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Rubrica A4 – Riflessioni sulla guerra ucraina

25 Giugno 2024 - di Dino Cofrancesco

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Più penso alla vicenda ucraina, più mi rafforzo nell’idea che quell’irresponsabile di Vladimir Putin abbia fatto, inconsapevolmente, il gioco di una potenza da tempo in declino come gli S.U. Grazie all’invasione ucraina, l’Europa è ridiventata il vassallo di Washington e della Nato, il suo braccio armato nel vecchio continente. La Germania merkeliana, con la sua politica estera autonoma (v. il gasdotto fatto saltare in aria, probabilmente con la complicità di Kiev: il fatto che non se ne parli più è non poco significativo) non esiste più e gli stati europei sono come le poleis greche sotto il dominio romano. Non osano neppure proporre l’invito degli stati in guerra – e non solo di quelli in guerra formalmente – a un tavolo di negoziazione per risolvere una crisi scoppiata ‘sotto casa’ loro. E, anzi, talvolta – come Petain, che, in fatto di ebrei, precorreva i desideri di Hitler – diventano persino più realisti del re -v. Scholz e Macron, desiderosi di inviare non solo munizioni ma anche soldati in Ucraina. Clamorosamente sconfitti alle urne, “entrambi hanno pagato, tra l’altro, il prezzo del loro oltranzismo atlantico” come ha detto Massimo L. Salvadori in una recente intervista a l’ ‘Unità’. I governi europei sanno solo tremare come foglie al vento se Biden fa intravvedere, dopo l’Ucraina, l’attacco di Putin ai paesi della Nato, uno dopo l’altro. Per i nostri scienziati politici e columnists
di regime – dal ‘Corriere della Sera’ a ‘Repubblica’, passando per ‘Il Foglio’ – dovremmo ritenere plausibile una nuova invasione della Polonia, come se Mosca avesse davvero le risorse economiche e militari per mettersi contro tutta l’Europa. Il saggio di Manlio Graziano, Disordine mondiale (ed, Mondadori) è illuminante al riguardo.
Gli eventi di questi ultimi anni sembrano quasi preludere a una riedizione di Yalta ma, questa volta tra due potenze azzoppate e che oggi ridefiniscono le aree di influenza in maniera più vantaggiosa per la potenza occidentale (grazie al nuovo, maldestro, zar, Vladimir Putin, della razza degli apprentis sorcièrs).                                                                                                                                           E le stelle “stanno a guardare”, con la scusa di non avere armi a sufficienza per svolgere una politica estera autonoma. E, in effetti non ne hanno per attaccare ma ne hanno per difendersi … ma poi da chi? Ci vuole un’Europa unita e più forte, squillano le trombe politologiche italiane sennonché è proprio l’Ucraina la tomba dell’europeismo. E’ a Mosca e a Washington che si deciderà il destino del martoriato paese e lo si deciderà quando si verificherà un incontro di convenienze. Per ora il piano di pace di Putin – che pretende anche terre non ancora conquistate – e quello non meno pazzesco di Zelensky che, per sedersi al tavolo delle trattative, esige il ritiro totale della Russia dall’Ucraina (un paese impegnato in una disperata resistenza che detta le sue condizioni al vincitore, non si era mai visto nella storia), non fanno sperare nulla di buono. Non sono un elettore del generale Vannacci né mi è simpatico il personaggio (come ho scritto in un lungo articolo su HuffPost), ma non ho esitato a dargli ragione, quando a ‘Quarta Repubblica’, ha detto che nessuna pace è giusta e che, per ottenere la cessazione delle ostilità, i paesi in guerra a qualcosa debbono pur rinunciare. (Ne sa qualcosa l’Italia che dovette firmare – e non poteva fare diversamente – un trattato di pace talmente iniquo che un vecchio liberale come Benedetto Croce si rifiutò di approvarlo).

Gaza, fake numbers?

13 Marzo 2024 - di Luca Ricolfi

Fact and figuresIn primo piano

C’è una cosa che, con il passare dei mesi, sempre più mi stupisce riguardo alla guerra di Gaza (ma anche alla guerra in Ucraina): il disinteresse della maggior parte della stampa, e ancor più delle tv, per i numeri della guerra. Sembra che le uniche cose importanti siano le dichiarazioni dei protagonisti (cioè la propaganda), le indiscrezioni (per lo più inattendibili), e i reportage su quel che accade a una delle due parti in conflitto (i Palestinesi). Come se lo scopo fosse solo di eccitare gli animi di chi parteggia per una delle due parti, e muovere a pietà la maggioranza dei cittadini-telespettatori.

Ma siamo sicuri che informare significhi solo questo? Siamo sicuri che non significhi anche raccontare che cosa veramente succede sul campo, e a che punto è la guerra rispetto agli obiettivi delle due parti in conflitto?

Faccio due esempi.

Primo esempio. Le cifre riportate dai media sono quasi sempre, e quasi esclusivamente, quelle fornite dai terroristi, rivestite di autorevolezza attribuendone l’origine al “ministero della Sanità” di Hamas. Su queste cifre (30 mila morti dall’inizio della guerra), e sulla loro disaggregazione in donne, bambini, anziani eccetera, non vi è il minimo controllo critico.

Naturalmente, di fronte alla richiesta di cifre vere sul numero di civili palestinesi uccisi, si può obiettare che 10, 20 o 30 mila sono sempre tantissimi, troppi, e quindi è inutile cercare di verificare (ma che cosa penseremmo se, dopo un grave incidente di lavoro in un cantiere, ci dicessero che sono morti 10-30 operai, e che è inutile sottilizzare sul numero esatto?).

Secondo esempio. Israele afferma di voler smantellare Hamas. Ma, se è così, non sarebbe essenziale avere qualche informazione sulle forze in campo, e sui risultati militari della guerra in corso? Quanti sono i miliziani di Hamas, e quanti ne sono stati uccisi finora? Quanti soldati ha Israele dentro Gaza, e quanti ne ha già persi?

A leggere i giornali e ad ascoltare radio e tv, sembra che i morti – oltre ad essere tantissimi – siano tutti civili, quasi che l’obiettivo dell’esercito israeliano sia lo sterminio della popolazione di Gaza e non l’eliminazione della rete terroristica di Hamas. Nessuno stupore che, con un’informazione così, attivisti e cantanti si sentano autorizzati a chiedere di “fermare il genocidio”, e un sondaggio di Renato Mannheimer riveli che oltre il 60% dell’opinione pubblica chiede a Israele di ritirarsi senza porre condizioni sul rilascio degli ostaggi.

In realtà, la vera domanda è un’altra: il compito dell’informazione è solo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’entità e la gravità della tragedia in atto (nel qual caso basterebbe dire: decine di migliaia di morti), o è anche quello di fornire un quadro preciso dei fatti, come succede quando c’è un disastro in un cantiere, o un naufragio in mare, e si cerca di capire non solo quanti hanno perso la vita ma anche come sono andate le cose?

È proprio perché queste perplessità mi inseguono da un bel po’, che ho appreso con sollievo che, almeno nel mondo anglosassone, c’è anche chi le domande-base se le fa. Un rapporto dello statistico Abraham Wyner, della Università della Pennsylvania, ha sottoposto a una analisi statistica i dati giornalieri dei morti di Hamas, disaggregati fra bambini, donne e maschi. Ho letto il suo report, e concordo sulle conclusioni, anche se non su tutti i dettagli: ci sono troppe anomalie matematico-statistiche nell’andamento giornaliero per non pensare che le cifre siano altamente inquinate.

Ma la conclusione più importante non è la stima del numero di civili morti (compresa fra 10 e 20 mila), ma la risposta alla domanda che facevo all’inizio, ossia quanti sono i miliziani di Hamas già eliminati sul totale dei miliziani. Mettendo insieme notizie di Hamas e di Israele sul numero di miliziani uccisi, si può azzardare che tale numero sia vicino a 10 mila, su un totale di 30 mila combattenti. Questo significa che, dopo soli 4 mesi, Israele – cha finora ha perso circa 600 soldati – è grosso modo a 1/3 della missione che si è prefissa, ossia molto avanti. Il che, forse, ci permette di capire meglio perché il suo esercito non si vuole fermare: un cessate il fuoco comprometterebbe un obiettivo che, ormai, appare a portata di mano. Ma anche di capire che, verosimilmente, la guerra potrebbe durare ancora qualche mese, non anni come quella in Ucraina.

Forse, più che illuderci su un imminente cessate il fuoco, varrebbe la pena cominciare a pensare anche al dopo. La popolazione civile di Gaza non ha solo bisogno di aiuti umanitari e sostegno morale, ma di piani realistici e generosi per quando – finalmente – tornerà la pace, e la vita riprenderà a scorrere sulla “Striscia”.

 

[uscito sul quotidiano La Ragione il 12 marzo 2024]

Palestina, due popoli in ostaggio

31 Gennaio 2024 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Quando si discute di Israele, degli attacchi del 7 ottobre e della conseguente invasione di Gaza, ci troviamo – quasi automaticamente – di fronte a due racconti standard. Secondo il racconto israeliano, l’origine del dramma è il rifiuto da parte palestinese della soluzione dei due Stati, patrocinata dall’ONU fin dal 1947; un rifiuto protratto e iterato per almeno mezzo secolo, man mano che le varie offerte israeliane venivano bruciate l’una dopo l’altra dai più o meno legittimi rappresentanti del popolo palestinese.

Secondo il racconto palestinese, l’origine del dramma è la nakba (la catastrofe) del 1948, ovvero l’espulsione violenta, per opera di forze israeliane, di 700 mila palestinesi dai loro villaggi e dalle loro terre; una espulsione che, sotto forme diverse, si è ripetuta innumerevoli volte nei decenni successivi.

Questi due racconti non sono falsi, o uno vero e l’altro falso. A modo loro, sono sostanzialmente veri entrambi, sia pure da angolature diverse. Il problema è che sono omissivi, gravemente omissivi. E lo sono sul medesimo punto e per la medesima ragione, e cioè perché rimuovono il ruolo realmente svolto dalle rispettive classi dirigenti.

Sul versante palestinese, e più in generale nel mondo arabo, manca qualsiasi riflessione sia sulla catastrofica e strumentale gestione della questione palestinese da parte degli stati arabi “amici” (a partire da Giordania e Egitto), sia sulla qualità delle leadership che – lungo 75 anni – hanno condotto le guerre e le trattative con Israele. Promuovere o tollerare la via del terrorismo, convogliare la maggior parte degli aiuti internazionali in armamenti, usare sistematicamente i civili come scudi umani, hanno inflitto al popolo palestinese sofferenze indicibili, di cui nessun leader è mai stato chiamato a rispondere. In questo senso, hanno perfettamente ragione quanti sostengono che il primo nemico del popolo palestinese sono i suoi capi e dirigenti, cui si deve l’impressionante sequenza di scelte autolesionistiche attuate dal 1948 a oggi.

Ma sul versante israeliano le cose non sono andate molto meglio, soprattutto negli ultimi decenni. Quel che i difensori di Israele sistematicamente dimenticano è che la costante di (quasi) tutte le politiche che si sono avvicendate dal 1948 in poi è stata la progressiva annessione, con l’occupazione militare e con gli insediamenti dei coloni, di terre originariamente assegnate dalle Nazioni Unite ai palestinesi. Certo, ci sono anche stati dei momenti in cui i governi israeliani hanno fatto passi indietro – come la restituzione del Sinai all’Egitto, o la cessione di porzioni della Cisgiordania, o la rinuncia alla striscia di Gaza – ma basta un’occhiata alla successione delle cartine che rappresentano i confini di Israele e la mappa degli insediamenti dei coloni per rendersi conto di due circostanze.

Primo, la tendenza di fondo è al restringimento della porzione di Palestina controllata dai palestinesi, che già era inferiore al 50% nelle intenzioni dell’ONU, ed è ridotta al 10% oggi (e a circa il 5% se escludiamo l’area B della Cisgiordania, a controllo misto israelo-palestinese).

Secondo, gli insediamenti israeliani in Cisgiordania sono così numerosi, diffusi e puntiformi da rendere praticamente inconcepibile la formazione di un vero Stato palestinese, dotato di continuità territoriale, a meno di espellere centinaia di migliaia di coloni israeliani: la politica degli insediamenti, poco per volta, ha determinato una sorta di fatto compiuto irreversibile, che ipoteca il futuro di entrambi i popoli. Da questo punto di vista non saprei dire se fa più ribrezzo il cinismo con cui Netanyahu rifiuta la soluzione dei due Stati che lui stesso ha reso impraticabile, o l’ipocrisia di Biden, che finge che quella alternativa sia ancora sul tavolo.

Possiamo sentirci più vicini al popolo palestinese o a quello israeliano, ma è difficile non prendere atto che, entrambi, sono anche ostaggi e vittime (quanto innocenti?) di classi dirigenti che non sono state all’altezza.

Ma è proprio vero che le democrazie non si si fanno guerra?

22 Gennaio 2024 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Paradoxa—Forum

A commento di un post pubblicato qualche tempo fa su ‘Paradoxa-Forum’, avevo citato, peraltro senza alcun intento polemico, una pagina di Alexander Hamilton ben nota agli studiosi realisti delle relazioni internazionali.

È mai, in pratica, avvenuto che le repubbliche si siano dimostrate meno proclivi alla guerra delle monarchie? Non è forse vero che le nazioni sono influenzate dalle medesime avversioni predilezioni e rivalità che agiscono sui re? Non avviene forse che le assemblee popolari siano spesso soggette agli impulsi di rabbia, risentimento, gelosia, avidità e ad altre passioni irregolari e violente? Non avviene forse che le loro deliberazioni vengano spesso determinate da alcuni individui che godono della loro fiducia, e che esse siano pertanto soggette ad assumere l’impronta delle passioni e delle opinioni di tali individui? E il commercio non si è forse, fino ad ora, limitato a creare nuove cause di guerra? La brama di ricchezze non rappresenta, forse, una passione altrettanto tiranna e prepotente del desiderio di potenza o di gloria? Non è forse vero, dacché il commercio è divenuto il fulcro delle nazioni, che le ragioni commerciali hanno dato l’esca a un numero di conflitti armati pari a quello fornito dalla cupidigia di terre e di dominio? E lo spirito commerciale non ha forse, in molti casi, fornito nuovi incentivi all’uno e all’altro appetito?  Il Federalista, n.6

 Ritengo che la rimozione di questa saggezza antica sia dovuta alla sottovalutazione della dimensione nazionale della politica ovvero al primato conferito alle ‘forme di governo’ – o, ma sempre meno, agli assetti sociali di un popolo – su quelle che un tempo venivano dette le ‘ragioni degli Stat’. Tale sottovalutazione porta a ritenere di senso comune l’idea che tra regimi politici democratici sia pressoché impossibile venire alle mani, essendo le guerre causate solo dall’ambizione dei despoti –tiranni, dittatori totalitari – che, con la violenza, si impadroniscono del potere e infiammano i popoli oppressi proiettandone all’esterno l’aggressività.

In realtà, la storia è molto più complicata. Stati come l’Inghilterra e l’Olanda, che nel 600 e nel 700 erano, sotto il profilo culturale, istituzionale, religioso, gli avamposti della modernità, non dovettero  alle affinità elettive la fine delle loro ostilità ma alla vittoria delle armi britanniche, che nel corso di quattro guerre – dal 1652 al 1783 – imposero ai Paesi Bassi il dominio di Sua Maestà Britannica negli Oceani. “Rule, Britannia! rule the waves:/Britons never will be slaves”. Padroni dei mari, gli Inglesi estromisero i loro avversari dall’America del Nord – dove New Amsterdam divenne New York – e nell’Asia ridussero le aree da loro controllate. Nel 1812, poi, assistiamo alla guerra dei liberi Stati Uniti contro la parlamentare Inghilterra che si concluse non col richiamo ai Saggi sul governo civile di John Locke ma con la vittoria sul campo dei primi che misero fine a ogni ingerenza della seconda negli affari del continente americano, limitandone la presenza al Canada.

Si dirà che tra le due classiche rivali storiche, la Francia e la Gran Bretagna, a partire dal Congresso di Vienna (1815), venne meno ogni contenzioso di politica estera, specie con la caduta dei Borbone e l’instaurazione a Parigi di regimi politici più o meno liberali (ove si eccettui il Secondo  Impero divenuto anch’esso, però, liberale dagli anni sessanta). Sennonché alla base dell’entente cordiale vi era la sconfitta definitiva, a Waterloo, di ogni velleità francese di egemonia sul vecchio Continente (Napo-leone aveva ripreso, con la stessa sfortuna, il disegno imperiale di Luigi XIV). Fedele alla sua direttiva di politica estera, volta a impedire a qualsiasi stato di porre l’Europa sotto il suo controllo – v. il testo classico di Ludwig Dehio, Equilibrio o egemonia 1948 – Londra, col suo formidabile esercito di terra divenuto col tempo non meno temibile della sua Marina, riuscì a preservare un equilibrio geopolitico, indipendente dalle ‘forme di governo’. Tanto per fare un esempio, cosa aveva a che fare il suo rapporto privilegiato col Portogallo con le culture e gli assetti istituzionali lusitani?

 In definitiva, gli Stati obbediscono alle logiche delle proprie ‘ragioni’, che prescindono da democrazia e dittatura, da liberalismo e conservatorismo. Né si dica che il primo conflitto mondiale dimostrerebbe il contrario. Nella propaganda dell’Intesa si sbandierava il conflitto delle democrazie contro quanto restava dell’Ancien Règime ma la realtà era ben diversa. Stati civilissimi come l’Austria-Ungheria – un laboratorio di culture raffinatissime, dalla psicanalisi alla filosofia del linguaggio, dalla musica all’architettura – o come la Germania – un paese all’avanguardia del progresso scientifico, intellet-tuale, industriale: Bertrand Russell, in fatto di libertà, ne trovava più nelle Università tedesche che in quelle inglesi – non potevano certo dirsi meno democratici dell’Italia, che solo nell’età giolittiana aveva cominciato a liberarsi parzialmente dalle condizioni di arretratezza civile ereditate dal Risorgimento. L’Impero asburgico non crollò per carenza di democrazia – le minoranze etniche vi venivano rappresentate come dimostra il caso di Alcide De Gasperi deputato del Trentino – ma per l’insurrezione delle nazionalità. A ragione o a torto si riteneva che solo il mazziniano principio di nazionalità – fatto valere senza successo dal Presidente Woodrow Wilson – potesse portare a una pacifica convivenza tra i popoli dell’Europa centro-orientale. Forse era un’illusione anche questa, specie considerando il groviglio etnico delle regioni elbane e danubiane, ma certo per quell’illusione i popoli erano disposti a morire e a far saltare i vecchi contenitori statali.

Sarebbe salutare, anche per i clercs del nostro tempo, rimeditare quella bellissima pagina di Benedetto Croce in cui il filosofo si chiedeva, nel novembre del 1918, che motivo ci fosse di fare festa per la fine della guerra.

“Grandi imperi che avevano per secoli adunato e disciplinato le genti di gran parte dell’Europa, e indirizzatele al lavoro del pensiero e della civiltà, al progresso, umano, sono caduti; grandi imperi ricchi di memorie e di glorie; e ogni animo gentile non può non essere compreso di riverenza dinanzi all’adempiersi inesorabile del destino storico, che infrange e dissipa gli Stati come gli individui per creare nuove forme di vita. Gli eroi di Shakespeare – modelli di umanità – non fanno festa quando hanno riportato il trionfo e atterrato i terribili nemici; ma si sentono penetrare di malinconia e le loro labbra si muovono quasi, soltanto, per commemorare ed elogiare l’uomo, che fu loro avversario e di cui procurarono, essi, la morte!”.

 D’altra parte come si poteva parlare del conflitto delle democrazie contro gli stati autoritari quando, dalla parte dell’Intesa, si trovava la Russia zarista? Quest’ultima, va ricordato, diede il pretesto a intellettuali nazionalisti come Max Weber di giustificare la guerra della Germania con il proposito di abbattere l’unico governo asiatico che era riuscito a trapiantarsi in Europa.

 No, la guerra del 1914/18 – guerra di spazi vitali, di ricomposizioni territoriali, guerra di ‘Leviatani dalle viscere di bronzo’ per dirla con Croce – non c’entrava nulla con le forme di governo, come   c’entrano poco le guerre in corso che dovrebbero essere affrontate ‘realisticamente’, valutando costi e benefici, perdite e ricavi, attenendosi alla weberiana ‘etica della responsabilità’ che guarda non a quello che passa nella mente delle anime belle ma alle conseguenze dell’agire e, soprattutto, alla salvaguardia delle vite umane. Non sono le ideologie a scatenare le guerre – la Francia di Francesco I non si era alleata con la Sublime Porta? – ma le costellazioni di potere, gli assetti internazionali prodotti dal tempo, le questioni legate alla sicurezza dei confini, alle necessità economiche, alle fonti di approvvigionamento e ai costi delle materie prime. Se due stati, che trovano conveniente allearsi, hanno le stesse istituzioni, tanto meglio ma se non le hanno cambia poco. “È una canaglia”, diceva Lyndon Johnson del dittatore filippino Ferdinand Marcos, “ma è la nostra canaglia!”. Lo stesso avrebbero potuto dire Winston Churchill e Franklin Delano Roosevelt di Iosif Stalin.

Hamas e dintorni, il velo della cecità

27 Novembre 2023 - di Luciana Piddiu

In primo pianoSocietà

La morte di una persona cara mette completamente a nudo il nostro essere. Il primo impatto è quello di sentirsi venir meno per l’incredulità: la persona amata -fino a ieri piena di vita -giace afflosciata come una marionetta. E tuttavia, come ha detto il padre di Giulia Cecchettin-‘’Posso capire una malattia, un incidente, ma questo è il modo più inconcepibile. Non te ne fai una ragione’’ Che cosa è dunque ‘inconcepibile’? È il modo della morte, la violenza sanguinaria e la ferocia delle coltellate.

         Questa considerazione evoca in qualche modo le parole di Francesca da Rimini nel suo colloquio con il pellegrino Dante (V canto dell’Inferno)

        Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

        prese costui de la bella persona

        che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Francesca sembra soffrire ancora per il modo violento della sua morte più che per le pene dell’Inferno a cui è condannata.

         Questo preambolo per confutare una volta per tutte il parallelismo che viene istituito da parte di intellettuali, artisti, politici, opinionisti(?) tra quanto accaduto il 7 Ottobre scorso per mano di Hamas nei kibbutz  confinanti con la striscia di Gaza e le successive azioni militari israeliane.

         Nessuno mette in dubbio l’atrocità della guerra in sé che -per quanti sforzi vengano fatti da parte dell’esercito di Israele- finisce per coinvolgere anche civili, innocenti e non, ma è pura ipocrisia, frutto di una visione ideologica settaria, non vedere la differenza nei modi della morte.

         Essere uccisi da qualcuno che gioisce, esulta, brinda e fa baldoria con occhi sfavillanti per l’ebbrezza dell’adrenalina nell’infierire sui corpi di neonati, giovani donne e bambine, vecchi e disabili non è la stessa cosa che morire sotto una bomba.

         Mente chi dice il contrario citando la sproporzione nel numero delle vittime e finendo per considerare carnefici le vittime di quegli assassini che hanno negli occhi la goduria dell’onnipotenza di infliggere la morte agli inermi.

         Solo ad Israele si chiede moderazione nella risposta militare. I civili palestinesi, che in molti casi hanno festeggiato il massacro con dolci e pasticcini, non devono subire alcuna conseguenza.

Ma quando gli alleati bombardavano senza tregua Berlino o Dresda c’è stato qualcuno che si è preoccupato dei bambini tedeschi colpiti dalle bombe che -certamente data l’età- non erano responsabili delle atrocità commesse dalle SS e dal regime nazista?

         La guerra-duole ammetterlo- è tremenda ma a volte è necessaria. Lo è stata per abbattere il nazismo, lo è stata per distruggere il Califfato in Siria. In quel caso non abbiamo visto mobilitarsi nessuno per salvare donne e bambini di Daech.

         Ma per essere ancora più chiara mi servirò delle parole dello scrittore Tahar Ben Jelloun.

         ‘’Io, arabo e musulmano di nascita, non riesco a trovare le parole per dire quanto sono inorridito da ciò che i militanti di Hamas hanno fatto agli ebrei.La brutalità non ha scuse né giustificazione. Sono inorridito perché le immagini che ho visto mi hanno toccato nel profondo della mia umanità. Credo che possiamo resistere e lottare contro la colonizzazione, ma non con questi atti di grande ferocia. La causa palestinese è morta il 7 Ottobre 2023, assassinata da elementi fanatici impantanati in una ideologia islamista della peggior specie. Hamas è il nemico del popolo palestinese. Non è solo nemico del popolo israeliano. Un nemico crudele, senza alcun senso politico, manipolato da un paese dove le giovani donne che si oppongono vengono impiccate per la mancanza di un velo in testa.

         La presa degli ostaggi e la richiesta di riscatto non fa altro che esacerbare la rabbia di tutti noi. Èdifficile credere che questi uomini abbiano fatto questo per ‘liberare’ un territorio. No, la guerra si combatte fra soldati, non uccidendo civili innocenti. (Questa) è una ferita per tutta l’umanità.

         NO, questa è una lotta che non fa loro onore ..…NO agli applausi in certe capitali arabe (e non solo). Prima o poi sarà la popolazione palestinese a pagare questo pesante conto…….’’ [Le Point, 13 Ottobre 2023]

         Chiaro e forte bisogna dire che un conto è la guerra, un altro è  un pogrom.

Senza considerare che nel caso delle adolescenti e giovani donne, alla violenza sessuale, alla ferocia sanguinaria si è aggiunto il vilipendio dei cadaveri. Sui loro corpi si è urinato e sputato e, dulcis in fundo, son stati mutilati e smembrati ed esibiti come trofeo coram populo.

         Se Hamas, che ha esercitato il suo controllo su Gaza dopo il ritiro degli israeliani nel 2005 e la sconfitta degli avversari politici dell’OLP, avesse avuto a cuore la costruzione dello stato di Palestina,avrebbe usato le ingenti risorse afferite da ogni parte del mondo per costruire l’ossatura di base del futuro stato puntando sull’istruzione e la conoscenza, la produzione di acqua potabile, l’agricoltura avanzata e così via. Viceversa le risorse finanziarie sono state usate, secondo uno schema simil-mafioso di taglieggiamento (vedi analisi di F. Fubini) per accumulare ingenti patrimoni in favore dei capi delle varie fazioni e soprattutto per costruire cunicoli sotterranei sotto Gaza city dove accatastare armi e strumenti di morte con l’obiettivo dichiarato di distruggere gli ebrei e lo stato di Israele.

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