Fake Journalism. Sul lockdown, la libertà e il tradimento dell’informazione italiana

Credo che dalla fine delle dittature del ‘900 mai, in Occidente, si sia visto un giornalismo sleale, fazioso e asservito alla linea governativa, come si vede oggi in Italia. Punto; e a capo.

In termini scientifici, la questione richiede una ricerca più seria, che sta partendo in questi giorni grazie alla collaborazione tra l’Università IULM e l’Osservatorio di Pavia [anche se la posizione che esprimo qui è del tutto personale, e non riguarda in alcun modo il mio Ateneo]. In questa sede, vorrei soffermarmi più discorsivamente su tre strategie messe in campo dai media: l’esercizio sistematico di disinformazione, orientato a generare smarrimento ed allarme; l’imbarazzante difesa del Governo; infine, e specularmente, la continua  ed inaccettabile criminalizzazione dei cittadini.

Quanto al primo argomento, parte del problema è senza dubbio la cattiva informazione scientifica, dovuta ad una perversa combinazione di fattori: l’incapacità dei giornalisti di leggere un paper di ricerca; il personalismo, ottuso e vanesio, dei medici chiamati ad intervenire in TV; la sciatteria di chi lavora nell’informazione; la rincorsa al titolo più rumoroso. Lascio la questione a chi si occupa di public understanding of science, una materia su cui ho poche competenze, per sollevare l’altra metà del problema: non la cattiva informazione, gestita in modo approssimativo e dilettantesco, ma la palese intenzione di seminare allarme e smarrimento nel pubblico. Un’intenzione evidente nella scelta di sottolineare sempre gli aspetti negativi – il dato in peggioramento anziché quelli in miglioramento, nel folle bollettino quotidiano del Sars-Cov-2 – e nella serie infinita di menzogne belle e buone che la stampa ha raccontato, sull’Italia e sullo stato generale dell’epidemia. In particolare è il paragone con le altre nazioni, su cui il pubblico medio ha maggiore difficoltà ad orientarsi, ad essere gestito in modo terroristico, mentendo senza ritegno sulle virtù di un “modello italiano” che non è mai esistito, e insistendo ogni giorno sull’aspetto peggiore del paese che vive il periodo peggiore, senza alcun rispetto per le proporzioni generali e senza nessuna visione di insieme. E perfino con buone ragioni, se la vediamo dal lato dei manipolatori: perché quello che appare evidente, se allarghiamo le linee dell’analisi, è che la correlazione tra la durezza del lockdown e la riduzione dell’epidemia è tutt’altro che scontata e assai difficile da dimostrare, senza contare gli spaventosi costi umani che ne derivano. L’analisi comparata di John Ioannidis[1], recentemente, mostra come le misure aggiuntive rispetto a quelle di precauzione generale – e segnatamente lo “stay-at-home” obbligatorio – non producano vantaggi misurabili. Cosa di fatto prevista dalla Dichiarazione di Great Barrington, il manifesto contro il contenimento scritto nello scorso ottobre da altri tre epidemiologi di fama mondiale [Martin Kulldorff, di Harvard; Sunetra Gupta, di Oxford; Jay Bhattarchaya, di Stanford], e firmato da 53.000 – cinquantatremila – tra medici e scienziati in cinque continenti[2]. Provate a verificare lo spazio concesso a questa posizione scientifica, nel dibattito italiano – ma vedrete che non servirà molto tempo.

Ammetto che la questione è tremendamente complessa, perché di fronte a processi così ampi è impossibile filtrare le variabili,  e ridurre il tutto ad una chiara relazione di causalità: così che ognuno tende a selezionare i segmenti statistici in linea con la propria tesi di fondo, e io non faccio eccezione. Ma il punto critico è un altro, e nasce esattamente da questa incertezza epistemologica: misure di restrizioni tanto gravi ed illiberali possono essere giustificate soltanto dalla ragionevole certezza della loro utilità. E quindi sta a chi sostiene il confinamento dimostrarne la ragione scientifica, e non a chi lo contesta dimostrare il contrario – esattamente come tocca all’accusa l’onere della prova, e mai alla difesa. Affermare la sospensione dei diritti come azione preventiva – che “tanto male non fa”, come hanno il coraggio di dire certi anchor-men – non è altro che un esperimento di controllo sociale su vastissima scala, a cui dovremmo dedicare tutte le nostre energie critiche, tanto devastante è il suo effetto sui principi ultimi della convivenza civile e delle democrazie liberali.

Quello che ha così preso corpo, in un clima di incredibile conformismo, è il ribaltamento delle categorie valoriali su cui si fondano le democrazie: è la libertà che deve essere giustificata, e non la sua limitazione; le misure restrittive diventano uno scopo in sé, anziché una misura da applicare con cautela, in base a motivazioni scientifiche verificabili e solide legittimazioni giuridiche; e i dati – gestiti in modo opaco e arbitrario, con cambi continui delle variabili in gioco – contano meno del pretesto a cui possono essere piegati. E trovo singolare che quasi nessuno, tra chi si occupa di lavoro intellettuale, abbia la forza di vedere come la messa in disciplina del corpo sociale stia diventando – e certamente non solo in Italia – un problema ben più ampio di quello epidemiologico.

Il secondo peccato capitale, per quanto sta invece alla nostra contingenza politica, è la costante adulazione della maggioranza “giallorossa”, come piace dire ai giornalisti. Di un governo che ha portato il Paese agli ultimi posti in ogni categoria di valutazione, e che allo stato attuale è semplicemente il peggiore del mondo, se combiniamo tra loro i diversi indicatori: tasso di mortalità; letalità del virus; durezza delle misure di contenimento; mesi di chiusura delle scuole; impatto della crisi economica in termini di occupazione e di PIL; ritardo di programmazione per il piano Next Generation. Eppure, sommersa da risultati catastrofici da ogni immaginabile punto di vista, la stampa ha pensato bene di reggere il gioco al Governo, con tanto di celebrazione totalitaria di Giuseppe Conte, paragonato senza senso del ridicolo – in ordine sparso – ad Aldo Moro, Camillo Benso di Cavour, Winston Churchill, François Mitterrand, Giovanni Giolitti, Luigi Sturzo, Angela Merkel [e dal Fatto Quotidiano, pace all’anima nostra, perfino al leggendario Muhammad Alì di Kinshasa]. Osservate ad esempio le fotografie di Conte pubblicate dai quotidiani, o i video di un qualsiasi TG: l’inquadratura dal basso a costruire un’aura napoleonica; gli occhi che guardano lontano, come quelli di chi fissa l’orizzonte con intraprendenza; le immagini apparentemente rubate durante una giornata di lavoro, con l’obiettivo che mette in campo l’angolo della porta socchiusa; la camminata fiera e veloce, palesemente messa in scena per l’occasione. Intendiamoci, si tratta di soluzioni tecnicamente banali, perfino grette, da ufficio stampa di quarta categoria – ma tanto sembra bastare per i giornalisti italiani, che ritengono tutto questo normale.

Il terzo tema è fatalmente correlato al secondo, e riguarda la colpevolizzazione dei cittadini, di cui mi è capitato di scrivere già nella primavera del 2020[3]. Senza mezze misure, e senza eccezioni significative, i media di opinione hanno scelto da subito la loro battaglia: servire il Governo, e scaricare sui singoli la colpa dell’epidemia. Di qui, l’ossessiva ricerca del capro sacrificale: il vicino che porta a spasso il cane; i runner; la movida;  le discoteche; le [presunte] feste clandestine; gli assembramenti di turno. A poco serve, far notare che l’Italia è il paese occidentale che ha imposto le misure più dure; che i dati del Ministero dell’Interno svelano un notevole rispetto delle regole, almeno per i nostri parametri, con una quota di multati mai superiore all’1% dei controllati; che incontrarsi all’aperto comporta rischi risibili; che ben altri sono i luoghi in cui il Covid-19 ha colpito duramente; o che, diciamolo una volta buona, vivere senza socialità e senza contatti fisici è semplicemente impossibile, ed è bene che così sia. Niente da fare: pensate a quante volte avete visto le immagini dello shopping o della cosiddetta “movida” – di norma schiacciate da un uso criminale del tele-obiettivo, per eliminare la profondità di campo – e quante poche volte avete sentito parlare dell’affollamento sugli autobus, delle infezioni contratte in ospedale, delle barbarie ripetute negli ospizi, dell’assenza di un piano epidemiologico, di un’assistenza sanitaria che non migliora mai [quando la cura dei malati, nella bufera di una crisi epidemiologica, è l’unica cosa che conta]. Chiedetevi quante volte avete sentito associare la colpa ai cittadini, e quante volte alla classe dirigente che ha la responsabilità di proteggerli; e anche qui, darvi una risposta non dovrebbe essere troppo complicato.

Assecondando in anticipo un’obiezione possibile, per quanto di scarso mordente: sì, certo, non tutti i giornalisti sono uguali; qualcuno ha mantenuto una linea di decenza; qualcuno ha fatto inchieste interessanti; qualcuno ha tirato fuori i dati reali e i reali problemi, e per questo ha subito la punizione squadrista degli opinionisti di apparato. Ma si tratta appunto di giornalisti, di singoli dotati di buone intenzioni, per lo più di area liberale; nulla che intacchi la linea editoriale delle testate più note, né tanto meno la collusione tra informazione e Governo [qui semmai l’unica eccezione, assai limitata, è data dai quotidiani della destra sociale]. E questo è un problema di drammatica urgenza, perché in nessun paese democratico la stampa prende di petto l’opposizione, anziché il governo; o perseguita sadicamente i cittadini, anziché tenere sotto controllo il potere. Il primo è un vizio tipico dei sistemi illiberali, e il secondo di quelli totalitari: e noi, è tempo di aprire gli occhi sulla realtà, subiamo da mesi sia l’uno che l’altro. E nessuno parla.

E’ infatti vero, bisogna essere onesti, che in questo disastro i giornalisti si trovano in ottima compagnia: ancora più avvilente è anzi il silenzio della classe intellettuale; e il suo tradimento, ben più doloroso. A fronte di una gestione cialtronesca e approssimativa; a fronte di risultati che sarebbero comici, se non contenessero in sé la tragedia della malattia e della morte; a fronte dell’abuso di potere più sistematico; davanti all’ignobile arroganza mostrata dagli uomini dello Stato, che bullizzano la popolazione anziché mettersi al suo servizio – di fronte a tutto questo, praticamente nessuno ha parlato, nel mondo della cultura, dell’arte, dell’opinione progressista, dell’accademia. Nulla di sorprendente, forse, trattandosi di un mondo largamente finanziato dallo Stato, e con vincoli tutt’altro che puerili con l’apparato di potere del Partito Democratico. Donne e uomini sempre pronti alla battaglia, quando si tratta di affrontare un nemico astratto, o localizzato qualche migliaia di chilometri più in là; tutti compiacenti e passivi, da quando gli arresti domiciliari, il coprifuoco e lo Stato di Polizia sono diventati storia di casa nostra.

Tutti in silenzio, ho detto; quasi tutti, è corretto dire, rendendo merito alle eccezioni, a partire dalla più luminosa: Giorgio Agamben[4], un pensatore studiato in tutto il pianeta, e messo serenamente ai margini qui da noi [e che anzi, anche nella Tv di Stato, è stato deriso da opinionisti che in un mondo normale non avrebbero diritto di spolverargli la scrivania]. Prima i giornalisti; poi l’intero campo della cultura; e da buon ultimo – per onestà – parliamo anche dell’ambiente di cui sono parte, la sociologia e la sociologia dei media. Perché a fronte di un tale stato dell’informazione, combattere soltanto le fake news in rete – e, guarda un po’ il caso, sempre quelle che conducono a Trump o a Salvini – smette di essere un atto di conformismo accademico, e rischia di diventare una forma di complicità. Mentre per le donne e gli uomini liberi, se ce ne sono ancora là fuori, è venuto il tempo di alzare la voce.

[1] J. Ioannidis, E. Bendavid, C. Oh, J. Bhattharcaya, Assessing Mandatory Stay-at-home and Business Closure Eeffects on the Spread of Covid-19, 2021, disponibile al sito https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/eci.13484.

[2] La dichiarazione di Great Barrington è disponibile al sito https://gbdeclaration.org/.

[3] A. Miconi, Epidemie e controllo sociale, Roma, manifestolibri, 2020.

[4] G. Agamben, A che punto siamo? L’epidemia come politica, Macerata, Quodlibet, 2020. Per lo schema teorico su cui si fonda la sua analisi, inopportunamente banalizzata nel discorso pubblico italiano, Stato di eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.




Lettera a Renzi

Caro Renzi,

anche se non ci conosciamo, né ci siamo mai parlati a tu per tu, mi permetto di raccontarle che cosa passa per la testa di un ex-renziano come me.

Non sono mai stato iscritto a un partito, e meno che mai al Pd, di cui non mi sono mai piaciuti l’attaccamento al potere e l’ostinato convincimento di rappresentare “la parte migliore del paese”.

E tuttavia, quando lei di quel partito cercò di rinnovare la sostanza e il linguaggio, ho fatto una cosa per me del tutto innaturale, ma che allora mi sembrò utile: ho fatto la coda alle primarie, per votare lei, che mi pareva l’unico in grado di modernizzare la cultura politica del campo progressista, di cui mi sono sempre sentito parte.

Poi l’ho vista in azione al governo, e l’ho vista far naufragare il suo stesso progetto di riforma istituzionale. Ho cominciato a pensare che mi ero sbagliato, e che le mie speranze erano state mal riposte. Ma il colpo di grazia è arrivato nel 2019, quando lei si fece promotore della più spregiudicata manovra parlamentare della storia repubblicana: la nascita del governo giallo-rosso.

Attenzione, però. La spregiudicatezza di quella manovra, per me, non risiedeva nel fatto che l’unico collante del nuovo governo fosse il terrore del voto (per i Cinque Stelle) e l’amore per il potere (per il Pd). E nemmeno nel fatto che lei promuoveva un’alleanza, quella con il partito di Grillo, che fino ad allora aveva escluso, e che inevitabilmente avrebbe snaturato il suo Pd, spegnendone ogni residua vocazione riformista e modernizzatrice.

No, per me la spregiudicatezza sta nella giustificazione che di quella manovra lei volle dare. Allora lei si oppose strenuamente alle elezioni anticipate soprattutto con un argomento, ovvero il rischio che Salvini potesse assumere “i pieni poteri”. Di fronte a quel rischio si poteva, anzi si doveva, anche digerire il rospo-cinque Stelle.

Ebbene, quella giustificazione non sta in piedi. Quella giustificazione è solo il frutto di una consapevole e non scusabile manipolazione della realtà, o meglio delle parole altrui.

La terribile invocazione dei pieni poteri è la seguente:

“Non sono nato per scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri. Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie”.

Credo che chiunque non sia accecato dall’odio o dall’ideologia sa riconoscere, in una dichiarazione del genere, quel che è sempre stato il sogno irrealizzato di tuti i grandi partiti, o meglio di tutti i partiti di maggioranza relativa: avere il 51% dei seggi parlamentari, per poter realizzare il programma su cui hanno chiesto il voto ai cittadini.

Era stato il sogno della Dc di De Gasperi (ai tempi della cosiddetta legge truffa: 1953), è stato il sogno di Berlusconi, quando i “cespugli” del centro-destra gli impedivano di attuare la “rivoluzione liberale” promessa. Ma è stato anche il sogno del Pd, quando Veltroni parlava di “vocazione maggioritaria” e sognava una legge elettorale capace di individuare un vincitore. Ed è stato pure il sogno di Renzi, quando guidava un partito del 41%, e diceva che non importava quale legge elettorale si fosse scelta, purché la sera delle elezioni si sapesse chi aveva vinto.

Perché dunque quel che tanti leader avevano chiesto non poteva essere chiesto da Salvini?

Per questa domanda ci sono una serie di risposte ideologiche pronte, precotte e premasticate: perché Salvini ci avrebbe portati fuori dall’euro; perché Salvini avrebbe aumentato l’Iva; perché Salvini avrebbe instaurato una dittatura, o una quasi-dittatura (se no, perché temere i pieni poteri?).

Ma la risposta vera, secondo me, è un’altra, ed è drammatica: la sinistra, il campo progressista, ancora oggi (anno di grazia 2021) non ha raggiunto la maturità democratica. Che consiste nel trattare l’avversario politico come avversario, e non come nemico della democrazia. Nel considerare sé stessi come portatori di un progetto politico, anziché come depositari esclusivi del bene comune. Nella fiducia di poter combattere gli avversari con la forza delle idee, anziché cercando ogni volta di evitare il ricorso alle urne, quasi che noi progressisti, le molte idee di Salvini che non condividiamo, non fossimo in grado di sconfiggerle in campo aperto.

Ci aveva provato un po’ Veltroni, a rispettare l’avversario, ma non ce l’ha fatta nemmeno lui a cambiare il Dna del Pd. Anche per responsabilità della cosiddetta società civile che – attraverso  appelli, girotondi e sardine varie – ha ritenuto di dover gridare al pericolo per la democrazia ogni qualvolta all’orizzonte si è profilato il rischio che a vincere non fossimo noi, i “sinceri democratici”, unici interpreti degli interessi generali del paese, unico presidio contro le tentazioni autoritarie della destra.

Ora lei, caro Renzi, da qualche mese viene piagnucolando che quota 100 è una follia, il reddito di cittadinanza un obbrobrio, l’azione del governo inesistente, i progetti di utilizzo dei fondi europei imbarazzanti, l’economia allo sbando, la gestione dell’epidemia catastrofica, lo stile di governo improntato a vanità e spregio delle istituzioni. E mille altre cose ripete, per lo più sacrosante, e per cui si è deciso ad aprire una crisi di governo.

Ma io le faccio un’unica domanda: non lo sapeva, quando ha bussato alla porta di Zingaretti per proporre il patto incestuoso con i Cinque Stelle, che così avrebbe dissolto in un colpo solo il progetto da cui il Partito democratico era nato, e di cui lei era diventato l’interprete più brillante e coraggioso?

Non so perché, un anno e mezzo fa, lei si decise a ingoiare il rospo, e a ingoiarlo ancora vivo e vegeto. Capisco che le sia rimasto sullo stomaco, e non l’abbia digerito ancora oggi. Ma quando lei denuncia i limiti dell’azione di governo sta solo constatando una verità ovvia, che pare stupire solo lei: i Cinque Stelle sono i Cinque Stelle, e quindi fanno i Cinque Stelle. Come direbbe Gertrude Stein: una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.

Che cosa si aspettava? Che il Pd rieducasse i cinque Stelle? Che nell’alleanza fra un partito non ancora pienamente riformista come il Pd e un partito populista e giustizialista come il partito di Grillo sarebbe stato il mite Zingaretti a prevalere? O che bastasse Italia viva a rieducare entrambi?

La realtà, temo, è che in Italia il sogno di una sinistra riformista – egualitaria e modernizzatrice – è tramontato definitivamente. Lei, è il momento di prenderne atto, a questo tramonto ha dato un contributo significativo. Ed è tristemente emblematico che i giorni di questa crisi, che hanno visto il trionfo del trasformismo e l’umiliazione di quel che resta del riformismo progressista, siano gli stessi in cui Emanuele Macaluso, il più coerente e sincero dei riformisti, ci ha lasciato per sempre. Quasi a segnare, con questa coincidenza di tempi, il passaggio di testimone fra due mondi e due epoche.

Peccato. Perché quel sogno aveva un senso, e alcuni di noi ci avevano creduto e lavorato. Ora tutto è più difficile, e addolora il fatto che a seppellire quel sogno sia stato proprio chi, di quel sogno, era stato l’ultimo e più incisivo interprete.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 gennaio 2021




Modello italiano. Intervista a Luca Ricolfi

Classe 1950, sociologo, docente di Analisi dei dati, presidente e responsabile scientifico della Fondazione Hume, Luca Ricolfi lancia, dati alla mano, un durissimo atto d’accusa contro la gestione della pandemia: si tratta di un’evidente prova di malgoverno.

Professore, nel suo ultimo saggio per La nave di Teseo (La notte delle ninfee), lei si ’sorprende della sorpresa’ che molti osservatori hanno avuto per la ripresa della pandemia. Perché era prevedibile?
Perché aveva già rialzato la testa a giugno, e poi con assoluta evidenza a settembre, senza che il governo – impegnato a lodare il “modello italiano” – facesse nulla per predisporre le condizioni della riapertura post-vacanze. E questo nonostante tali condizioni fossero note, e ripetute fino alla noia da tutti gli esperti indipendenti: tamponi di massa, aumento del personale addetto al contact tracing, Covid-hotel, rafforzamento del trasporto pubblico, riorganizzazione della medicina territoriale, solo per citarne alcune.

Per l’Italia record di morti e Pil quasi a meno 11. Davvero è colpa della riapertura delle discoteche, del turismo, del ’liberi tutti’?
Bisogna distinguere. L’errore più grosso dell’estate è stato di non bloccare (o limitare drasticamente) il turismo internazionale, sia in uscita sia in entrata. A partire dal 18 giugno, come Fondazione Hume, abbiamo ripetutamente lanciato l’allarme: per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia. Ma è stato tutto inutile. Quanto al resto, discoteche, bar, ristoranti, assembramenti, eccetera, un ruolo negativo l’hanno avuto di sicuro, ma meno rilevante dell’apertura delle frontiere e del turismo internazionale.

In sostanza: di fronte a questi dati, Conte dovrebbe davvero fare le valigie al di là delle varie e bizantine alchimie politiche?
Conte ha gestito l’epidemia di testa sua, ascoltando solo gli esperti di nomina politica, e ignorando ogni parere contrario, per quanto supportato da dati e analisi. Io non so se dovrebbe fare le valigie, perché non escludo che si possa fare ancora peggio di lui. Dopotutto, sulla gestione dell’epidemia, le critiche più severe sono venute da forze politiche (Lega e Italia Viva, soprattutto) che difendevano una linea ancora più imprudente della sua. L’unica cosa che mi sento di dire è che Conte dovrebbe almeno chiedere scusa, perché la sua gestione ci è costata decine di migliaia di morti non necessari, oltreché decine di miliardi di Pil.

Tamponi, tamponi e ancora tamponi nel periodo delle riaperture. Come mai non è stato fatto?
Per il periodo maggio-agosto è un mistero, dal momento che il problema dei reagenti era superabilissimo. Per gli ultimi due mesi credo che la causa sia il sistema di incentivi aberrante che è stato messo su con la “danza dei tre colori”: a quanto pare le Regioni temevano che fare più tamponi significasse scoprire più casi, con conseguente declassamento “cromatico”.

Domanda che si pone anche lei: con un governo coraggioso, in grado di imporre misure impopolari in estate, noi cittadini le avremmo accettate?
Difficile dirlo, ma certe misure non richiedevano l’accettazione, si potevano imporre e basta: blocco del turismo internazionale, chiusura tassativa delle discoteche, multe ragionevoli ed effettive per movida e assembramenti.

Spieghi ai nostri lettori il perché della citazione di Christa Wolf, scrittrice tedesca: «Durante la guerra si pensa solo come andrà a finire. E si rimanda a vita». Vuole significare che si sono saltati dei passaggi ‘salvifici’?
No, non era questo che avevo in mente. Premesse a Cassandra, da cui è tratta la citazione, è una struggente ricostruzione della caduta di Troia sotto la furia distruttrice dei Greci. Io penso che quel che l’Europa sta vivendo sia l’inizio di una caduta malinconica e definitiva, come lo fu quella di Troia. Con un ulteriore parallelismo: gli errori dell’establishment troiano, da Priamo ai suoi consiglieri e cortigiani, diedero un contributo decisivo alla rovina della città.

Intervista di Francesco Ghidetti a Luca Ricolfi, Quotidiano Nazionale, 19 gennaio 2021




Le colpe del governo nella seconda ondata. Intervista a Luca Ricolfi

Perché ha deciso di fare un libro che è un atto d’accusa così forte contro il governo?
Perché, a metà novembre, mi sono accorto di un fatto per me stupefacente: la maggior parte dei miei amici e colleghi, e la maggioranza degli italiani, erano convinti che la seconda ondata fosse inevitabile.  Dato che questa credenza non solo è falsa, ma è una concausa della crisi, ho ritenuto fosse giusto smontarla prima che produca altri danni.

In che senso credere nell’inevitabilità della seconda ondata è una concausa della crisi?
E’ semplice: se credi questo, abbassi la guardia, perché contro il fato è inutile combattere. E in questi mesi quasi tutti, anche nel mondo dell’informazione, hanno abbassato il livello di vigilanza verso l’attività (anzi l’inattività) del governo. La seconda ondata è anche il risultato di questo abbaglio collettivo.

La giustificazione principale del governo è che tutti i Paesi Occidentali sono nella nostra situazione, se non addirittura peggio…
Niente di più falso. Le società avanzate, con istituzioni paragonabili alle nostre (dunque escludendo dittature, paesi poveri e paesi ed ex-comunisti), sono 29, di cui 20 in Europa. Su 29 ben 10 (di cui 4 in Europa: Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca) hanno evitato la seconda ondata, e almeno 9 stanno evitando la terza. Quanto al paragone con gli altri paesi, dall’inizio della pandemia siamo al secondo posto (dopo il Belgio) per numero di morti per abitante. Né le cose vanno molto meglio in questo inizio di 2021: se consideriamo solo i decessi di gennaio, sono ben 24 (su 29) i paesi che hanno meno morti di noi.
Anche se – questa è la novità – ora ci sono tre grandi paesi che, in questo momento (gennaio), riescono a fare peggio di noi, mentre prima ci riusciva solo il Belgio.

Quali sono?
Stati Uniti, Regno Unito, Germania.

Cosa avremmo potuto fare di diverso?
Una decina di cose, che gli studiosi indipendenti, ad esempio quelli di Lettera 150 e quelli della Fondazione Hume, hanno disperatamente e inutilmente chiesto fin dalla fine di marzo. Cito solo le più importanti: tamponi di massa, contact tracing efficiente, Covid hotel per le quarantene, controllo dei voli e delle frontiere, riorganizzazione della medicina territoriale, rafforzamento del trasporto pubblico, messa in sicurezza delle scuole (classi piccole e dispositivi di controllo dell’umidità).
E poi la regola fondamentale: se sei costretto a fare un lockdown (il che è sempre un certificato di fallimento dell’azione preventiva), devi farlo subito, duro e tempestivo, secondo la formula “hard and early”. Non intervenendo tardi e inasprendo le misure gradualmente, come abbiamo fatto noi (e non solo noi, in Europa). Se no le ninfee dello stagno si moltiplicano troppo, e soffocano la vita dello stagno.

Tra le cose da fare non cita l’aumento dei posti in terapia intensiva…
Non è una dimenticanza. Se si fosse fatto tutto il resto, non ci sarebbe stato bisogno di alcun aumento dei posti in terapia intensiva, perché i contagiati sarebbero stati molti di meno, e la maggior parte dei malati sarebbe stata curata con successo a casa, secondo i protocolli informali spontaneamente emersi fin dai primi mesi della pandemia, grazie ai (pochi) medici che, come il dott. Luigi Cavanna, hanno avuto il coraggio di curare i loro pazienti a casa.

Si ha la sensazione che la pandemia sia gestita alla giornata, sbaglio?
Ha ragione, se si riferisce ai marchingegni delle restrizioni, come i colori giallo-arancio-rosso. Ma non è solo questo: il problema è che i criteri di valutazione del rischio sono sballati.

In che senso?
In due sensi. Primo, le soglie di allarme sono troppo alte (come si fa classificare gialla una regione con un valore di Rt pari a 1.2 o 1.25?). Secondo, la stella polare delle autorità sanitarie è la preservazione del sistema sanitario nazionale, anziché la minimizzazione dei contagiati. Un errore clamoroso, che altri paesi non hanno commesso.

C’è qualcosa che avremmo potuto tenere aperto e abbiamo chiuso e qualcosa che avremmo dovuto chiudere e abbiamo tenuto aperto?
Una risposta categorica è impossibile, perché non esistono studi in grado di quantificare in modo rigoroso gli effetti delle varie misure. La mia impressione è che, avendo quasi sempre accettato un numero di contagiati troppo alto, quel che avremmo potuto tenere aperto (e invece abbiamo chiuso) è ben poco, e si riduce alle attività culturali, dove – se ci si organizza per bene e per tempo – è possibile tenere il distanziamento e controllare l’umidità (con qualche investimento in macchinari, ovviamente). Un punto su cui Vittorio Sgarbi ha sempre avuto perfettamente ragione.
Quanto al caso opposto (chiusure mancate), alcuni studi statistici suggeriscono che l’errore più grave sia stato il mancato o inadeguato controllo delle frontiere (di terra e di mare) e dei voli (specie quelli a fini di turismo).
E’, del resto, un principio di puro buon senso: la lotta alla pandemia è incompatibile con il turismo internazionale.

Siamo stati per tre volte con l’indice di contagio ampiamente sotto 1 (giugno-settembre-inizio novembre): perché abbiamo sbagliato tre calci di rigore e l’Rt è rischizzato su?
Perché non si è fatto nulla per evitare che il sistema di tracciamento andasse in tilt. Lei lo sa che fra maggio e metà agosto anziché aumentare i tamponi li abbiamo ridotti? E che oggi si fanno meno della metà dei tamponi che si facevano a metà novembre? E che il numero di addetti al contact tracing è un quinto del minimo necessario?

Secondo i suoi studi è possibile convivere con il virus?
Sì, è possibilissimo, tanto è vero che 1 paese su 3 ci convive senza drammi. Ma per farlo occorrono alcune condizioni di base: un numero di infetti molto contenuto (possibilmente inferiore all’1 per 1000), un sistema di test e di tracciamento funzionante, una popolazione che rispetta le regole, un governo-custode dello stagno, che interviene appena le ninfee cominciano ad essere troppe.

Lei è un professore: le giovani generazioni stanno subendo un danno irreparabile?
Sì, ma minore del danno cognitivo e culturale che – nell’indifferenza generale – hanno subito in cinquant’anni di distruzione della scuola e dell’università.

Lei è un sociologo: come ci ha cambiato l’epidemia e come ci cambierà ancora?
Dipende dai paesi. Nel caso dell’Italia mi aspetto un paese più povero, più vittimista (in quanto sempre più dipendente dall’assistenza pubblica e dalla carità privata), più rancoroso e incattivito, perché la “società signorile di massa” non tornerà più.
Ma ci sarà anche una minoranza (di ceto medio) che reagirà bene, ridimensionando le aspirazioni e cambiando gli stili di vita.

Intravede errori anche nella procedura di vaccinazione?
Un mucchio, a partire da quelli dell’Europa che ha puntato sui vaccini sbagliati (per favorire Francia e Germania) e ha stipulato contratti deboli, come si vede in questi giorni.

Il governo usa toni trionfalistici sulla profilassi: li condivide o sta andando tutto bene solo perché abbiamo poche dosi e vacciniamo per ora solo chi sta in ospedale o nelle rsa.
Il governo sta vaccinando fra un terzo e un quarto delle persone che dovrebbe vaccinare per raggiungere gli obiettivi dichiarati (immunità di gregge entro ottobre 2021). Ma ha ragione ad osservare che siamo agli inizi, e che per ora la maggior parte degli altri paesi europei va ancora più lentamente.

Gli italiani come si sono comportati, meglio o peggio del governo?
Peggio del governo è impossibile. Sintetizzando, darei un 2 al governo, e 5 agli italiani. Con una avvertenza: il 5 degli italiani è la media fra il 7 degli adulti e il 3 dei giovani.

C’è stato qualcosa di sbagliato, o di particolarmente azzeccato, nella strategia comunicativa?
A giudicare dagli orientamenti dell’opinione pubblica, direi che la strategia comunicativa del governo è stata perfetta: è riuscito a convincere gli italiani che il virus fosse inarrestabile e a occultare le responsabilità del governo e delle autorità sanitarie. Chapeau!

Uno degli aspetti più criticati nell’azione del governo è stato di aver prodotto un vulnus della democrazia: è vero? In che termini?
Stato di emergenza e dpcm sono misure eccessive, specie se adottate da un governo frutto di una manovra parlamentare.

I virologi come si sono comportati: hanno aiutato o fatto solo confusione tradendo anche una certa ansia di protagonismo?
Complessivamente, hanno fatto danni, per la cacofonia dei messaggi che hanno veicolato. Singolarmente bisogna distinguere: Galli e Crisanti hanno sempre tenuto la barra dritta, i vari Zangrillo minimizzanti hanno fatto un cattivo servizio alla verità.

Secondo lei la debolezza dell’esecutivo ha giocato un ruolo decisivo nella cattiva gestione della pandemia?
Senz’altro, anche se il ruolo principale l’hanno esercitato la superficialità e la mancanza di cultura scientifica dei suoi membri.

Pensa che il premier si sia fatto scudo della pandemia per nascondere le debolezze sue e del governo?
Sì, senza il terno al lotto del Covid Conte sarebbe scomparso nel nulla da cui era venuto.

Come mai gli italiani, malgrado le evidenti difficoltà, concedono a Conte un gradimento alto?
E’ una domanda cui, come sociologo, ho difficoltà a fornire una risposta persuasiva. Penso che due elementi importanti del cocktail che ha miracolato Conte siano l’indifferenza degli italiani per la politica e l’assenza, in Italia, di un’informazione indipendente. Se giornalisti e commentatori avessero fatto il loro mestiere, forse non saremmo a questo punto.

E perché le opposizioni invece ce l’hanno basso?
Perché la linea dell’opposizione non è mai stata realmente alternativa, anzi per certi aspetti l’opposizione – specie con Salvini – ha spinto per soluzioni ancora più incaute di quelle del governo.

Renzi dice cose giuste? Allora perché è impopolare: perché?
Renzi dice molte cose giuste, e ha ragioni da vendere nel suo attacco al governo. Il suo problema è che non è credibile, oltreché un po’ sbruffone. Promette di dimettersi se perde e poi non lo fa. Giura mai con i grillini e poi ci si allea solo per evitare le elezioni. Governa con Conte per quasi un anno e mezzo e poi gli dà il benservito. Insomma a me molte idee di Renzi convincono, il problema è lui, la sua incoerenza. Per un riformista radicale come me, Renzi è un Calenda mal riuscito.

Il Pd ha dato la sensazione di essere spettatore a tutto, dalla pandemia, alla crisi, al governo: come mai?
Perché, anche se se la contano con discorsi alati (gli interessi del paese, il bene comune, eccetera) la stella polare del Pd è solo il potere, come per il Pentapartito degli anni 80.

Prima della pandemia eravamo una società signorile di massa: ora cosa siamo e dopo cosa diventeremo?
Ora siamo una società signorile di massa che non ha ancora preso atto di non esserlo più, e di essere in rapida transizione verso una società parassita di massa, in cui pochissimi lavoreranno e la maggioranza vivrà di modesti sussidi.

Quanto è ferito il tessuto economico italiano e abbiamo possibilità di riprenderci? In quali tempi?
No, secondo me – a questo punto – non abbiamo alcuna possibilità di riprenderci, perché abbiamo dilapidato 150 miliardi (in deficit), pietrificato l’economia (con il blocco dei licenziamenti), e non abbiamo fatto nulla per rendere ancora possibile l’attività di impresa.

Si dice che questa pandemia cambierà tutto: concorda, e in che modo?
Se retrocedi di 30 anni nel reddito pro-capite, ma le istituzioni sono complicate e vessatorie come quelle di oggi, il cambiamento non può che essere regressivo: più povertà, più diseguaglianza, più frustrazione, più invidia sociale.

Siamo al declino definitivo dell’Occidente? I nostri valori non reggono più i tempi?
Non direi. E’ che i nostri valori li abbiamo ripudiati. I valori dell’occidente non ci sono più, prosciugati dalla cultura dei diritti e dal vittimismo del politicamente corretto. Se non avessimo preso congedo da tutto ciò che bilanciava l’individualismo – capacità di sacrificio, differimento della gratificazione, rispetto dell’autorità e della cultura, senso del dovere – l’Occidente sarebbe in perfetta salute.

Intervista di Pietro Senaldi a Luca Ricolfi, Libero, 18 gennaio 2021




Il termostato

Sapete come funziona un termostato?

E’ semplice. Tu fissi la temperatura che vuoi, per esempio 19 gradi. Un rilevatore misura la temperatura dell’ambiente e, quando supera i 19 gradi, spegne il riscaldamento; quando invece va sotto i 19 gradi lo riaccende. La stessa cosa succede con un frigorifero che vuoi mantenere a – 4 gradi centigradi, o con un congelatore che vuoi tenere a -20 gradi. L’unica differenza è che il comando non è “riscalda” ma “raffredda”.

Perché parlo del termostato?

Perché oggi in Italia, ma anche in molti altri paesi europei (compresa la Germania), quella che si è imposta è la politica del termostato, applicata all’epidemia. Funziona più o meno così.

Il governo non può scontentare gli operatori economici, ma nello stesso tempo non è in grado di garantire che le attività lavorative, scolastiche, ricreative si svolgano in sicurezza. Quindi, anche se sa che il virus è ancora molto diffuso, lascia quasi tutto aperto o semi-aperto. Il virus ringrazia e allarga la sua presenza fra noi. A un certo punto qualcuno fa due conti e dice: ohibò, se andiamo avanti così il servizio sanitario nazionale va in tilt e questo, noi politici, non ce lo possiamo permettere. A quel punto cominciano le discussioni: se chiudere, quando chiudere, quanto chiudere, chi sacrificare e chi graziare. Alla fine si chiude, ma Rt non scende. Allora si chiude di più, Rt va sotto 1 per qualche settimana, i ricoveri ospedalieri diminuiscono, gli ospedali non sono più al collasso. A quel punto il partito della riapertura rialza la testa e prima o poi ottiene un alleggerimento delle misure, se non una riapertura totale. Passa qualche settimana e questa volta a rialzare la testa è il virus, che ricomincia a circolare più di prima. Il sistema sanitario va di nuovo in crisi, si deve chiudere di nuovo. E il ciclo si ripete.

I più ingenui (o più spregiudicati) dicono: resistiamo ancora 2-3 mesi, poi con la bella stagione e le vaccinazioni torneremo alla normalità. Chi lavora sui dati sa che non è vero, e che la politica del termostato – che non tutela né la salute né l’economia – è destinata a durare ancora a lungo.

Ma perché siamo finiti in questo imbuto che divora le nostre vite? Certamente la parte preponderante delle responsabilità è di chi ci governa. Sono loro che hanno imposto le regole, sono loro che non hanno saputo gestire le scuole, i trasporti, il tracciamento dei contatti, i tamponi, i flussi turistici, le quarantene, la medicina territoriale e tutte le altre cose che non sono state fatte, o sono state fatte male. Insomma, con altre scelte si potevano avere molti meno morti, e danni meno drammatici all’economia.

Però c’è un punto che resta sempre nell’ombra, e che invece è decisivo. La catastrofe è colpa della mala gestione dell’epidemia, ma la sconfitta è figlia di una scelta strategica sbagliata, che anche la più saggia e oculata gestione dell’epidemia non avrebbe potuto evitare.

Quale scelta?

La scelta di puntare tutto sul protocollo prevalente in Europa, che persegue la mitigazione dell’epidemia, anziché su quello prevalente in Asia e nell’emisfero Boreale, che persegue la soppressione (o quasi soppressione) del virus. E dire che, fin dalla fine di marzo, gli studiosi che si occupano di epidemia e di processi di diffusione, avevano perfettamente individuato la differenza fra i due protocolli, e la netta superiorità del protocollo orientale rispetto a quello europeo. Bastava studiare i dati e consultare gli esperti, per capire (o almeno leggere le lettere e gli appelli degli studiosi,  che fin dalla fine di marzo imploravano di cambiare strada). O anche solo farsi la domanda: perché in certi paesi (circa 1 su 3 fra le società avanzate) il virus è stato sradicato, o se non è stato completamente eliminato circola a bassissima intensità?

Ebbene, qual è, andando al nocciolo, la differenza fra i due protocolli?

E’ molto semplice: è la differenza che sussiste fra un frigo e un congelatore. In un frigo il termostato è regolato per tenere la temperatura a -4, in un congelatore per tenerla a – 20. Fuor di metafora: la soglia del protocollo europeo è quella che evita il tracollo del sistema sanitario nazionale, la soglia del protocollo orientale è quella, molto più bassa, che evita che vada in tilt il sistema di tracciamento. Giusto per dare un’idea: se si adotta il protocollo orientale l’allarme scatta quando il quoziente di positività (nuovi casi su soggetti testati) attraversa la soglia del 3%, se si adotta il protocollo europeo può persino succedere – come è accaduto in Italia a novembre-dicembre – che si tolleri un quoziente di positività del 25-30%. Se avessimo adottato la soglia del protocollo orientale l’allarme sarebbe scattato già il 25 settembre, se non prima, ovvero non appena il numero di nuovi casi fosse divenuto incompatibile con il tracciamento dei contatti.

La realtà è che le strategie prevalenti in Europa sono basate sull’andamento di Rt (indicatore della velocità del contagio), anziché sul controllo del quoziente di positività (indicatore del numero di positivi). La differenza è enorme.

Se punti tutto su Rt tolleri anche milioni e milioni di infetti, purché Rt non stia troppo sopra 1. E con milioni e milioni di infetti, intervenire ha costi umani ed economici spropositati, perché quando l’epidemia è fuori controllo solo il lockdown è in grado di arginarla.

Se invece punti alla soppressione del virus, ti adoperi per portare il coefficiente di positività vicinissimo a zero, perché anche poche migliaia di positivi sono troppi: e quando il numero di infetti diventa molto piccolo, il controllo dell’epidemia è infinitamente più facile, la paura non dilaga più, e l’economia respira.

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 gennaio 2021