro i suoi nemici interni.

Non resta che augurarci che abbia ragione.

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