Pietà per i nostri carnefici (populisti)

Francesco Damato, nel suo meditato articolo, Giustizialisti l’album di famiglia – Il Dubbio del l° giugno – tesse le lodi di Angelo Panebianco che, nell’editoriale I politici sovranisti non vengono da Marte – Corriere della Sera del 28 maggio – sostiene la tesi che le forze politiche emergenti oggi in Italia sono ostili alla democrazia rappresentativa (liberale) e che il  «diffuso rigetto nei confronti della democrazia rappresentativa, delle sue regole, e delle istituzioni liberali che la sorreggono, è il frutto di una trentennale, martellante, propaganda che ha dipinto la politica rappresentativa come un verminaio, il concentrato di tutte le lordure e le brutture, e i suoi esponenti come gente per la quale vale l’inversione dell’onere della prova: è ciascuno di loro che deve dimostrare di non essere un corrotto. Il lavaggio del cervello a cui il “circo mediatico-giudiziario” ha sottoposto per decenni tanti italiani, ha funzionato». Damato fa rilevare giustamente che a quel “circo” il Corriere della Sera non ha fatto mancare il suo contributo. Gli autori del libro La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili (2007), Sergio Rizzo e Antonio Stella, facevano parte, infatti, dello staff di Via Solferino e tale circostanza «ha dato un po’ il sapore freudianamente autocritico al titolo assegnato all’editoriale di Panebianco “Album di famiglia”», con immancabile riferimento all’articolo di Rossana Rossanda, su Il Manifesto, in cui le BR venivano riconosciute come una costola della sinistra.

A me non sono mai piaciuti i giornalisti come Stella e Rizzo «di indiscussa bravura ma spesso lasciatisi prendere la mano nella loro campagna contro la “casta”» (Damato), e ho sempre pensato che ci fosse “qualcosa di marcio in Danimarca” se il libro-denuncia di Raffaele Costa, L’Italia del privilegi (Mondadori 2002) non ha venduto il milione e duecentomila copie che in soli sette mesi fecero della Casta un best seller. Probabilmente al libro di Costa mancava, del “circo mediatico-giudiziario”, la seconda componente, quella giudiziaria, che fu la carta vincente dei due PM della carta stampata distaccati alla redazione del quotidiano milanese. Detto questo, però, bisogna mettere in guardia della tentazione di ritenere che i citati muckraker (‘rastrellatori di scandali’) abbiano instillato nell’immaginario collettivo l’idea falsa (o quanto meno esagerata) che siamo il paese più corrotto del mondo e che stiamo sprofondando nel baratro della decadenza morale, sociale e politica. Non è affatto vero che, quanto a corruzione politica, il nostro paese sia ai primi posti, ma il problema non è questo. Il problema è che abbiamo una classe politica che, con la complicità dei grandi corpi dello Stato, dei sindacati, della Confindustria (quella più legata alle commesse statali), ha fatto a pezzi il Paese, ha creato una  spaventosa voragine del debito pubblico, che ora ci impedisce di fare la voce grossa in Europa perché non si è mai visto che debitori quasi insolventi mettano in riga i loro creditori, ha minato lo stato di diritto con sentenze a orologeria, che «applicano le leggi agli amici e le interpretano per i nemici», ha distrutto la scuola con le lauree facili e le moltiplicazioni delle sedi universitarie sul territorio, (è stato calcolato che se chiudessero quelle di Imperia e di Savona e la Regione Liguria  ospitasse nei migliori alberghi di Genova gli studenti delle due province, ci sarebbe un risparmio per le casse pubbliche di almeno il 50%), non si vergogna di un sistema carcerario che ricorda il film di Alan Parker Fuga di mezzanotte (1978).

Qualche volta autorevoli opinion maker ci ricordano che abbiamo la classe politica che ci meritiamo e se i governanti lasciano a desiderare i governati non sono certo esempi preclari di virtù civiche. E’ ovvio ma non si dimentichi quanto sapevano bene gli antichi, che «l’esempio viene dall’alto» e, soprattutto, non si perda di vista la differenza fondamentale tra chi fa le leggi e chi le subisce. A distinguere la sfera politica dalle altre dimensioni della convivenza umana è il fatto che la prima emana decisioni vincolanti erga omnes e può farle valere con le sanzioni previste dai codici per i disobbedienti laddove la società civile esercita influenza, ma non potere, sui costumi, sugli atteggiamenti collettivi, sulle mentalità e la comunità religiosa prescrive a quei pochi che ne fanno ancora parte precetti la cui infrazione comporta sanzioni che non sono di questo mondo.

Sì, cari Panebianco e Damato, siamo tutti colpevoli: i nostri Hykson «li abbiamo allevati noi» ma ci sono colpe e colpe: noi uomini della strada abbiamo potuto chiedere favori e raccomandazioni illecite ai nostri politici ma il potere di soddisfare le nostre richieste -con espressione altisonante “l’autorità dello Stato” – ce l’avevano loro, non noi. Una civil society, priva di ogni senso dell’interesse collettivo, può aver ottenuto provvedimenti e leggine volte a favore di questa o quella categoria sociale ma quei provvedimenti e quelle leggine sono state concesse da parlamenti e governi che avevano in una mano la spada e l’altra mano libera, avendo gettato per terra la bilancia del diritto.

Al direttore di un grande quotidiano storico, un tassista napoletano rimbrottato per aver votato il 4 marzo per un partito populista, recplicò «Dottò, ce stanno tre tassì: une saie che t’arrobbane; n’ate vide che fiete e merda; nu tierze, nun saie che cazz’è: agge vutate pe ‘o’ tierze!». Temo che nei prossimi mesi impareremo a nostre spese che cosa ci riservi il terzo taxi, quello del Governo Conte. Per citare Panebianco, mi spaventa, tra l’altro, il proposito di abolire «la prescrizione dei reati» che «neanche ai fascisti era mai venuto in mente» ma dobbiamo essere consapevoli che, se siamo a questo punto, la colpa è soprattutto di chi ci ha governato finora. E di quell’establishment fatto di prestigiosi giuristi, di alti ‘servitori dello Stato’(sic!), di economisti di regime, di maitres-à-penser della carta stampata, di presunti “cavalli di razza” della politica che hanno ferocemente denunciato le crepe del Palazzo ma non hanno mai spiegato che cosa abbiano fatto, loro che ci abitano confortevolmente da anni, per porvi rimedio. La colpa è sempre dell’uomo qualunque, ignorante e irresponsabile, che si lascia abbindolare dai Simon mago di turno? Se questo è populismo, ebbene sì, sono un populista anch’io pur non avendo votato (né penso di votare in futuro) per i gialloverdi.




Per capire il governo evitare le etichette

Che quello che ha giurato ieri sia un governo di destra, anzi il governo “più di destra che l’Italia abbia mai avuto dalla fine della seconda guerra mondiale”, è un’opinione espressa da diversi osservatori. In questo giudizio non fa che riemergere, ancora una volta, un classico vizio del linguaggio democratico, che da sempre considera sinonime, e dunque intercambiabili, tre parole: brutto, fascista, di destra.

Sfortunatamente un simile uso del linguaggio, (forse) efficace come strumento di propaganda, è invece ben poco utile per comprendere ciò di cui si parla. Se vogliamo capire la natura del neonato governo giallo-verde, la prima cosa da fare è sbarazzarci delle etichette di destra e sinistra. Non perché, nel contratto di governo, non vi siano molte cose considerate di destra e molte cose considerate di sinistra, ma perché la novità sta proprio qui: il governo giallo-verde non è affatto “né di destra né di sinistra”, nel senso in cui lo sono stati diversi governi di compromesso sperimentati nel passato, ma è, tutto al contrario, “sia di destra sia di sinistra”.

Il governo che si appresta a nascere è il primo che, di fronte all’alternativa fra tagliare la spesa pubblica per abbassare le tasse (destra) e aumentare le tasse per sostenere il welfare (sinistra), ha l’ambizione di sommare i due sogni della destra e della sinistra: meno tasse e più spesa. Perché, al di là di qualche progetto a costo zero o a basso costo, sono questi i piatti forti del menu di governo: il piatto “di destra” ambisce a sterilizzare l’aumento dell’IVA e ad abbassare le aliquote fiscali su famiglie e imprese (slogan: flat tax), il piatto di sinistra ambisce ad aumentare la spesa pensionistica e le misure di reddito minimo (slogan: abolire la Fornero, reddito di cittadinanza).

E’ il caso di sottolinearlo: un governo “additivo”, che vagheggia esplicitamente più spesa e meno tasse, non si era mai visto in tutta la storia repubblicana. Fanno benissimo, dunque, i protagonisti a chiamarlo governo del cambiamento: più diverso da quelli del passato non si può. E fanno altrettanto bene gli osservatori sbigottiti da cotanta novità a chiedersi: dove prenderanno i soldi? Non è, per caso, che la soluzione sarà di aumentare ancora il debito pubblico, prendendoci il rischio di un’uscita più o meno indolore dall’eurozona?

Di fronte a questa entità nuova possiamo dividerci in tanti modi, a seconda delle nostre inclinazioni politiche. Io trovo più utile, invece, cercare di immaginare, concretamente, che cosa potrebbe succedere, e quali siano gli ostacoli che il programma additivo potrà incontrare. Azzardo dunque qualche previsione, consapevole del detto dell’indimenticabile Gianni Brera: non sbaglia previsioni solo chi non ne fa.

Prima previsione. Il governo non verrà travolto dalla irrealizzabilità dei suoi programmi, come sognano molti oppositori, certi che la nave dei sogni non potrà che andare a sbattere contro l’iceberg della realtà; più verosimile è che preferisca sopravvivere ridimensionando, e soprattutto spostando avanti nel tempo, le sue promesse più costose. Più che puntare a realizzare il contratto in tempi brevi, Di Maio e Salvini si preoccuperanno di dare subito qualcosa, almeno qualcosa, ai propri sostenitori. Fra le due promesse più costose, meno tasse e più spesa pubblica, penso che – almeno nel breve periodo – a essere sacrificata sarà la flat tax. Questo per vari motivi: il cosiddetto reddito di cittadinanza costa molto di meno della flat tax e può essere facilmente modulato nel tempo, basta mettere un po’ più di soldi sul reddito di inclusione (già avviato dal duo Renzi-Gentiloni) e ribattezzarlo reddito di cittadinanza; sul versante fiscale c’è già da disinnescare la bomba a orologeria dell’aumento Iva, gentile omaggio dei governi precedenti; e infine: se vuole accampare meriti con il suo elettorato, Salvini ha a disposizione diverse misure altamente simboliche e a bassissimo costo, da un giro di vite sugli sbarchi (blocco navale?) a una legge sulla legittima difesa.

Seconda previsione. I guai cominceranno l’anno prossimo, quando verrà meno il Quantitative Easing della BCE, Mario Draghi esaurirà il suo mandato, e si vedrà il “vero” valore dello spread, un punto su cui – molto opportunamente – ha attirato l’attenzione Mario Monti nei giorni scorsi. Nessuno sa con esattezza come i mercati valutino l’affidabilità finanziaria dell’Italia, ma quel che è certo è che, fino a oggi, i rendimenti sono stati tenuti artificialmente bassi dal Quantitative Easing (QE) della BCE. Quando questo intervento cesserà i rendimenti subiranno inevitabilmente uno spostamento verso l’alto. Giusto per dare un ordine di grandezza, nei primi 4 mesi dell’anno l’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici italiani, che misura il “giusto” rendimento dei nostri titoli decennali (indice VS, elaborato dalla Fondazione Hume) si aggirava intorno al 3.3%, mentre i mercati si accontentavano di meno del 2%. Se attribuiamo questa differenza, pari a circa 150 punti base, al Quantitative Easing, dobbiamo concludere che il “vero” spread, ossia quello che avremmo avuto nei giorni scorsi in assenza del sostegno della Bce, non sarebbe stato di 320 punti base, ma si sarebbe aggirato intorno a quota 480, vicino ai livelli dei momenti più drammatici del biennio 2011-2012.

Terza previsione. Proprio perché hanno promesso cose diverse, e temono di deludere i rispettivi elettorati, Di Maio e Salvini saranno sempre in tensione fra loro per decidere in che cosa convogliare le poche risorse disponibili. Logica vuole che, fra i due, a prevalere sia Di Maio, che ha il doppio dei voti e le cui promesse costano la metà. Bisognerà vedere se, messo un po’ all’angolo, Salvini non preferirà rompere il contratto e riprendersi il ruolo di leader del centro-destra, ammesso che questa espressione non sia nel frattempo diventata vuota.

Quarta e ultima previsione. Il Capo dello Stato avrà il suo daffare, e verosimilmente non si tirerà indietro. E’ infatti probabile che, non riuscendo a trovare le “coperture” che servono, Di Maio e Salvini provino a convincere il ministro dell’Economia a varare una finanziaria “espansiva”, ovvero a fare ulteriore debito pubblico, in più o meno aperta violazione dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. A quel punto bisognerà vedere che cosa farà Mattarella, ma è difficile pensare che, dopo aver avuto la fermezza di rifiutare la nomina di un ministro, il Quirinale si astenga da ogni intervento su un punto assai meno opinabile, ovvero il mancato rispetto del dettato costituzionale in materia di entrate e uscite dello Stato. E’ a quel punto, e solo a quel punto, che la sceneggiata di queste settimane, con dichiarazioni e contro-dichiarazioni sulla permanenza dell’Italia nell’Eurozona, dovrà per forza avere uno sbocco, in un senso o nell’altro. Chi vivrà vedrà.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 03 giugno 2018



Renzi si faccia il suo partito. Intervista a Luca Ricolfi

 Il guaio dello sfumato governo giallo-verde non era Paolo Savona, ministro dell’economia in pectore, ma il duo Salvini-Di Maio. Luca Ricolfi, sociologo, insegna Analisi dei dati all’Università di Torino, responsabile scientifico della Fondazione David Hume, non risparmia da critiche neanche il capo dello stato in merito alle trattative condotte per la formazione dell’esecutivo: «Non avrebbe dovuto consentire ai due spavaldi giovanotti di trattare fra loro così a lungo, senza alcuna interlocuzione con il Quirinale».

Domanda. Professore, la crisi politica sta approdando a un voto anticipato. Partiamo dall’inizio, dallo strappo che si è consumato tra Lega-M5s e Quirinale: avrebbe mai creduto che il governo giallo-verde saltasse sul nome di Paolo Savona per il ministero dell’Economia?

Risposta. No, io pensavo erroneamente che alla fine una quadra si sarebbe trovata, o con la resa di Mattarella o con la proposta di un altro nome.

D. Che cosa pensa di Savona? Ha avuto modo di conoscerlo?

R. Ne ho grande stima, l’ho incrociato un paio di volte, ma non ci conosciamo personalmente.

D. Il professor Savona aveva ribadito che non avrebbe messo in discussione l’euro. Eppure lo spread era in salita e le preoccupazioni delle istituzioni europee pure. Timori infondati?

R. Sostanzialmente fondati, secondo me. Ho letto per intero il comunicato di Paolo Savona, e non vi ho trovato alcuna esplicita espressione della volontà di fare tutto il possibile per non uscire dall’euro. In compenso conosco le posizioni da lui espresse in passato, non solo sull’esigenza di avere un «piano B» di uscita dall’euro ma anche sul modo di abbattere il debito (con l’allungamento unilaterale delle scadenze, e una complicata operazione di trasferimento ai privati del patrimonio pubblico). Il guaio però non è Savona in sé, ma sono Salvini e Di Maio.

D. Perché?

R. Avessero messo nero su bianco cifre realistiche su come trovare coperture permanenti ai loro faraonici doni all’elettorato, nessun nome di ministro dell’Economia avrebbe spaventato i nostri creditori.

D. Ma l’idea di un «piano B» è sbagliata?

R. No, anzi io la condivido: se vogliamo avere potere negoziale in Europa non possiamo escludere a priori una nostra uscita dalla moneta unica, perché questa posizione ci indebolirebbe e ci renderebbe facilmente ricattabili. Il punto però non è questo

D. E qual è?

R. È che è completamente diverso assumere questa posizione, che io trovo perfettamente ragionevole, in una condizione di forza e, vorrei aggiungere, di legittimità, perché il Paese sta riducendo il rapporto debito/pil, il deficit si avvia ad annullarsi, e vi è un sostanziale rispetto dell’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio, o invece esprimere (o non respingere) questa posizione in una situazione in cui il rapporto debito/pil non sta scendendo, la vulnerabilità strutturale dei nostri conti è in aumento, ogni anno il nostro Governo mendica flessibilità in cambio di impegni che poi non rispettiamo e, come se non bastasse, siamo sotto attacco da parte dei mercati finanziari.

D. Al presidente della repubblica si rimproverava una eccessiva lentezza per la formazione del governo, ora di aver fatto una scelta troppo politica e interventista.

R. Penso che Mattarella abbia sbagliato, ma non nella mossa finale di rifiutare il nome di Paolo Savona, bensì nel consentire ai due spavaldi giovanotti di trattare fra loro così a lungo, senza alcuna interlocuzione con il Quirinale.

D. Quale poteva essere l’alternativa?

R. Se voleva, come è giusto, avere voce in capitolo nella scelta dei ministri, doveva farsi dare una rosa di candidati alla Presidenza del Consiglio, sceglierne uno, e poi condurre il ballo insieme a lui. Aver accettato che la formazione del governo avvenisse entro una sorta di contratto privato fra due partiti, e che la scelta del premier fosse solo l’ultimo passaggio, puramente formale, di un lungo iter negoziale che tagliava fuori la Presidenza della Repubblica non solo è stato un errore, ma è stato, a mio parere, un allontanamento dal dettato costituzionale.

D. Lega e M5s sono passati all’attacco del capo dello stato.

R. È paradossale: Mattarella ha lasciato ai partiti molta più libertà di tutti i suoi predecessori, e ne è stato ripagato con il più scomposto esercizio di prepotenza nei confronti di un capo dello Stato che la storia della Repubblica ricordi.

D. Matteo Salvini per la Lega e Luigi Di Maio per il Movimento5Stelle accusano il Quirinale di aver violato il voto popolare. Stanno così le cose?

R. Indubbiamente la storia si può raccontare così. Ma si può anche raccontare in un modo del tutto diverso, notando il dilettantismo di Salvini e Di Maio: avevano mille modi per cercare, e trovare, un compromesso accettabile, e così far partire il «governo del cambiamento», perché non l’hanno fatto?

D. Già, perché non l’hanno fatto?

R. Per una ragione che spesso si dimentica: che alla Lega (era già così ai tempi di Bossi) fare il pieno di voti interessa molto di più che cambiare il Paese. Tanto più che Salvini al ministero dell’Interno, con ogni probabilità, sarebbe stato un flop. La vera vittima di questa storia è Di Maio, cui andare al governo interessava davvero.

D. Se Mattarella avesse ceduto su Savona, quali sarebbero state le conseguenze?

R. La verità è che tutta questa discussione sull’operato di Mattarella è viziata da un’ignoranza per così dire basica, o insopprimibile, che ognuno di noi dovrebbe umilmente riconoscere: nessuno sa come le cose sarebbero andate se Mattarella avesse ceduto al dictat di Salvini e, su questa base, fosse nato un governo Lega-Cinque Stelle. Non solo, ma nessuno – al momento – sa che cosa potrà succedere nei giorni prossimi, ovvero se il governo Cottarelli riuscirà a placare i bollenti spiriti dei nostri creditori.

D. Quali sarebbero gli opposti scenari?

R. Si può ipotizzare che, con Paolo Savona al timone dell’economia, nel giro di qualche giorno i mercati finanziari si sarebbero calmati, finalmente l’Italia avrebbe affrontato i suoi problemi, grazie alla flat tax la crescita sarebbe ripartita, e Paolo Savona avrebbe ottenuto dall’Europa ciò che i vari Monti e Padoan non erano mai riusciti ad ottenere.

Ma si può anche pensare tutto l’opposto, come pensano, con sospetta coincidenza di analisi e di parole, quasi tutti i progressisti e i rappresentanti dell’establishment, e cioè: che lo spread sarebbe esploso, gli italiani avrebbero visto evaporare i loro risparmi, le banche avrebbero razionato il credito, l’economia sarebbe andata a picco e alla fine avremmo avuto solo due scelte, uscire rovinosamente dall’euro o farci commissariare dalla Troika; e che grazie al governo tecnico a le cose andranno a posto.

D. Mattarella da affossatore a salvatore del Paese…

R. Nel primo caso dovremmo pensare che Mattarella ha impedito la rinascita dell’Italia, nel secondo che ha salvato il Paese da una catastrofe economica e sociale, con un piccolo merito rispetto a Napolitano nel 2011: non aver aspettato di trovarci sulla soglia del burrone prima di agire.

D. Al momento i mercati non festeggiano affatto.

R. Al momento la verità pare stare nel mezzo: a quanto pare infatti i mercati non si fidano dell’Italia chiunque ne sia alla guida. Forse la cosa più saggia sarebbe stata chiedere a Gentiloni e Padoan di riportare il Paese al voto.

D. C’è il rischio che l’Italia diventi la seconda Grecia in Europa?

R. Sì, come dimostra la velocità con cui lo spread si è impennato ieri. Ma la capacità dell’Italia di infliggere un danno irreparabile all’Europa e alla moneta unica è molto maggiore di quella della Grecia: in questo Savona, con la sua teoria del «piano B», aveva ed ha perfettamente ragione.

D. Il primo giugno il Pd, il 2 giungo Lega e M5s vanno in piazza, il primo a sostegno di Mattarella, i secondi contro il Quirinale. C’è il rischio di uno scontro istituzionale? E di una frattura nel paese?

R. Sì, la contrapposizione fra retorica del «voto tradito» e retorica del «salvatore della patria» può essere molto divisiva, perché vedrebbe gli italiani spaccati fra paladini e nemici del capo dello Stato.

D. Carlo Cottarelli, neo incaricato premier, sta facendo un governo che sulla carta non ha chance di avere la fiducia del parlamento. Il voto è dietro l’angolo. Che benefici avrà il paese da un siffatto governo del presidente?

R. Con 3 mesi di tempo, o anche meno, nessun beneficio, suppongo. Sarebbe già un miracolo se Cottarelli ci facesse arrivare al voto con lo spread sotto quota 200.

D. Secondo l’istituto Cattaneo, se M5s e Lega dovessero allearsi per le prossime elezioni, farebbero cappotto nei collegi. Ipotesi secondo lei possibile?

R. È possibilissimo che si alleino, perché i voti fanno gola a entrambi. In quel caso lo scontro sarebbe, per la prima volta in Italia, fra forze della chiusura, Lega e Cinque Stelle uniti, e forze dell’apertura, Pd e Forza Italia divisi.

D. Salvini pare ormai tenere poco a Forza Italia, mentre Berlusconi, pur confermando il sostegno a Mattarella, voterebbe no alla fiducia a Cottarelli per tenere compatta la coalizione. Il centrodestra sta implodendo?

R. L’impressione è che stia implodendo: in questo momento Forza Italia, come il Pd del resto, è una maschera del nulla.

D. Se i sondaggi dovessero avere ragione, Mattarella si ritroverebbe tra un paio di mesi, al massimo in autunno, a dover trattare con una Lega ancora più forte. Che scenario si aprirebbe a quel punto?

R. Spero, e credo, che nessuno degli attori in campo ripeterebbe gli errori commessi in questa fase.

D. Il Pd si presenta alla nuova prova elettorale con un’immagine sbiadita. Il voto così avvicinato può essere un’occasione per uscire dall’angolo in cui è finito il 4 marzo, oppure può segnarne la fine?

R. Penso che il Pd, pur non facendo nulla, tornerà sopra il 20%, perché una parte dell’elettorato di sinistra che ha votato Cinque Stelle si sentirà costretto a tornare a casa. Però potrebbe avere una sorpresa, e scoprire che di case ora ve ne sono due: quella del vecchio Pd, magari ben zavorrato dai dinosauri di LeU, e quella di un nuovo partito centrista-macroniano-europeista fondato dal redivivo Matteo Renzi.

D. Conviene a Renzi farsi il suo partito? Le scissioni finora non hanno portato bene.

R. Sì, Renzi farebbe benissimo a fondare un suo partito, magari non portandosi dietro la Boschi ed evitando il bullismo del passato. Se la sinistra vuole allargare il suo consenso, è meglio che si presenti con due partiti, come è sempre stato, dal 1946 al 2007, piuttosto che con un unico partito né carne né pesce.

D. Ci avviamo a una lunghissima campagna elettorale. Ce la possiamo permettere?

R. Gli italiani sopportano quasi tutto. E restano sempre eguali a se stessi. Il mio timore è, semplicemente, che nulla di sostanziale cambierà.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi per Italia Oggi del 30 maggio 2018



Le scelte sull’Europa e il vessillo della Carta

Non ho votato per la strana squadra di governo, costituitasi dopo le elezioni tra i due partiti che hanno raccolto più voti e che, in campagna elettorale, se l’erano date di santa ragione. Inoltre temo una brexit italiana non per ragioni ideali (ma davvero questa Europa può  scaldare i cuori di qualcuno e accendere le intelligenze, a parte quella di Emma Bonino?), ma per motivi prosaici: l’abbandono dell’euro azzererebbe i miei (pochi) risparmi e non credo che i vantaggi per l’export, che ne trarrebbero le nostre imprese,  me li farebbero recuperare col tempo. Mi chiedo, però, leggendo certe uscite di  insigni costituzionalisti, se ci sia ancora qualcuno, nel nostro paese, che si preoccupi più del rispetto delle regole del gioco che del risultato della partita in corso. Piaccia o non piaccia, la maggioranza degli Italiani (non il sottoscritto) ha votato per i partiti di Luigi Di Maio e di Matteo Salvini ovvero per formazioni politiche, in diversa misura, euroscettiche — forse il secondo più del primo, ma non si dimentichi il  referendum sull’euro minacciato da Beppe Grillo in una fase di stallo delle trattative per il nuovo governo.

Richiamandosi all’ art. 11 della Costituzione —“ L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa” ma “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”— e al 117 della Costituzione —“ La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonchè dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali — qualche giurista ha, in sostanza, invitato il Presidente Mattarella a tener fuori  Paolo Savona dal Ministero dell’Economia, in quanto l’insigne economista sardo,  già pupillo di Guido Carli e vicino a Giorgio La Malfa,  sarebbe euroscettico e quindi  diffidente  degli «organismi sovranazionali che tutelano la pace» e pronto a «entrare in una logica nazionalista»(sic!). Sennonché, la democrazia va presa sul serio, non è pazziella e se i dirigenti di un partito chiedono i voti  degli elettori non per uscire dall’Europa ma per ottenere  dai nostri partner condizioni più vantaggiose per il nostro paese —Italy first!— ci troviamo davvero dinanzi all’arroganza di un potere, che, legittimato dal suffragio popolare, pretende di stravolgere le norme che stanno a fondamento della democrazia liberale?  E quand’anche il governo gialloverde avesse in mente la brexit e la Costituzione ce lo impedisse ciò non  vorrebbe dire che quanto è lecito agli Inglesi non lo è agli Italiani e che, quindi, configurando la nostra Costituzione un sistema politico meno democratico di quello inglese, sarebbe proprio il caso di rivederla? Non è la Costituzione italiana (pur se ‘nata dalla Resistenza’) che nobilita la democrazia ma è la democrazia a dover passare al vaglio la Costituzione. Personalmente, voterei senz’altro contro la Italexit ma riterrei lesivo dei diritti del popolo sovrano non dargli la possibilità di pronunciarsi al riguardo.

 




L’alibi dei vincoli europei

Finora, in Europa occidentale, si era visto un solo governo populista puro, quello greco rosso-nero guidato da Tsipras, un governo di coalizione fra il principale partito di sinistra (Syriza) e un piccolo partito nazionalista e conservatore (Anel). Ora anche l’Italia ci prova: salvo imprevisti, nei prossimi giorni si insedierà un governo populista giallo-verde che, come primi “assaggi” di sé stesso, ha già dato segnali del proprio convinto anti-europeismo.

In buona sostanza: in Italia facciamo quel che ci pare, e dei vincoli europei su debito e deficit ben poco ci importa. C’è stata l’austerità fino ad oggi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, è giunto il momento di cambiare rotta. Salvini si è spinto a dire, in polemica con il ministro francese dell’economia che aveva richiamato l’Italia al rispetto degli impegni assunti, che il nuovo governo avrebbe fatto semplicemente il contrario dei governi precedenti.

Sul rapporto con l’Europa la si può pensare in tanti modi, però – comunque la si pensi – forse una domanda dovremmo farcela: il rispetto dei vincoli europei, giusti o sbagliati che siano, è davvero il macigno che impedisce all’Italia di ripartire?

Oggi la polemica anti-europea sta diventando il biglietto da visita del nuovo governo, il cui unico vero colore politico è di non essere di sinistra, però non possiamo dimenticare alcuni fatti storici. Il 17 ottobre 2002, stiamo quindi parlando di sedici anni fa, fu lo stesso Prodi – allora presidente della Commissione europea – a definire “stupido” il patto di stabilità, un parere ribadito nel 2014, poche settimane dopo la nascita del governo Renzi. Quanto a quest’ultimo, ci ricordiamo tutti che i suoi tre anni di governo sono stati spesi a battagliare contro le regole europee, e a deridere i burocrati europei e le loro fissazioni sui decimali (del rapporto deficit-Pil). Né possiamo dimenticare che la critica delle politiche di austerità, e l’invocazione continua di investimenti pubblici anche in deroga ai vincoli di bilancio, è il leitmotiv dell’estrema sinistra in tutta Europa.

Quindi la prima cosa che vorrei dire, a chi è sbigottito di fronte all’assalto dell’ircocervo populista contro le regole europee, che se Salvini e Di Maio si muovono agevolmente sul terreno dell’antieuropeismo è perché quel terreno è stato a lungo dissodato, concimato e innaffiato dalla sinistra stessa. Ciò detto, tuttavia, la domanda resta: sono le regole europee che ci impediscono di uscire dal pantano?

Per certi versi senz’altro. Se sull’immigrazione un paese geograficamente esposto non può fare molto è anche a causa delle regole europee, peraltro liberamente sottoscritte, e qualche volta anche caldeggiate. Se il mercato europeo è troppo regolamentato all’interno, con conseguente lievitazione dei costi per le imprese, e troppo aperto verso l’esterno, senza validi strumenti di difesa nei confronti delle importazioni (e delle merci contraffatte) dalla Cina e dai paesi emergenti, sicuramente una notevole responsabilità ce l’ha l’Europa.

Per altri versi, però, no. L’Europa c’entra poco. Chi racconta che abbiamo avuto 10 anni di austerità, e che è ora di cambiare strada, non sa di che cosa parla. Se avessimo davvero avuto 10 anni di austerità, saremmo riusciti a ridurre non dico l’ammontare del debito, ma almeno il rapporto debito-Pil. Il fatto è che si continua a confondere due cose nettamente distinte: la capacità di un paese di risanare i conti pubblici, con politiche che possono essere di austerità “buona” (meno spesa pubblica) o di austerità “cattiva” (più tasse), e il cambiamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, che quando peggiorano fanno gridare all’austerità, ma che sono tutt’altra cosa.

Il fatto è che, nei sette anni della crisi (da 2007 al 2014), l’Italia è riuscita nella duplice impresa di non risanare i conti pubblici, e al tempo stesso non far recuperare ai cittadini il tenore di vita pre-crisi. Di qui il cortocircuito logico: dato che stiamo peggio, ci raccontiamo che sono stati anni di austerità.

La realtà, purtroppo, è che le regole europee spiegano forse perché i paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno degli altri paesi dell’Unione, o perché l’Europa nel suo insieme cresce meno del resto del mondo, o cresce meno degli Stati Uniti, ma non possono spiegare – proprio perché sono regole comuni – come mai certi paesi europei crescono a ritmi accettabili e altri, come l’Italia, la Grecia o la Finlandia, invece ristagnano. Soprattutto non spiegano perché l’Italia, in questi gloriosi anni renziani, sia scivolata all’ultimo posto come tasso di crescita del Pil, e al penultimo come tasso di occupazione.

Perciò, è vero: con altre regole potremmo (forse) crescere un po’ di più, ma non raccontiamoci che il vero ostacolo alla crescita dell’economia italiana è l’Europa. No, sfortunatamente se l’Italia cresce di meno degli altri paesi europei è solo perché ha fatto ben poco di quel che avrebbe dovuto fare per ridare fiato all’economia e risanare il bilancio pubblico, non certo perché la cattiva Europa non le ha permesso di spendere in deficit quanto le sarebbe piaciuto.

E’ questo, purtroppo, l’equivoco su cui il nascente governo giallo-verde sembra intenzionato a puntare molte delle sue carte.

Articolo pubblicato da Panorama il 24 maggio 2018