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Fortezza Europa?

30 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

È dei giorni scorsi la notizia che 8 paesi europei, fra cui l’Italia, hanno più o meno completamente sospeso la convenzione di Schengen, che dal 1990 permette la libera circolazione all’interno dell’Europa. Da sabato, in particolare, Giorgia Meloni ha disposto di ripristinare i controlli alle numerose località di frontiera con la Slovenia, a partire dal valico Fernetti, uno dei maggiori punti di transito tra l’Europa occidentale e quella centro-orientale.

La misura è stata motivata con la necessità di filtrare gli ingressi in chiave anti-terrorismo, ma il suo significato – a mio parere – finirà per andare molto al di là delle ragioni contingenti che l’hanno motivata. Essa ha infatti finito per mettere in luce due aspetti per lo più trascurati del problema migratorio.

Il primo è che gli ingressi irregolari in Italia non avvengono solo via mare, tramite i barconi, ma anche via terra. Il secondo è che, finora – ossia vigente la convenzione di Schengen – gli ingressi in Europa via terra sono sempre stati ancora meno controllabili di quelli via mare. Tali e tanti, infatti, sono i punti di frontiera non controllabili (boschi, valichi, pianure poco abitate), che risulta impossibile intercettare e registrare una frazione cospicua di quanti entrano in Europa alla spicciolata da un confine terrestre. Un problema acuito dal fatto che diversi paesi europei, in particolare gli ultimi arrivati Slovenia e Croazia, non sembrano minimamente intenzionati né a controllare gli ingressi dai Balcani né le uscite verso l’Italia. Insomma, se fermare le partenze via mare dall’Africa è difficile, anche con l’impegno dell’Europa contro scafisti e trafficanti, fermare quelle dai Balcani e dall’Est Europa è praticamente impossibile, almeno con le norme attuali.

Prendere atto di questa impossibilità è importante perché rende più chiaro il fatto che, in materia di politiche migratorie, determinate alternative o non esistono, o hanno prezzi elevatissimi. L’alternativa che non esiste è quella di fermare gli ingressi irregolari in Europa bloccando le partenze dall’Africa: anche azzerandole, resterebbe un enorme flusso da terra, destinato a ingrossarsi man mano che avesse successo la politica di contrasto agli sbarchi dal mare, in particolare verso Italia, Grecia e Malta. L’alternativa che esiste ma ha un prezzo (economico, ma anche morale) elevatissimo è la via della “fortezza Europa”: costruire muri lungo tutti i confini esterni, come da decenni, chiunque – repubblicano o democratico – fosse il presidente, hanno provato a fare gli Stati Uniti sul confine con il Messico.

Questo significa che il problema del controllo dei flussi migratori è irrisolvibile? Probabilmente sì, con le regole attuali. Non a caso nessuna forza politica ha un piano che sia al tempo stesso realistico e compatibile con il diritto vigente a livello nazionale, europeo, internazionale.

Così stando le cose, le strade aperte sono solo due. Proclamare, come fa la sinistra, che il problema non esiste, che abbiamo bisogno dei migranti, e che le frontiere aperte, il melting pot fra popolazioni europee ed extra-europee, non sono un problema ma, semmai, un’occasione di arricchimento della nostra civiltà. Oppure prendere atto, come una parte della destra sta provando a fare, che se vogliamo essere noi a decidere chi può entrare in Europa (dottrina von der Leyen), non possiamo non rendere molto più severe le regole che ci siamo dati fin qui. Regole che ci inorgogliscono per la nostra apertura, il nostro garantismo, la nostra umanità, ma – inevitabilmente – ci sottraggono il diritto di decidere chi può entrare in Europa e chi no. Perché sono le nostre regole, non certo le Ong, il vero pull-factor che – nonostante pericoli e difficoltà – rende così attrattivo il viaggio verso l’Europa.

L’incertezza del diritto

13 Ottobre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti.

La decisione della magistrata è stata contestata dal Governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini.

L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia?

Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che – almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche – non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso.

In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio.

È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie?

Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali.

Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà.

Maggioranza di governo – Incompetenza comunicativa e consenso

29 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Gli ultimi sondaggi non portano buone notizie per Giorgia Meloni e il suo governo. Un sondaggio di Demos, commentato su Repubblica da Ilvo Diamanti, mostra che per la prima volta da quando è al governo, il consenso per Giorgia Meloni è sceso sotto il 50%, in netto calo rispetto a tre mesi fa. Il medesimo sondaggio rivela che, sulla maggior parte delle materie, e in particolare sui problemi della sicurezza e dell’immigrazione, i giudizi positivi sono al di sotto del 50% (e crollano al 31% in materia di sbarchi). Contemporaneamente, la maggior parte dei sondaggi segnalano la tenuta di Fratelli d’Italia e una sostanziale immobilità degli orientamenti di voto degli elettori (a parte una leggera crescita della Lega).

Se dai sondaggi passiamo al mondo dell’informazione, è ancora più evidente che le cose non si stanno mettendo bene per Giorgia Meloni e il suo governo. Sia pure lentamente, la stampa progressista pare stia imparando ad attaccare il governo in modo efficace (ancorché, talora, non molto professionale). Sempre meno accuse di fascismo, sempre meno accuse contro il generale Vannacci, che si sono rivelati formidabili boomerang. In compenso: sempre più “vigile attesa” sui passi falsi del governo in materie capaci di suscitare moti di indignazione.

Esemplari, da questo punto di vista, due campagne di stampa degli ultimi giorni. La prima a difesa del direttore del Museo Egizio di Torino (Christian Greco), sgangheratamente attaccato da esponenti locali e nazionali di centro destra. La seconda contro il “pizzo di Stato”, ovvero la norma che richiede a una specifica categoria di richiedenti asilo una cauzione di quasi 5000 euro (sotto forma di fidejussione bancaria, o di polizza assicurativa) per non essere trattenuti in particolari nuove strutture per le “procedure accelerate di frontiera”.

Ebbene, in entrambi i casi quello cui abbiamo assistito è una medesima dinamica comunicativa. Da un lato, un chiaro passo falso della maggioranza. Qualsiasi cosa si pensi nel merito, non credo possano sussistere dubbi sul fatto che sia gli attacchi a un eccellente professionista come Christian Greco, sia l’idea che un richiedente asilo debba ricorrere a una fidejussione bancaria per evitare la detenzione, hanno qualcosa di grottesco. Nello stesso tempo, però, non si può non notare con sconcerto l’impreparazione del governo a fronteggiare le campagne di stampa scatenate dalle sue azioni. Ci sono voluti diversi giorni perché il ministro della Cultura Sangiuliano si decidesse a smentire ogni ipotesi di destituzione di Greco dal suo incarico. E ci sono voluti diversi giorni per apprendere dal ministro dell’Interno Piantedosi il contenuto esatto e le vere ragioni della norma sulla cauzione di 5000 euro.

Certo, una stampa più posata non avrebbe dato l’importanza che ha dato a un paio di dichiarazioni contro il direttore del Museo Egizio, e avrebbe fornito una descrizione più accurata della norma sui migranti, dei suoi limiti di applicazione, della sua matrice (una direttiva europea). Ma questo non è il punto: la partigianeria di buona parte della stampa italiana (di destra e di sinistra) è un dato della situazione, non un’eventualità che può presentarsi oppure no. Quello che non è scontato, e sorprende quando lo tocchiamo con mano, è la incompetenza comunicativa del governo. Il suo non rendersi conto che le azioni, comprese le dichiarazioni dei politici, hanno conseguenze. E che quando si sbaglia, nella forma e/o nella sostanza, la correzione deve essere a stretto giro.

L’incompetenza comunicativa di questa classe di governo non è una novità, come tanti casi recenti e meno recenti testimoniano. La novità è che, da qualche tempo, il vento è cambiato, perché l’opinione pubblica comincia a presentare il conto. E, con il vento contrario, certi errori si pagano più cari.

 

[per La Ragione, uscito il 26 settembre 2023]

Denatalità e Governo

15 Settembre 2023 - di Alberto Contri

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Al Governo si sono accorti che la denatalità è un problema molto grave.

“Non c’è nessuna riforma o misura previdenziale che tiene nel medio e lungo periodo con i numeri della natalità che vediamo oggi in questo Paese” ha detto il Ministro Giorgetti al Meeting di Rimini.

Da alcuni mesi girano ipotesi di deduzioni progressive dal reddito a partire dal primo figlio.

E su questo tema i partiti di governo sembrano ciclisti in surplace pronti a scattare per intestarsi i relativi provvedimenti, il che costituisce già una parte del problema. Perché dimostra una visione di breve respiro. La mancanza di una complessiva visione strategica di sviluppo del paese spiega perché l’Italia è in un costante declino. Si tampona, si vende e si svende, si accontenta qualche categoria più rumorosa di altre, mentre il debito pubblico continua a crescere.

È certamente buona cosa che al Governo si stia pensando di incentivare la nascita di figli. Che dovrebbero essere procreati da giovani coppie con una visione del mondo ottimista e positiva. Ma chi ha qualche dimestichezza con la classe dai venti ai trent’anni fa davvero fatica a trovarne qualcuna.

Diseducata da una imperante e invasiva cultura woke, la maggioranza delle cosiddette future speranze del paese pare concentrarsi solo su un eterno presente, ricorrendo alla costante ricerca di piaceri istantanei, come aveva già scritto Lorenzo de Medici: “Chi vuole esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. 

In assenza di certezze, se non quelle che prevedono – tardi – una pensione molto modesta, buona parte dei giovani si concentra su obiettivi di soddisfazione immediata come l’apericena e la discoteca, quando non si tratta di alcol e sballo. “Ciascun suoni, balli e canti, arda di dolcezza il core: non fatica, non dolore!”.

Sono passati più di cinquecento anni, e la situazione da allora è solo peggiorata. In particolare, dopo il big bang del web si è fatto di tutto per rammollire due generazioni dissolvendo la loro mente nella “costante attenzione parziale” stimolata dall’uso smodato del cellulare (v. Mc Luhan non abita più qui?-  Alberto Contri, Bollati Boringhieri , 2017]), assogettandole al non-pensiero di influencers come i  Ferragnez, convincendole che il sesso non c’entra con l’amore, che si può cambiare come un abito, che essere fluidi è assai moderno, cool, come dicono in America e piace ripetere da noi.

Può una simile poltiglia umana, che impazzisce per Chadia Rodriguez o i Maneskin, prendersi la responsabilità di mettere su famiglia?

Famiglia? Un’istituzione ritenuta superata, con una immagine continuamente delegittimata e ridicolizzata dalla narrazione dei mass media, dei social media e delle piattaforme di pay-tv. Si veda, a titolo di esempio, la serie Euphoria prodotta da Sky, il cui regista si vantò alla conferenza stampa di presentazione dicendo: “Questa serie farà andare fuori di testa molti genitori”.

Se la famiglia normale, come ha scritto il generale Vannacci sollevando un putiferio, non torna ad essere considerata una primaria aspirazione in tv, nel cinema e nei social – e non solo in qualche pubblicità dei maccheroni – non c’è alcuna speranza di invertire il grave trend della denatalità.

Ci rendiamo conto di quanti attori dovrebbero essere convintamente coinvolti in questo processo? Un qualche incentivo potrà generare un po’ di articoli di giornale, mentre per ottenere qualche risultato occorrerebbe reimpostare completamente il modo di immaginare la propria responsabilità sociale da parte delle giovani generazioni.

C’è in giro qualcuno che intende farsi carico di una simile rivoluzione culturale e antropologica?

Della stoltezza – La maledizione del Pd

13 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Ci sono parole che si inabissano, anche nel breve corso di una vita. Quand’ero ragazzo, tutte le settimane compravo “Il monello”, uno dei giornalini per ragazzi degli anni ’60, come “L’intrepido”, o “Nembo Kid”. Oggi nessuno usa più la parola monello. Perché le monellate sono derubricate a ordinaria amministrazione, e per essere trattati da trasgressori bisogna essere almeno teppisti, bulli, o membri di mini-gang. Così nessuno usa più parole come piroscafo, réclame, pudico, o bestemmie come “crìbbio!”, alterazione eufemistica di Cristo!

Poco male, si dirà, la lingua trattiene quel che serve. C’è un caso, però, nel quale il setaccio della lingua non ha funzionato a dovere, perché la parola scomparsa servirebbe eccome. È il caso dell’aggettivo ‘stolto’ e del sostantivo ‘stoltezza’. Quante volte lo abbiamo incontrato nelle versioni di latino… E quante volte siamo stati avvertiti del pericolo. La cultura dell’antica Roma, ma anche la Bibbia, sono piene di riferimenti (e di ammonimenti) in materia di stoltezza. La figura dello stolto assume un ruolo centrale nella definizione dei principi morali, della condotta di vita, della via della saggezza e della virtù.

La stoltezza è diversa dalla stupidità, profondamente diversa. Nessuna delle due ha un contrario perfetto, ma se dobbiamo assegnarne uno potremmo dire che il contrario di stupido è intelligente, il contrario di stolto è saggio. O, se vogliamo, la stupidità è un particolare deficit di intelligenza, la stoltezza è un particolare deficit di saggezza. Più esattamente: lo stolto è chi agisce senza vedere le conseguenze del proprio agire che potranno essere negative per lui stesso. La stoltezza, in altre parole, è una mancanza  di lungimiranza che ha effetti autolesionistici.

Perché è un peccato che la parola stoltezza sia scomparsa dal nostro vocabolario? È semplice: perché la stoltezza non è scomparsa dal nostro mondo. Ci sono situazioni e comportamenti che sarebbero meglio compresi, e forse corretti, se sapessimo ancora maneggiare la categoria della stoltezza.

Esempi?

Sono innumerevoli. Il genitore che, per essere esonerato dalla fatica di interagire con i pargoli, li dota di smartphone fin dai 2 anni, causando dipendenza, danni cerebrali, e innumerevoli problemi di relazione quando sarà più grande. Lo studente che, durante la carriera scolastica o universitaria, fa il minimo necessario per essere promosso, salvo poi scoprire che le sue (in-)competenze non sono apprezzate sul mercato del lavoro. Il datore di lavoro che spreme all’inverosimile un dipendente esemplare, salvo perderlo quando quest’ultimo trova un posto migliore.

E poi c’è il Pd, o meglio la sua dirigenza. Nessuna categoria della scienza politica coglie l’essenza di questo partito meglio di quella della stoltezza. Perché, negli ultimi tempi, il nucleo dell’azione politica del Pd è stato: attaccare gli avversari in un modo che li rafforza, e al tempo stesso indebolisce il partito.

È stato così con Enrico Letta e la campagna antifascista che ha preceduto le elezioni del 25 settembre 2022, una campagna così surreale che ha finito per accelerare la corsa dei “fascisti” di Fratelli d’Italia. Ma è stato così anche con le mosse più recenti di Elly Schlein. Attaccare il governo perché non ferma gli sbarchi, come se questo potesse portare consensi a un partito che, in nome dell’accoglienza, ne vorrebbe ancora di più. Descrivere l’Italia come un paese allo sfascio, dove scuola e sanità sono a pezzi, i salari sono da fame, i lavoratori muoiono sul posto del lavoro, le donne vengono perseguitate, stuprate e uccise, come se questo dipendesse dal governo in carica, e non da quelli precedenti, tutti (tranne uno) con il Pd in posizioni chiave. Sostenere un referendum contro una legge del passato promossa dallo stesso Pd (il Jobs Act), come se questo potesse non scatenare una guerra civile dentro un partito che quella legge l’ha voluta e votata.

Si potrebbe continuare. Ma credo che la morale sia chiara: senza la categoria della stoltezza, diventa difficile descrivere il mondo in cui viviamo.

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