Perché Conte è incapace di riconoscere i suoi errori?

Ho sempre pensato, negli ultimi mesi, che il premier fosse stato insincero quando, in tante occasioni, ha ripetuto “rifarei tutto”, o ribadito l’esemplarità della condotta del suo governo nella gestione dell’epidemia. Quelle parole iterate fino alla noia, “siamo un modello”, “tutti ci ammirano”, “ora siamo preparati”, le interpretavo come un disturbo della personalità. Nella mia vita, infatti, mi è capitato più di una volta di incontrare persone del tutto incapaci di ammettere di aver commesso un errore, persone che, anche di fronte all’evidenza, negano ogni responsabilità. E quindi mi dicevo: si vede che il premier, a differenza di altri (rari) politici, non è capace di riconoscere uno sbaglio.

Ora capisco che a sbagliarmi ero io. Ora so che il premier era sincero: quando diceva “non abbiamo sbagliato nulla”, lui ci credeva davvero.

Che cosa mi ha convinto della sua sincerità?

E’ molto semplice: il fatto che oggi, di fronte alla seconda ondata, ripeta esattamente l’errore commesso nella prima. Come se non avesse compreso che era un errore, e quindi – in perfetta buona fede – si sentisse autorizzato a “rifare tutto” come a febbraio-marzo.

Quale sia questo errore lo sa qualsiasi studioso che abbia un minimo di familiarità con la matematica di un’epidemia. L’errore consiste nel credere che si debbano varare le misure più severe solo quando si è in prossimità del collasso del sistema sanitario, anziché molto prima. E’ l’errore che si fece ai primi di marzo, quando al grido “Milano non si ferma” non si chiusero tempestivamente Nembro e Alzano, e si aspettò l’inizio della primavera per varare il vero lockdown, quello con il blocco degli spostamenti fra comuni. Ed è l’errore che si è ripetuto oggi, cincischiando in attesa che la curva epidemica desse segnali così drammatici da convincere tutti dell’inevitabilità e giustezza del lockdown.

E’ un errore marchiano, perché più passa il tempo più alta è la curva epidemica, e più alta è la curva epidemica più lungo e severo è il lockdown necessario per riprendere il controllo.

Giusto per dare un’idea delle grandezze in gioco: al ritmo attuale, che è prossimo a un tasso di raddoppio settimanale, ritardare di 3-4 settimane l’intervento significa dover spegnere un’onda circa 10 volte più alta. Eppure sono almeno 15-20 giorni che persino i politici si sono resi conto che l’epidemia stava andando fuori controllo. Perché hanno temporeggiato così a lungo? Evidentemente perché davvero pensavano che aspettare per vedere come evolve la curva fosse la strada giusta, anziché un errore da matita blu (resta la domanda: ma nessuno nel Comitato Tecnico Scientifico glielo ha spiegato?).

Dunque si va verso un lockdown più o meno generalizzato, ma certamente molto più lungo di quello che avremmo avuto se si fosse intervenuti non dico quando lo dicevano gli studiosi indipendenti (già a luglio-agosto), ma almeno quando, a metà ottobre, qualcosa (quota 10 mila contagi al giorno?) aveva improvvisamente messo la politica davanti alla realtà. E dire che, se fossimo intervenuti allora, la curva già in questi giorni darebbe i primi segnali di rallentamento, e noi saremmo tutti meno angosciati.

Resta la domanda: perché la politica ci è ricascata, come a febbraio?

Io penso che la ragione ultima stia nella capacità, peculiarmente umana ma iper-sviluppata fra i politici, di usare l’autoinganno per ricavare sicurezza, conforto, autostima, gratificazione (meccanismo scoperto e descritto da Leon Festinger fin dal 1957). Nel caso della gestione del Covid il meccanismo di autorassicurazione (tecnicamente: riduzione della dissonanza cognitiva) è scattato con una potenza senza precedenti, aiutato dalla scomparsa – sulla scena pubblica – di ogni distinzione fra mere opinioni e conoscenze scientifiche fondate sulla ricerca. Nella babele di voci dissonanti, che descrivevano il corso dell’epidemia in modi opposti e inconciliabili, è stato un gioco da ragazzi per i nostri governanti selezionare le interpretazioni più auto-rassicuranti: “il virus è clinicamente morto”, “siamo diventati molto più bravi a curare i malati”, “i morti sono pochissimi”, “la nostra situazione è migliore di quella di tanti altri paesi”, “siamo un modello per il mondo”, la nostra gestione dell’epidemia “entrerà nei libri di storia” (sì, ho sentito anche questa).

E’ accaduto così che non capissero che l’epidemia si era risvegliata già a metà giugno, che ignorassero i successi delle democrazie asiatiche e dell’emisfero australe (Giappone, Corea del sud, Australia, Nuova Zelanda), che non si rendessero conto che Francia, Spagna e Regno Unito erano semplicemente qualche settimana avanti a noi nella ripresa dell’epidemia (verosimilmente perché le loro scuole sono state riaperte un mese prima delle nostre).

E’ il guaio dell’autoinganno in politica: finché si limita a farti raccontare delle favole, poco male, ma se ti induce a prendere decisioni sbagliate alla fine può ritorcersi contro di te.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 novembre 2020




Covid: Conte dovrebbe chiederci scusa

Dunque, dopo un paio di settimane di tentennamenti, e avendo cura di lascarci divertire ancora un po’ nell’ultimo week-end (come a Ferragosto, quando lasciarono sciaguratamente aperte le discoteche), i nostri governanti si sono decisi: sarà semi-lockdown, semi-coprifuoco, semi-chiusura. A pagare il prezzo più salato saranno, per ora, soprattutto ristoratori, esercenti, gestori di palestre, cinema, teatri. I quali giustamente si chiedono: come si fa a tollerare che lo Stato pretenda da noi di accollarci ogni sorta di onere per far rispettare le regole, e quando invece il padrone è lo Stato, come avviene con treni, bus, voli Alitalia, il datore di lavoro pubblico non faccia nulla per farle rispettare, quelle benedette regole? Come è possibile che, mentre noi facevamo i salti mortali per adeguare i nostri locali ai protocolli di sicurezza, lo Stato tollerasse gli assembramenti per strada, dove è lui il padrone di casa?

Questa reazione è perfettamente giustificata, anche se non lo è la conseguenza che se ne trae, e cioè che – quindi – si debba tenere tutto aperto.

La realtà è ben più amara di come la percepiscono le categorie colpite dalle restrizioni imposte dal governo. Ridotta all’osso, la situazione a me pare questa.

Le chiusure sono ancora una volta tardive e insufficienti, se le commisuriamo all’entità del problema che la latitanza dei poteri pubblici, e innanzitutto del governo, ha fatto montare nello sciagurato trimestre estivo. La seconda ondata è il frutto, prevedibile e previsto, delle omissioni dei mesi scorsi sui versanti cruciali: aumento dei tamponi e dei drive-in, creazione di una task force per il tracciamento dei contatti, controllo degli assembramenti, assunzioni di personale sanitario, rafforzamento delle terapie intensive, aumento della flotta dei mezzi di trasporto, organizzazione della sorveglianza sanitaria nelle scuole, riduzione del numero di alunni per classe, scaglionamento degli orari di ingresso nelle scuole. Anziché fare queste cose, ci hanno raccontato che tutto il mondo ammirava il modello italiano di contrasto dell’epidemia.

Non avendole fatte, la seconda ondata ha avuto la strada spianata. C’è chi ha avvertito del pericolo a maggio, chi a giugno, chi a luglio, ma a partire dalla metà di agosto non si poteva non capire, perché tutti gli indicatori (ripeto: tutti gli indicatori) dicevano che la curva non cresceva più linearmente, ma esponenzialmente.  E’ questo non voler vedere che ci ha portati, oggi, a dover fronteggiare un’onda molto alta e pericolosa. Ed è questo il motivo per cui siamo chiamati a nuovi sacrifici, anche se per ora preferiscono non dirci quali, quanto grandi, e soprattutto quanto lunghi. Ma la risposta è semplice: i sacrifici saranno tanto più grandi e tanto più lunghi quanto più il governo continuerà a temporeggiare, rimandando misure che già sa che dovrà prendere.

Sono pronti, gli italiani, a una nuova stagione di sacrifici?

Io penso di no, in parte per cattive ragioni, in parte per ottime ragioni.

Le cattive ragioni si riducono ad una: la nostra società, nonostante sacche di povertà e di malessere, somiglia ormai più a un luna park che a una fabbrica. Novantacinque genitori su 100 mai avrebbero osato dire ai propri figli che era meglio, per un’estate, rinunciare ai divertimenti di massa e passare ad occupazioni meno pericolose o più utili, ad esempio vedere pochi amici, fare sport all’aperto, recuperare il tempo di studio perduto durante il lockdown. Ma anche a noi, che adolescenti non siamo più, sarebbe risultato molto doloroso non essere liberi di passare le vacanze all’estero, o dover osservare scrupolosamente le regole di prudenza, a partire dall’uso della mascherina e dal rispetto del distanziamento. Insomma, la maggior parte degli italiani ha pensato e pensa di aver fatto già sufficienti rinunce nel lockdown di marzo-aprile, e che non sia proprio il caso di farne altre. Queste sono le cattive ragioni, perché una società che ha perso la capacità di affrontare sacrifici per il bene comune è semplicemente una società in decadenza, anche se preferisce descriversi in registri più indulgenti.

Ma nella resistenza a fare nuovi sacrifici ci sono anche buone ragioni. Ottime ragioni. Che io ridurrei a una: il premier Conte non ci ha chiesto scusa. Si è presentato come di consueto in tv, per dirci che la situazione era grave, e che dovevamo di nuovo fare sacrifici.

Eh no, caro premier, noi avremmo voluto sentire un altro discorso, un discorso di verità e di umiltà. Un discorso che suonasse più o meno così.

“Cari italiani, è vero, in questi mesi, nonostante i pieni poteri che ci siamo presi proclamando lo “stato di emergenza”, non abbiamo fatto, a, b, c, d, e, f, … (qui lungo elenco), né abbiamo davvero preteso che voi faceste quello che vi avevamo prescritto, tipo niente movida, niente assembramenti sui mezzi pubblici, rispetto rigoroso del distanziamento. Un po’ abbiamo chiuso un occhio per risarcirvi dei due mesi di lockdown, un po’ abbiamo latitato perché siamo litigiosi, disorganizzati, e tendiamo a rimandare le decisioni difficili.

Però ora che l’epidemia ha rialzato la testa la lezione l’abbiamo capita. Abbiamo capito che aveva ragione il professor Crisanti quando, a luglio, ci diceva che 300 positivi al giorno non sono pochi. E aveva ancora più ragione quando, ad agosto, più di due mesi fa, ci consegnava un piano per aumentare i tamponi e costruire un vero sistema di sorveglianza attiva dell’epidemia. E avevano pure ragione quanti ci avvertivano che le scuole non erano pronte per riaprire, nonostante una raffica di banchi a rotelle in arrivo.

Ecco perché, nel momento in cui vi chiediamo i primi sacrifici, cui fra poco ne seguiranno altri, vi promettiamo anche che quegli errori non li faremo più. Ecco il nostro cronoprogramma, con le cose che faremo, gli stanziamenti, i tempi entro i quali vi garantiamo che le cose saranno fatte (segue lungo e dettagliato elenco di cose non fatte, ma che verranno fatte nei prossimi 3 mesi).

Perché sappiamo bene, ora ci è chiaro, che se non faremo tutte queste cose l’epidemia, dopo i vostri nuovi sacrifici, sembrerà in ritirata per qualche settimana o mese, ma poi si ripresenterà implacabilmente con una terza ondata”.

Noi, queste parole non le abbiamo ancora sentite. Noi questo programma non lo abbiamo ancora visto. E lo vorremmo. Subito. Se non lo vedremo, i sacrifici li faremo di nuovo, come sempre, ma non riusciremo a toglierci il dubbio che, ancora una volta, saranno inutili.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 ottobre 2020




Covid: una Norimberga per “crimini di pace”?

Ma come fanno a non capire? E come facciamo noi cittadini a sopportare tanta incoscienza?
Chiedo scusa al lettore per il modo crudo con cui inizio questo articolo ma, dopo mesi passati a cercare di mettere il mondo politico di fronte ai numeri di questa epidemia, sono sgomento. A quanto pare il manipolo di politici e burocrati della sanità che ormai da otto mesi è padrone delle nostre vite, e settimana dopo settimana stabilisce (senza chiedere il permesso a nessuno, tanto meno al Parlamento) che cosa possiamo fare e che cosa no, non ha ancora capito. E, sia chiaro, dico “non ha ancora capito” per lasciar loro una ciambella di salvataggio, una scusante. Se avessero capito, e agito come hanno agito in piena coscienza, dovremmo cominciare pensare a una Norimberga per “crimini di pace”. Perché 36 mila morti ufficiali, il tracollo dell’economia, milioni di persone alla disperazione, centinaia di migliaia di attività che stanno chiudendo, una seconda ondata che sta per sommergerci, sono un bilancio che non possiamo accettare da nessuna classe dirigente. Tanto più se consideriamo che la maggior parte degli altri paesi ha pagato un prezzo molto più modesto, sia in termini di morti sia in termini di punti di Pil perduti.

Ma veniamo al punto. Che cosa non hanno capito?

Non hanno capito, prima di ogni altra cosa, l’aritmetica di un’epidemia. Ammetto che non è molto intuitiva, ma con un piccolo sforzo possiamo capirla. Dunque proviamo a spiegarla, usando un esempio che si usa a scuola, specialmente in Francia, a quanto pare. C’è uno stagno, e al centro dello stagno c’è una ninfea. Il numero di ninfee raddoppia ogni notte, e lo stagno ne può contenere fino a 1000, prima di saturarsi e far soffocare tutto ciò che contiene. Il contadino che custodisce lo stagno si sveglia al mattino e nota che le 2 ninfee del giorno prima sono diventate 4. Il giorno dopo nota che sono 8. Il giorno dopo ancora che sono 16. Dopo una settimana sono 128, e occupano meno del 13% dello stagno. Il contadino non è preoccupato: penserà domani a ripulire lo stagno, in fondo in 7 giorni le ninfee sono cresciute lentamente, meno di 20 ninfee al giorno. Ma oggi è venerdì, e il contadino pensa: sabato e domenica mi riposo, lo stagno lo ripulirò lunedì o martedì. Lunedì le ninfee sono 512, ma il contadino rimanda ancora una volta la pulizia, e in una sola notte le ninfee diventano 1024, riempendo tutto lo stagno: ora è troppo tardi, perché in una sola notte le ninfee sono cresciute di numero quanto nei 9 giorni precedenti. Lo stagno è saturo, tutta la vita animale e vegetale che conteneva è morta o sta morendo.

Questa, all’osso, è l’aritmetica di un’epidemia. I giorni del nostro apologo sono le settimane che il governo aveva di fronte per intervenire. I primi segnali di ripresa dell’epidemia risalgono a metà giugno, ma non erano facilmente riconoscibili senza strumenti raffinati. Invece a partire da luglio capire che l’epidemia stava rialzando la testa era facilissimo, bastava non ignorare i dati della Protezione Civile. Ricoveri, terapie intensive, rapporto nuovi casi/tamponi hanno cominciato a crescere in modo esponenziale (e rapido) già da luglio. E da settembre lo hanno cominciato a fare anche i dati dei decessi, che nei mesi precedenti erano stati frenati dall’abbassamento dell’età mediana dei contagiati (gli under-50 muoiono molto meno degli over-50), creando così l’effetto-Sgarbi, ossa l’ingenua credenza che pochi morti al giorno significassero epidemia domata.

In questa situazione che cosa hanno fatto i nostri governanti?

Anziché cominciare a ripulire lo stagno, hanno rimandato ogni intervento al futuro, contando sul fatto che il numero assoluto di nuove ninfee, giorno dopo giorno, sembrava modesto: poche decine di morti la settimana, poche migliaia di nuovi casi la settimana, aumenti contenuti del numero di ricoveri in ospedale e in terapia intensiva.

Poi, circa 10 giorni fa, quando il numero di nuovi casi ha cominciato a puntare verso quota 10 mila, e il numero di morti giornalieri verso quota 100, un barlume di consapevolezza si è cominciato a fare strada. Sono cominciate le disquisizioni su nuovi lockdown e o semi-lockdown, coprifuoco globali o locali, chiusure più o meno severe di bar, ristoranti, palestre, scuole, con un’unica preoccupazione: escludere un nuovo lockdown globale, come quello di marzo e aprile, e convincerci che sconfiggere l’epidemia era compito nostro, o tutt’al più dei poteri locali, governatori delle Regioni e sindaci dei Comuni. Nessuna autocritica, nessuna ammissione di avere sbagliato tutto nel trimestre estivo quando, nonostante i dati dicessero il contrario, si è fatto come se l’epidemia stesse battendo in ritirata, e non ci fosse bisogno di rafforzare il trasposto pubblico locale, la politica dei tamponi, le strutture scolastiche, i controlli su movida e assembramenti.

Il risultato è che il tentativo maldestro di salvare l’economia durante l’estate verrà pagato con gli interessi nei mesi prossimi quando, per limitare le dimensioni della catastrofe sanitaria, le autorità saranno costrette a nuove chiusure, che ora non hanno il coraggio di annunciare ma che non potranno evitare.

Sembra incredibile, ma quello che sta andando in scena in questi giorni è il remake del film che abbiamo già visto tra febbraio e marzo, quando per “riaprire Milano” si rinunciò a chiudere per tempo Nembro e Alzano. Anche oggi, come allora, per paura di fermare l’economia si prende tempo, sperando che l’epidemia retroceda da sola, e dimenticando che quel che sta succedendo questa settimana, così come quel che succederà la prossima, è già scritto, perché dipende dai comportamenti di 2-3 settimane fa. Nel frattempo i contagi e i morti raddoppiano ogni settimana, come le ninfee dello stagno, nella vana attesa che il contadino faccia qualcosa. E quando finalmente ci si deciderà a fare qualcosa, sarà così tardi che questo qualcosa dovrà essere molto duro e prolungato.

Perché la legge fondamentale dell’epidemia è questa: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti.




Il debito e il sonno dei mercati

Capisco che sentirsi seduti sopra una montagna di euro sia inebriante. E’ la sensazione che doveva provare lo zio Paperone quando si tuffava fra le monete del suo deposito. E dev’essere la sensazione che provano i nostri governanti quando parlano dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa.

Ci sono due importanti differenze, tuttavia. I soldi che arriveranno in Italia non saranno dollari, bensì euro. Ma soprattutto: lo zio Paperone sedeva su soldi propri, perché li aveva guadagnati. Invece i nostri governanti si accingono a sedersi su soldi altrui, che dovranno essere restituiti.

Qualcuno potrebbe obiettare: una parte dei soldi che attendiamo dall’Europa, più di 80 miliardi, sono a fondo perduto. Ma è un’illusione. Chi ha provato a fare i conti, come l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, avverte che, dal momento che l’Italia è contributore netto al bilancio europeo, il beneficio effettivo per il nostro paese potrebbe aggirarsi sui 46 miliardi. Che sono meno della metà del nuovo debito che il Governo ha contratto con i tre scostamenti di bilancio approvati durante il primo semestre, e circa un terzo dell’incremento del debito pubblico intervenuto in appena 5 mesi, da febbraio a luglio di quest’anno.

In poche parole: i soldi “veri” (diversi dai prestiti) che prima o poi arriveranno dall’Europa non bastano nemmeno a ripianare il debito aggiuntivo (più di 100 miliardi) che abbiamo già accumulato nella prima parte dell’anno. L’occasione meravigliosa e “senza precedenti” che l’Europa ci offre è di aggiungere ai debiti già contratti nei mesi scorsi altri 130 miliardi di ulteriori debiti, destinati a diventare quasi 170 se ci decideremo a ricorrere anche al MES.

E’ in questa situazione che, da qualche giorno, è partito l’assalto alla diligenza delle “risorse” in arrivo dall’Europa. Centinaia e centinaia di progetti si contendono l’accesso ai nuovi fondi, come se si trattasse solo di decidere che cosa è importante per il nostro futuro. Parole fumose e astratte si inseguono nella speranza di incontrare la comprensione e la benevolenza delle autorità europee cui spetta approvare i nostri progetti di spesa: digitalizzazione, innovazione, transizione ecologica, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, formazione, equità, inclusione sociale.

Quel che resta del tutto in ombra è il punto decisivo: a conti fatti la manna che arriverà dal cielo europeo è fatta solo di prestiti, e i prestiti andranno restituiti. Il che significa: il problema non è di spendere in cose che riteniamo utili al paese (su questo ognuno ha ovviamente le sue idee), il problema è di far sì che, alla fine, ogni euro speso generi più di un euro di nuovo Pil. Solo così potremo rimborsare domani i prestiti che ci vengono erogati oggi.

E’ questo che i vari piani e progetti dovrebbero essere in grado di garantire, o perlomeno rendere verosimile. E non è affatto un requisito facile. La spesa pubblica corrente di norma distrugge più risorse di quante ne crei, e gli investimenti stessi non sempre sono in grado di far crescere il Pil più di quanto costino. Molto dipende dai settori in cui si investe, dalla qualità dei piani, dai manager chiamati ad attuarli, ma ancor più da un fattore che troppo spesso trascuriamo: l’ambiente economico e istituzionale in cui l’investimento avviene. Se la burocrazia soffoca l’iniziativa privata, la giustizia civile non funziona, il mercato del lavoro è ingessato, il fisco asfissia i produttori, anche i migliori investimenti e i migliori stimoli all’economia rischiano di generare benefici modesti, o addirittura nessun beneficio netto.

Perché la politica non si pone il problema della restituzione del debito? Perché si parla e si ragiona come se i prestiti fossero finanziamenti a fondo perduto, o come se il creditore potesse dimenticarsi del debitore, o rimettere i suoi debiti “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?

Sinceramente non lo so. Alle volte penso che sia la nostra cultura cattolica che ci rende così irresponsabili. Come il peccatore pecca e ripecca sereno in attesa della prossima confessione o indulgenza che lo laverà di tutti i suoi peccati, forse allo stesso modo il politico pensa che alla fine si troverà una quadra, e che i debiti non debbano essere davvero restituiti.

Altre volte, invece, mi capita di pensare che dietro la rimozione del problema del debito vi sia un calcolo preciso, e cioè: il problema riguarda chi verrà dopo, noi intanto spendiamo e acquisiamo consenso, poi chi vivrà vedrà. Può darsi che sia così, che il governo giallo-rosso pensi di durare fino al 2023, spendendo allegramente i 209 miliardi del Recovery Fund, e che la restituzione del debito tocchi a Salvini-Meloni-Berlusconi, quando sarà il loro momento.

Se fosse così, sarebbe un calcolo alquanto cinico. Però, a mio parere, sarebbe anche un calcolo azzardato. La scommessa di poter fare tranquillamente le cicale per 2-3 anni, lasciando a chi verrà dopo la gestione della bancarotta del Paese, non tiene nel debito conto un’eventualità tutt’altro che remota: i mercati finanziari, che in questi mesi sono stati drogati dalle politiche dei bassi tassi di interesse, potrebbero anche svegliarsi. I calcoli della Fondazione Hume sui rendimenti dei titoli di Stato dei paesi europei segnalano che, in questi mesi, gli interessi richiesti alla maggior parte dei paesi dell’Eurozona (compresa la Francia, ma escluse Germania e Irlanda) sono molto più bassi di quanto i fondamentali dei vari paesi suggerirebbero e giustificherebbero. Il che significa: domani potrebbero essere più alti, anche molto più alti.  A quel punto i paesi indebitati fino al collo, come l’Italia, la Grecia, e il Portogallo potrebbero salvarsi da una spirale di innalzamento dei rendimenti (come quella del 2011) solo se le loro economie fossero state nel frattempo risanate, e poste su un robusto sentiero di crescita.

Perché è inutile illudersi: il debito “buono” non è quello che serve a fare le cose che i politici di turno ritengono prioritarie per il paese, ma è quello che i mercati giudicano rimborsabile. E, quando il rapporto debito/Pil è molto alto, ci sono due modi soltanto di rassicurare i mercati: l’austerità (più tasse e meno spese), che serve a diminuire il numeratore, e la crescita, che serve ad aumentare il denominatore.

Ecco perché l’enfasi esclusiva su “come spendiamo questa montagna di soldi”, e la demonizzazione delle riduzioni fiscali (fra le poche misure in grado di dare una spinta alla crescita) sono estremamente pericolose. Certo, potrebbero creare problemi solo ai governi successivi, quando i mercati si sveglieranno. Ma ne potrebbero creare anche al governo in carica, ove esso dovesse durare più a lungo del sonno dei mercati.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 settembre 2020




Potevamo vincere il virus, il Governo ha scelto il turismo. Intervista a Luca Ricolfi

Che cosa ci dicono i dati sull’andamento del virus elaborati dalla Fondazione Hume?
La Fondazione pubblica quotidianamente un termometro dell’epidemia, che monitora l’andamento del numero di contagiati. Ebbene, il termometro segnava 1.5 gradi pseudo-Kelvin alla fine di luglio, oggi sfiora gli 8 gradi. Questo significa che il numero di contagiati è almeno quintuplicato in poco più di un mese.
Un’altra cosa che facciamo è valutare la capacità dei vari paesi di intercettare i contagiati. E’ un’operazione essenziale, perché i dati dei nuovi casi (i più usati dai mass media) sono del tutto fuorvianti: 1000 casi in più in Italia, che ha una bassa capacità diagnostica, sono molto più preoccupanti che 1000 contagiati in più in Germania, un paese che, grazie al numero di tamponi e alla capacità di tracciamento, ha una capacità diagnostica ben superiore alla nostra.

Che evoluzione c’è stata in questi mesi?
Forse, riguardo all’Italia, in questo momento il dato più significativo è l’inversione di tendenza delle curve dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva.  In poche settimane abbiamo avuto una triplicazione (decessi) e una quadruplicazione (terapie intensive). La svolta nella curva epidemica risale alla seconda metà di giugno (noi l’abbiamo segnalata il 18 giugno sul sito: www.fondazionehume.it), ma il governo – fino a Ferragosto – è stato del tutto sordo ai nostri allarmi, e non solo ai nostri. Anche la Fondazione Gimbe, con il prof. Nino Cartabellotta, anche virologi autorevoli come Andrea Crisanti e Massimo Galli, si sono sgolati per mesi avvertendo del pericolo di una ripartenza dell’epidemia, ma è stato tutto vano. Il governo non voleva vedere né sentire.

I virologi consigliano di guardare il numero dei ricoverati e non quello dei contagiati per capire l’andamento dell’epidemia: è d’accordo?
Hanno perfettamente ragione, il numero di ricoverati è molto più significativo. Però anche il numero di ricoverati ha dei problemi, due soprattutto. Il primo è che la Protezione Civile non fornisce il numero di ingressi in ospedale (dato di flusso), ma solo quello degli ospedalizzati (dato di stock), che è altamente fuorviante: se avessero fornito il numero di ingressi in ospedale, che non si sono mai fermati, ci si sarebbe accorti che l’epidemia andava assai meno bene di quanto suggerisse la stazionarietà o la diminuzione del numero di ospedalizzati. Il secondo problema è che l’andamento del numero di ospedalizzati sottostima fortemente l’andamento dei contagi quando l’età mediana dei contagiati si abbassa, perché i giovani finiscono in ospedale molto più raramente degli anziani. In concreto questo significa: negli ultimi 30 giorni le persone in terapia intensiva sono “solo” quadruplicate, ma i contagiati potrebbero essere aumentati anche di 7 o 8 volte.

Il governo Conte si è proposto come modello di gestione della pandemia, ma lei ha sconsigliato di prendere l’Italia come esempio. Perché?
Perché, fra le società avanzate (che sono più di 30) ci sono solo 3 paesi che hanno registrato più morti per abitante di noi, e cioè Belgio, Regno Unito, Spagna. Persino gli Stati Uniti, che i nostri media descrivono come un paese dove si è scatenata l’Apocalisse, hanno meno morti per abitante di noi. Ma non è l’unica ragione per cui considero l’Italia come un modello da non imitare, ce ne sono almeno altre due.

Quali?
La prima è che l’Italia ha gestito malissimo il ritorno a scuola, commettendo alcuni errori madornali, primo fra tutti la mancata riduzione del numero di alunni per classe. La seconda è che l’Italia è uno dei pochi paesi che sono riusciti nel capolavoro politico di rilanciare l’epidemia e al tempo stesso affossare l’economia.

Chi bisognerebbe seguire? La “solita” Germania?
Sì, la Germania si è comportata benissimo, era organizzata e pronta già a febbraio con i tamponi e il tracciamento. Ma, se devo indicare dei modelli, più che un singolo paese indicherei una categoria di paesi, che per brevità chiamerò i “paesi disciplinati”. Si tratta di paesi che, per le ragioni più diverse (la religione, la tradizione, la cultura), hanno una ampia riserva di senso civico, rispetto per l’autorità, propensione a seguire le regole. Fra questi c’è sicuramente la Germania, ma ci sono anche altri paesi europei di area germanica o asburgica (Austria, Svizzera, Ungheria), o di religione luterana (paesi scandinavi), nonché buona parte delle democrazie asiatiche più o meno influenzate dal confucianesimo e dal buddismo (Giappone, Corea del Sud, Taiwan). Se si vanno a vedere i tassi di mortalità per il Covid di questi paesi, si scopre che sono tutti molto inferiori a quelli dei maggiori paesi europei, come Regno Unito, Francia, Spagna, Italia.

A chi va attribuita la ripresa dei contagi? Ai giovani incontrollabili e amanti del rischio? Alla voglia generalizzata di sfogarsi dopo i mesi di isolamento? O è semplicemente un’evoluzione naturale della malattia alla quale dovremmo adeguarci?
No, il Covid si poteva sconfiggere, anche se non debellare completamente, quando (a giugno) i contagi erano scesi a 2-300 al giorno. Quello era il momento di moltiplicare i tamponi e mettere restrizioni severe ai viaggi per motivi turistici, sia verso l’estero sia verso l’interno. Alcuni governatori, ad esempio quelli della Sardegna e della Sicilia, l’avevano capito, ma sono stati messi a tacere dall’imperativo categorico di salvare la stagione turistica, costi quel che costi.

Le autorità sanitarie dovevano seminare tra la gente ancora più paura del Covid?
No, le autorità sanitarie avrebbero dovuto limitarsi a dire la verità, senza cambiarla a seconda dei giorni, dei programmi televisivi, o di chi fosse l’intervistato di turno.

Che messaggi ha dato il governo ai cittadini in questi mesi con la sequela di regole incoerenti su bus, treni, aerei, scuole, discoteche, aperitivi, mascherine a orario?
E’ molto semplice. Il governo ha scelto di dare messaggi contraddittori, perché ognuno potesse raccontarsi la situazione come voleva. Il governo desiderava che ci sfrenassimo, per risarcirci del lockdown e far ripartire l’economia, ma non poteva dire che non c’erano pericoli, perché sarebbe stato accusato di “procurata epidemia”. Ha scelto di lasciarci credere che i pericoli fossero tutto sommato limitati, senza prendersi la responsabilità di affermarlo esplicitamente.

Perché per la scuola si parla soltanto di regole da applicare, dai banchi mobili a chi deve rilevare la temperatura, senza che nessuno si sia preoccupato di una riforma più complessiva?
E’ da almeno vent’anni che, quando si parla di scuola, si parla solo di cattedre, graduatorie, edilizia, orari, senza alcun riferimento alla funzione di trasmissione culturale. Questo governo si è limitato a continuare sulla strada dei predecessori, dopo essersi liberato dell’unico ministro (l’on. Fioramonti) che sulla scuola e sull’università forse qualche idea ce l’aveva.

Alla fine del lockdown lei disse che il governo si giocava una “scommessa rischiosa”: lasciava riprendere l’economia e consentiva di fare le vacanze sperando che in autunno la situazione sarebbe stata diversa. Scommessa vinta o persa?
Strapersa, direi. Anche perché stagione fredda e influenze non potranno che peggiorare ancora le cose.

Nel suo ultimo libro (La società signorile di massa, La nave di Teseo), pubblicato subito prima dello scoppio della pandemia, lei sostiene che l’Italia si sta trasformando in una “società parassita di massa”. Le decisioni prese finora dal governo a colpi di bonus confermano la sua analisi. E’ una tendenza ineluttabile?
Temo di sì, perché anche a destra le spinte stataliste e assistenziali sono molto forti (quota 100 l’ha inventata Salvini). La realtà è che le forze pro-impresa e pro-mercato, non eccessivamente compromesse con l’assistenzialismo, non rappresentano più del 30% dell’elettorato.

A chi si riferisce?
Fratelli d’Italia, Forza Italia, Azione (Calenda), Italia viva (Renzi), più qualche esponente isolato del Pd, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori.

I soldi promessi dall’Europa serviranno davvero per ripartire o sarà l’ennesima iniezione di assistenzialismo parassitario?
La seconda che ha detto.

Lei ha scritto che del Covid si è parlato finora come minaccia per la salute e per l’economia, e non per la nostra psiche. Che intende?
Che non ci si può dividere stabilmente fra impauriti e incoscienti, e che il Covid è destinato a degradare la rete delle nostre relazioni sociali. Se dura ancora a lungo, diventerà anche un problema psichiatrico, perché l’umanità non è programmata per vivere temendo sistematicamente l’altro, quando l’altro è parte della propria comunità, rete di amici, cerchia famigliare.

Davvero ci avviamo verso una società in cui gli altri sono soltanto un pericolo?
No, perché una società di questo tipo non è una società. Se il Covid dura, e non si trova un vaccino né una cura, quella verso cui ci avviamo è una società di bolle, o monadi, o vasi non comunicanti: piccole cerchie di persone, che si vedono fra loro e minimizzano i contatti con il resto del mondo. Con buona pace della globalizzazione.

Posso chiederle che cosa voterà al referendum, se voterà?
Vivo buona parte dell’anno a Stromboli, non mi sposto certo a Torino per scegliere fra il sì e il no al referendum. Il problema è che chi vota no rafforza la casta, chi vota sì rafforza l’anti-casta, ma nessuno sa quale delle due fa più danni all’Italia.

Intervista di Stefano Filippi a Luca Ricolfi, La Verità, 14 settembre 2020