Covid: una Norimberga per “crimini di pace”?

Ma come fanno a non capire? E come facciamo noi cittadini a sopportare tanta incoscienza?
Chiedo scusa al lettore per il modo crudo con cui inizio questo articolo ma, dopo mesi passati a cercare di mettere il mondo politico di fronte ai numeri di questa epidemia, sono sgomento. A quanto pare il manipolo di politici e burocrati della sanità che ormai da otto mesi è padrone delle nostre vite, e settimana dopo settimana stabilisce (senza chiedere il permesso a nessuno, tanto meno al Parlamento) che cosa possiamo fare e che cosa no, non ha ancora capito. E, sia chiaro, dico “non ha ancora capito” per lasciar loro una ciambella di salvataggio, una scusante. Se avessero capito, e agito come hanno agito in piena coscienza, dovremmo cominciare pensare a una Norimberga per “crimini di pace”. Perché 36 mila morti ufficiali, il tracollo dell’economia, milioni di persone alla disperazione, centinaia di migliaia di attività che stanno chiudendo, una seconda ondata che sta per sommergerci, sono un bilancio che non possiamo accettare da nessuna classe dirigente. Tanto più se consideriamo che la maggior parte degli altri paesi ha pagato un prezzo molto più modesto, sia in termini di morti sia in termini di punti di Pil perduti.

Ma veniamo al punto. Che cosa non hanno capito?

Non hanno capito, prima di ogni altra cosa, l’aritmetica di un’epidemia. Ammetto che non è molto intuitiva, ma con un piccolo sforzo possiamo capirla. Dunque proviamo a spiegarla, usando un esempio che si usa a scuola, specialmente in Francia, a quanto pare. C’è uno stagno, e al centro dello stagno c’è una ninfea. Il numero di ninfee raddoppia ogni notte, e lo stagno ne può contenere fino a 1000, prima di saturarsi e far soffocare tutto ciò che contiene. Il contadino che custodisce lo stagno si sveglia al mattino e nota che le 2 ninfee del giorno prima sono diventate 4. Il giorno dopo nota che sono 8. Il giorno dopo ancora che sono 16. Dopo una settimana sono 128, e occupano meno del 13% dello stagno. Il contadino non è preoccupato: penserà domani a ripulire lo stagno, in fondo in 7 giorni le ninfee sono cresciute lentamente, meno di 20 ninfee al giorno. Ma oggi è venerdì, e il contadino pensa: sabato e domenica mi riposo, lo stagno lo ripulirò lunedì o martedì. Lunedì le ninfee sono 512, ma il contadino rimanda ancora una volta la pulizia, e in una sola notte le ninfee diventano 1024, riempendo tutto lo stagno: ora è troppo tardi, perché in una sola notte le ninfee sono cresciute di numero quanto nei 9 giorni precedenti. Lo stagno è saturo, tutta la vita animale e vegetale che conteneva è morta o sta morendo.

Questa, all’osso, è l’aritmetica di un’epidemia. I giorni del nostro apologo sono le settimane che il governo aveva di fronte per intervenire. I primi segnali di ripresa dell’epidemia risalgono a metà giugno, ma non erano facilmente riconoscibili senza strumenti raffinati. Invece a partire da luglio capire che l’epidemia stava rialzando la testa era facilissimo, bastava non ignorare i dati della Protezione Civile. Ricoveri, terapie intensive, rapporto nuovi casi/tamponi hanno cominciato a crescere in modo esponenziale (e rapido) già da luglio. E da settembre lo hanno cominciato a fare anche i dati dei decessi, che nei mesi precedenti erano stati frenati dall’abbassamento dell’età mediana dei contagiati (gli under-50 muoiono molto meno degli over-50), creando così l’effetto-Sgarbi, ossa l’ingenua credenza che pochi morti al giorno significassero epidemia domata.

In questa situazione che cosa hanno fatto i nostri governanti?

Anziché cominciare a ripulire lo stagno, hanno rimandato ogni intervento al futuro, contando sul fatto che il numero assoluto di nuove ninfee, giorno dopo giorno, sembrava modesto: poche decine di morti la settimana, poche migliaia di nuovi casi la settimana, aumenti contenuti del numero di ricoveri in ospedale e in terapia intensiva.

Poi, circa 10 giorni fa, quando il numero di nuovi casi ha cominciato a puntare verso quota 10 mila, e il numero di morti giornalieri verso quota 100, un barlume di consapevolezza si è cominciato a fare strada. Sono cominciate le disquisizioni su nuovi lockdown e o semi-lockdown, coprifuoco globali o locali, chiusure più o meno severe di bar, ristoranti, palestre, scuole, con un’unica preoccupazione: escludere un nuovo lockdown globale, come quello di marzo e aprile, e convincerci che sconfiggere l’epidemia era compito nostro, o tutt’al più dei poteri locali, governatori delle Regioni e sindaci dei Comuni. Nessuna autocritica, nessuna ammissione di avere sbagliato tutto nel trimestre estivo quando, nonostante i dati dicessero il contrario, si è fatto come se l’epidemia stesse battendo in ritirata, e non ci fosse bisogno di rafforzare il trasposto pubblico locale, la politica dei tamponi, le strutture scolastiche, i controlli su movida e assembramenti.

Il risultato è che il tentativo maldestro di salvare l’economia durante l’estate verrà pagato con gli interessi nei mesi prossimi quando, per limitare le dimensioni della catastrofe sanitaria, le autorità saranno costrette a nuove chiusure, che ora non hanno il coraggio di annunciare ma che non potranno evitare.

Sembra incredibile, ma quello che sta andando in scena in questi giorni è il remake del film che abbiamo già visto tra febbraio e marzo, quando per “riaprire Milano” si rinunciò a chiudere per tempo Nembro e Alzano. Anche oggi, come allora, per paura di fermare l’economia si prende tempo, sperando che l’epidemia retroceda da sola, e dimenticando che quel che sta succedendo questa settimana, così come quel che succederà la prossima, è già scritto, perché dipende dai comportamenti di 2-3 settimane fa. Nel frattempo i contagi e i morti raddoppiano ogni settimana, come le ninfee dello stagno, nella vana attesa che il contadino faccia qualcosa. E quando finalmente ci si deciderà a fare qualcosa, sarà così tardi che questo qualcosa dovrà essere molto duro e prolungato.

Perché la legge fondamentale dell’epidemia è questa: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti.




Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020




Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020




Scuola, ripartenza rischiosa

“La scuola riapre regolarmente il 14 settembre”, ha affermato il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ma avrebbe fatto meglio a dire la verità, tutta la verità: le scuole cercano di ripartire il 14, ma non riusciranno a farlo in tutta Italia.

Infatti la situazione reale è questa. Il Friuli Venezia Giulia e quasi tutte le regioni del Sud (6 su 8) hanno già deciso di rimandare la riapertura, per lo più a dopo le elezioni del 21 settembre. Quanto alle altre regioni, alcune scuole partiranno, altre no: regioni e comuni possono autorizzare le singole scuole a rinviare la partenza, e già lo stanno facendo dove i dirigenti scolastici ritengono che non ci siano le condizioni per riaprire subito.

Le ragioni del ritardo sono fondamentalmente tre: cattedre scoperte (come tutti gli anni), lavori edilizi non completati o ancora privi delle necessarie certificazioni, mancata consegna dei banchi, originariamente prevista entro l’8 settembre, ed ora slittata alla fine di ottobre.

Si poteva fare diversamente?

Se teniamo conto del fatto che le scuole sono state chiuse da marzo, e che a metà maggio già si sapeva che non avrebbero riaperto prima di settembre, la risposta è: sì, almeno per quanto riguarda la consegna dei banchi. Bastava fare il bando a maggio, come fin dalla fine di aprile suggerivano alcuni produttori, anziché aspettare il 20 luglio (più di 4 mesi dopo la chiusura delle scuole!). Quanto alle nomine degli insegnanti, non riesco a credere che – con i pieni poteri che questo governo si è auto-attribuito – non vi fosse alcun modo di coprire la maggior parte delle cattedre, se non altro in considerazione del fatto che la carenza di insegnanti, nella misura in cui genera caos amministrativo e organizzativo, è anch’essa un potenziale fattore di rischio.

Possiamo almeno dire che la riapertura, dove avverrà, sarà “in sicurezza”?

Questo è difficile stabilirlo in anticipo, anche se il fatto che il premier abbia già messo le mani avanti, dicendo che eventuali focolai non sono imputabili a carenze dell’azione di governo, non è particolarmente incoraggiante. E’ ovvio che, come ha detto al figlio Niccolò, “se succede qualcosa a scuola non è perché papà ha lavorato male”. Ma il punto non è se ci saranno casi di Covid a scuola (questo è certo, ed è perfettamente normale, ahimè), ma se ve ne saranno pochi o parecchi, se sarebbero potuti essere molti di meno con scelte politiche diverse, e se ci siano le condizioni per gestire efficacemente i casi che certamente ci saranno, tanti o pochi che siano. Il caso di Israele, che giusto in questi giorni – primo paese al mondo – ha annunciato il ritorno al lockdown, dovrebbe insegnare qualcosa: se Israele deve di nuovo chiudere, è essenzialmente perché ha sbagliato tutto sulla scuola, dai tempi di riapertura, alla dimensione delle classi, agli errori nella aerazione dei locali (basata sui condizionatori).

Ebbene, sul versante della sicurezza il quadro è tutt’altro che rassicurante, per due ordini di ragioni. Il primo è che le misure adottate sono alquanto deboli, specie se confrontate con quelle di diversi paesi europei, che prevedono regole precise sulla frequenza di aerazione dei locali, un distanziamento maggiore (1.5 metri o 2), vincoli stringenti alla dimensione delle classi (da 10 a 20 bambini, a seconda dei paesi). Per non parlare della incapacità di assicurare un adeguato distanziamento nei trasporti: quella di considerare “congiunti” i bambini che vanno nella medesima scuola è una trovata degna di un Azzeccagarbugli; una acrobazia linguistica cui il governo è dovuto ricorrere perché per mesi e mesi si era occupato d’altro e, arrivati al 27 agosto, non c’era più tempo di provvedere diversamente, innanzitutto rafforzando il trasporto pubblico locale. Viene da chiedersi: a che serve tentare maldestramente di assicurare il distanziamento a scuola, con la ridicola regola del metro fra le “rime buccali”, se prima e dopo l’ingresso a scuola – per mancanza di bus – si costringono i ragazzi ad assembrarsi sui mezzi pubblici?

Ma c’è anche un altro ordine di ragioni, strettamente sanitarie, che non ci può lasciare tranquilli. Dalla metà di giugno, quando l’epidemia ha dato chiari segni di rialzare la testa (un fatto inizialmente segnalato da pochi, ma progressivamente riconosciuto da tutti), nulla è stato fatto per invertire la tendenza, e molto è stato invece fatto per prolungare il più a lungo possibile il periodo in cui la gente poteva divertirsi, il turismo riprendere fiato, e il virus accomodarsi fra noi; fino alla decisione finale di tenere le discoteche aperte anche a Ferragosto, nonostante i disastri provocati dalla folle estate fossero divenuti evidenti a tutti. Ebbene tutte queste scelte e omissioni (specie quella di chiudere un occhio su discoteche e movida) un risultato, prevedibile e previsto, l’hanno prodotto: aumentare il numero di contagiati e, con esso, il rischio che chiunque, ragazzo, insegnante, o familiare, contragga il virus.

Mentre ipocritamente si proclamava che la scuola era una “priorità assoluta”, e che “nemmeno una ora di lezione” doveva andare perduta, si permetteva che il rischio di contagiarsi, sceso ai minimi all’inizio dell’estate, tornasse inesorabilmente a salire.

Ma di quanto? A che punto siamo oggi?

Difficile fornire una stima precisa, ma l’ordine di grandezza è chiaro. Rispetto ai minimi toccati all’inizio dell’estate il numero di morti è quasi triplicato, e il numero di ricoverati in terapia intensiva è circa quadruplicato. Quanto al numero dei contagiati, è verosimile che sia aumentato ancora di più, perché l’età mediana si è drasticamente abbassata, e più la popolazione di contagiati è giovane, minore è la probabilità di un ricovero in terapia intensiva o di un decesso. Morti e ricoverati in terapia intensiva tornano, anche se per ragioni diverse rispetto a marzo e aprile, ad essere solo la punta dell’iceberg del contagio.

Tirando le somme, credo che il numero di contagiati sia almeno quintuplicato, ma non sarei stupito che qualche collega epidemiologo meno prudente di me ipotizzasse che sono decuplicati.

Ecco perché affermare che la scuola riapre “in condizioni di sicurezza” è semplicemente una bugia. No, tra luglio e agosto la scelta di chi ci governa non è stata di approfittare dell’estate per ridurre ulteriormente la circolazione del virus e arrivare alla riapertura delle scuole in condizioni di massima sicurezza (linea di condotta più volte invocata dal prof. Crisanti, e non solo da lui). La scelta è stata di risarcire gli italiani per il lockdown regalando loro un’estate senza regole, anche se si sapeva benissimo che questo avrebbe reso meno sicuro il ritorno a scuola.

Ora che la frittata è fatta, ora che è chiaro che molte scuole non potranno garantire una ripartenza in sicurezza, ora che lo spettro di un ritorno alla didattica a distanza si fa più minaccioso, vorrei almeno, a nome di tanti genitori, chiedere una cosa, minimale ma dovuta: se uno studente viene confinato nella stanza del Covid, e mandato a casa perché sospetto, potete almeno garantirgli il tampone (e la comunicazione dell’esito) entro 48 ore?

Già, perché non tutti i genitori se ne sono ancora accorti, ma non c’è nulla, ma proprio nulla, nei protocolli e nelle procedure, che dia alle famiglie questa garanzia. Non paghi di scaricare sulle famiglie un’operazione (la misurazione della temperatura) che la scuola non è in grado di assicurare, i nostri politici ed esperti hanno previsto che, in caso di sospetto Covid, i genitori debbano riprendersi il pargolo e provvedere loro stessi a contattare un medico, che a sua volta deciderà. Come se non si sapesse che proprio questo è il problema, in tante realtà: non c’è garanzia che il medico venga a casa per una visita, non c’è garanzia che qualcuno effettui subito il tampone, non c’è garanzia che l’esito venga tempestivamente comunicato, e non si perda invece nei meandri della burocrazia delle mail, della “sanità digitalizzata” e senza volto.

Questo è, purtroppo, quello che è successo nei terribili mesi della prima ondata. Possiamo chiedervi che non succeda più?

Pubblicato su Il Messaggero del 12 settembre 2020




L’economia risarcitoria

Lo so che è doloroso, lo so che preferiremmo tutti non doverci pensare. Ma bisognerà pure, a un certo punto, dirci qualcosa di realistico sull’economia italiana.

Di quanto sarà la contrazione del Pil 2020 in Italia e negli altri paesi avanzati? In quanti anni torneremo ai livelli del 2019? E quanti ne occorreranno per tornare ai livelli del 2007, prima della grande recessione? Quanti posti di lavoro verranno bruciati? Come faremo a ripagare l’enorme debito aggiuntivo che stiamo contraendo con l’Unione europea e con i mercati finanziari?

A giudicare dal dibattito politico in corso, non parrebbe che i nostri governanti se ne curino troppo. Eppure il nostro futuro non dipenderà dall’esito del referendum, né da chi vincerà le elezioni regionali, né dai banchi a rotelle della Azzolina, né da quanti migranti sbarcheranno sulle nostre coste prima che i mari agitati dell’inverno mettano tutti d’accordo. Con ogni probabilità, il nostro futuro dipenderà da due cose soltanto: il successo o insuccesso della scienza nella lotta al coronavirus (vaccino e cure), e la saggezza o stoltezza delle scelte economico-sociali dei nostri governanti.

Sul primo punto, quello della scienza, siamo nel buio più totale. Potrebbe andare bene, ma anche malissimo. Nessuno lo sa, e nessuno può saperlo.

Sul secondo punto, le scelte dei politici, invece qualcosa lo sappiamo. Sappiamo, ad esempio, che finora il partito dell’economia (riaprire prima possibile e convivere con il virus) è prevalso su quello della prudenza (mantenere e far rispettare le misure più severe, come il distanziamento, le mascherine, il divieto di assembramento). Quel che non tutti hanno ancora capito, invece, è quali siano i costi del prevalere del partito delle “riaperture” e delle “ripartenze”. Un costo certo e facilmente prevedibile (e di fatto previsto da molti) è l’impossibilità di riaprire le scuole in sicurezza. Quando si è deciso di tenere aperte le discoteche e chiudere un occhio sugli assembramenti (movida e mezzi pubblici) si è anche scelto, al tempo stesso, di sacrificare la riapertura in sicurezza delle scuole (che non generano Pil) all’imperativo di sostenere l’industria delle vacanze e del divertimento (che un po’ di Pil lo genera). E’ inutile negarlo, o arrampicarsi sugli specchi: questo governo la sicurezza delle scuole non l’ha mai messa al primo posto, altrimenti avrebbe dato ascolto a quanti, anche nel Comitato Tecnico-Scientifico, avvertivano dei rischi.

Se il costo sociale e sanitario della incauta riapertura estiva è evidente, più controverso è un secondo costo, questa volta genuinamente economico. E’ certo che la linea permissiva su viaggi, spiagge, discoteche, movide, vaporetti, autobus, treni, ha generato benefici economici, o se preferite ha contribuito a contenere i danni. Ma non è affatto certo che tali benefici siano maggiori dei danni che, nei prossimi mesi, inevitabilmente deriveranno all’economia dalla moltiplicazione dei focolai e da nuovi lockdown. Se i costi autunnali (nuovi focolai) dovessero risultare superiori ai benefici estivi (più turismo), al danno inferto alla scuola si aggiungerebbe la beffa di aver danneggiato pure l’economia.

Ma torniamo alle domande sull’economia. Le stime più recenti assegnano all’Italia l’ultimo posto nella graduatoria del Pil 2020, con una caduta che potrebbe risultare più vicina al 15% che al 10%. Quanto al futuro, neppure per l’Europa nel suo insieme si attende un ritorno ai livelli del 2019 prima del 2023.

E per l’Italia che cosa è ragionevole attendersi?

Difficile dire che cosa succederà a noi, perché molto dipenderà dall’esito della guerra al virus. Però non è difficile immaginare che cosa faranno loro, i nostri governanti. Lo scenario più verosimile è che continuino sulla linea seguita fin qui, che ha avuto il dono della coerenza, sia sul piano dei provvedimenti economico-sociali che su quello della filosofia che li sorregge.

La logica dei provvedimenti è stata chiara. Distribuire soldi a pioggia (e con ritardo), più per sostenere i consumi che per tutelare i produttori di reddito. Agire come se le risorse che l’Europa e i mercati finanziari ci hanno permesso di spendere fossero a fondo perduto, anziché prestiti da restituire. Congelare tutto con la cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti, per spostare il più avanti possibile nel tempo (e comunque dopo le elezioni di settembre-ottobre) il momento della resa dei conti, quando tutti potranno vedere a occhio nudo le macerie, fatte di chiusure, fallimenti e posti di lavoro distrutti.

Si potrebbe riassumere tutto ciò con la consueta accusa di assistenzialismo, un male che ormai ha contagiato quasi tutta la politica. Ma sarebbe riduttivo e semplificatorio, a mio parere. Quello che è emerso, in questi mesi, è qualcosa di più radicale e più pericoloso. La filosofia che ha mosso la politica, e che ha catturato il consenso degli italiani, non è basata sulla vecchia (e nobile) idea che i più deboli debbano essere assistiti, sussidiati, aiutati. No, l’idea che si è imposta in questi mesi è che nessuno dovesse perdere alcunché, e che tutti avessero diritto a un risarcimento. Il sostengo indiscriminato ai redditi e ai consumi, dal bonus vacanze al super-bonus per le ristrutturazioni energetiche, dal bonus monopattino a quello per le partite Iva (intascato da alcuni parlamentari!), non poggiavano solo sulla credenza che il motore della ripresa non potessero che essere i consumi, ma anche su una sorta di dottrina o filosofia del risarcimento. Colpiti nei redditi e repressi nelle abitudini di vita, gli italiani sono stati ritenuti degni di risarcimento su tutta la linea. Così abbiamo sentito non solo promettere l’impossibile (“nessuno perderà il suo lavoro”), ma anche garantire diritti per così dire esistenziali, come quelli al divertimento e alle vacanze senza restrizioni, che i due mesi di lockdown hanno reso sacrosanti come altri e più antichi valori della nostra tradizione politica e civile.

Quel che è sfuggito, e tuttora sfugge ai cultori dell’economia del risarcimento, è la differenza tra un terremoto locale e una guerra. Quando c’è un terremoto, è logico e realistico che la comunità colpita chieda alla comunità più ampia di aiutarla, risarcendola più o meno integralmente delle perdite subite. La stessa logica, purtroppo, non si applica nel caso di una guerra, che produce perdite generalizzate che nessuno Stato centrale è in grado di ripianare. E infatti, in una guerra, nessuno pensa in termini di risarcimenti, o pretende che lo Stato ricostruisca celermente la sua abitazione distrutta da un bombardamento.

Ora, il punto cruciale è che quella contro il Covid è una guerra che stiamo perdendo, e che comunque – anche se domani dovessimo trovare un vaccino – ci lascerà tutti molto meno ricchi di prima. Quella italiana era, fino a ieri, una “società signorile di massa” in lento declino. Oggi è una società che, improvvisamente, si trova a non poter conservare il proprio tenore di vita passato, ma non ha alcuna intenzione di rinunciarvi e prendere atto del cambiamento, preferendo cullarsi nell’illusione che ogni cosa possa presto tornare come prima. La filosofia risarcitoria che tutto e tutti pervade ci sta conducendo a diventare una società parassita di massa, in cui allo Stato viene chiesto di sostenere il reddito di chi non produce nulla, ma non di ripagare i debiti che a questo scopo è costretto a fare.

Si potrebbe pensare che la colpa sia di questo governo, e che un governo diverso farebbe cose sostanzialmente diverse. Ma anche questa è un’illusione. L’opposizione politica è leggermente meno assistenzialista di chi ci governa, ma non è di un’altra pasta. Il copyright di “quota cento” è della Lega, e l’ossessione per la riapertura è ancor più forte fra gli esponenti dell’opposizione che fra quelli di governo.

La realtà è quella di sempre: gli italiani hanno la classe politica che si meritano. I politici fanno molti errori, che saranno evidenti fra vent’anni e nei libri di storia del futuro. Ma se sbagliano è, prima di tutto, perché inseguono le nostre illusioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 30 agosto 2020