Covid, perché questa Babele informativa?

Che ci sia un conflitto fra favorevoli e ostili alla vaccinazione sta nell’ordine delle cose. Nessuno, infatti, può prevedere completamente le conseguenze delle varie linee di condotta possibili. Inoltre, anche ammesso che tutte le conseguenze siano accuratamente prevedibili, non esiste alcun punto di equilibrio ovvio fra i “beni” che si vogliono tutelare: salute, diritto al lavoro, socialità, libertà di movimento, democrazia, eccetera. E infatti siamo divisi fra quanti ritengono che stiamo dando troppa importanza alla salute, e quanti ritengono che ne stiamo dando troppo poca. Può succedere così che, su certi punti (green pass), Giorgia Meloni sembri pensarla come il filosofo Cacciari, e su altri (obbligo di vaccinazione per i lavoratori) Salvini sembri pensarla come il capo della Cgil Landini.

Questo stato di anarchia del pensiero non deve sorprenderci troppo. Le società democratiche sono per loro natura iper-pluraliste e, quanto alla comprensione del virus e dell’epidemia, le scienze medico-sociali operano con margini di incertezza fortissimi.

E tuttavia c’è, nel modo confuso e cacofonico in cui parliamo di pandemia, vaccinazione, libertà, economia, qualcosa di non ovvio e non giustificato: la proliferazione di credenze false e di tesi tendenziose. Perché è vero che sono tantissime le cose che non sappiamo, ma sono anche parecchie – e importanti – le cose che sappiamo, o di cui siamo ragionevolmente sicuri. Quello cui assistiamo, invece, è la diffusione, anche da parte delle autorità politiche e dei mass media, di informazioni poco chiare, ambigue, fuorvianti, talora semplicemente false. Sicché oggi non esiste un minimo comune denominatore di informazioni condivise da tutti o, perlomeno, dalla stragrande maggioranza della popolazione.

Vorrei fare tre esempi.

Primo: i completamente vaccinati possono infettarsi?

Molti credono di no. E c’è persino chi dice che, poiché sono protetti dalla vaccinazione, i vaccinati non possono imporre alcuna restrizione nei confronti dei non vaccinati (se sono vaccinato, non posso temere il contatto con un non vaccinato). Non solo: se sono immune in quanto completamente vaccinato, non ho alcun bisogno – per proteggermi – di usare la mascherina, né all’aperto né al chiuso.

Bene, questa è una credenza falsa, e lo sappiamo non da ieri, ma fin dall’inizio della campagna vaccinale. Perché è così diffusa? Perché così raramente viene detta la verità, e cioè che il vaccino protegge dall’infezione molto meno di quanto protegga dalla morte o dall’ospedalizzazione?

Fondamentalmente perché pensare di essere invulnerabili è rassicurante (per i vaccinati). E forse anche perché le autorità politico-sanitarie hanno ritenuto che esaltare le virtù del vaccino avrebbe favorito la campagna vaccinale e la ripresa dell’economia, e poco hanno badato alla ovvia obiezione: se non dici tutta la verità sui limiti dei vaccini, i vaccinati prenderanno la palla al balzo per abbassare la guardia.

Secondo: anche i completamente vaccinati, se positivi, possono contagiare gli altri?

Gli scienziati, in modo sostanzialmente unanime, rispondono di sì, aggiungendo che – fortunatamente – il contagio dovrebbe verificarsi con minore probabilità. Il premier Draghi, invece, dice di no, pensando di rassicurare tutti, vaccinati e no. Forse il retropensiero è che se si dicesse verità (anche i vaccinati possono contagiare) la distinzione fra i buoni (vaccinati) e i cattivi (non vaccinati) sarebbe meno netta, e la campagna vaccinale rischierebbe di perdere appeal.

Terzo: siamo a un passo dall’immunità di gregge?

Molti politici (ultimo in ordine di tempo: l’assessore alla sanità del Lazio) credono o fingono di credere di sì. Anche alcuni giornalisti, particolarmente solerti nel promuovere la campagna vaccinale, ne sembrano convinti.

Invece no. Per qualsiasi epidemiologo dotato di una calcolatrice da tavolo è evidente che, con la variante delta e i vaccini attuali (che non sono sterilizzanti) è praticamente impossibile. Se R0 è vicino a 7, si dovrebbe vaccinare con vaccini sterilizzanti (che non abbiamo) almeno l’85% della popolazione, obiettivo chiaramente irraggiungibile senza un vaccino per i bambini e senza obbligo vaccinale.

Che cosa hanno in comune queste tre false e assai diffuse credenze?

Essenzialmente una cosa: ci rassicurano, perché nascondono i lati più inquietanti dell’epidemia. Ma perché nasconderli?

Non lo so. Forse per non rattristare le nostre vacanze. Forse per prolungare il più a lungo possibile il periodo di apertura delle attività. Forse per darci una speranza nel futuro.

Io però vedo anche un’altra spiegazione, meno tranquillizzante. Forse il governo, sulla gestione dell’epidemia, si è già rassegnato a ripetere il film dell’anno scorso, quando il governo Conte scelse di non intervenire durante l’estate e di non preparare in alcun modo il rientro dalle vacanze. Il mix era ed è chiarissimo, ieri come oggi: tamponi insufficienti, nessuna messa in sicurezza delle scuole, nessun rafforzamento del trasporto locale, nessuna riorganizzazione dell’assistenza domiciliare, nessuna app (funzionante) per il tracciamento elettronico dei contatti. Tutte cose che richiedono molti mesi, e non possono certo essere realizzate all’ultimo momento, per di più in agosto.

Con un’importante differenza, fra oggi e ieri. Oggi la politica può brandire l’arma del vaccino, e ha assoluto bisogno di farci credere che basterà a fermare l’epidemia (o a trasformarla in un incomodo con cui potremo convivere), e che se le cose andranno male sarà essenzialmente colpa nostra, che non ci saremo vaccinati in numero sufficiente.

Purtroppo, però, la differenza fra il rientro di quest’anno e quello dell’anno scorso non è solo il vaccino ma è la variante delta, molto più trasmissibile di quelle prevalenti un anno fa (R0 vicino a 7, anziché vicino a 3). E non è tutto: se compariamo il luglio di quest’anno con il luglio dell’anno scorso dobbiamo registrare che il numero di soggetti contagiati è circa 5 volte quello di un anno fa, e il valore di Rt è drammaticamente più alto (prossimo a 1.5, un valore catastrofico, mentre un anno fa fluttuava nei pressi di 1).

Insomma, tutti gli indicatori segnalano che la quarta ondata è in corso dai primi di luglio. La campagna vaccinale è, colpevolmente, l’unica vera arma messa in campo. Usiamola, ma per favore smettiamola di demonizzare i dubbiosi e diffondere incertezza con informazioni false, incomplete, distorte, ambigue. Potrebbe essere proprio una migliore informazione, che non nasconde le ombre e le incertezze della scienza, l’arma vincente per convincere non tanto i pochi Novax (che non sentono ragioni), ma il popolo degli indecisi, che vogliono capire e decidere per il meglio.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 luglio 2021




Cultura e salute, interessano solo all’opposizione?

Circa un anno fa, era la fine di giugno, mi presi la briga di scrivere che, per salvare il turismo, stavamo facendo ripartire l’epidemia. Il timore che questo sarebbe potuto accadere mi aveva accompagnato fin dai primi di maggio, ossia da quando il governo Conte aveva dato il via alla stagione delle riaperture. Ma per azzardare quella previsione, poi rivelatasi purtroppo esatta, aspettai che i dati indicassero in modo inequivocabile che la curva epidemica stava svoltando.

Oggi la storia si ripete. Come altri studiosi sono stato perplesso di fronte alle riaperture di aprile, ma fino a non molto tempo fa ho continuato a sperare che avessero torto i profeti di sventura, e che il “rischio ragionato” di Draghi, alla fine, si sarebbe rivelato una scelta lungimirante, o quantomeno una scelta non troppo costosa in termini di salute. Arrivati a questo punto, invece, devo purtroppo gettare la spugna, e ripetere il discorso di un anno fa: per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia.

Che cosa mi ha convinto che le cose si stiano mettendo per il verso storto?

Innanzitutto i dati degli altri paesi. Per molti mesi siamo stati rassicurati sull’efficacia dei vaccini, sulla loro capacità di proteggere dalle varianti e di frenare la trasmissione. Ma ormai l’evidenza che mostra che la campagna di vaccinazione non ferma la diffusione del virus è schiacciante: Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Spagna, Portogallo, Danimarca sono tutti più avanti di noi nella campagna vaccinale, ma cionondimeno stanno tutti subendo un’impennata dei casi, con il valore di Rt che supera 1 (e in 5 casi su 6 è già su valori catastrofici). La ragione di questa inversione di tendenza è presto spiegata: tutti questi paesi sono sì ad alta vaccinazione, ma sono anche sopraffatti dalla variante indiana (o delta), che in tutti ha una penetrazione superiore al 40%, e in due casi (presso i primi della classe delle vaccinazioni: Israele e Regno Unito) sfiora il 100%.

Questi dati indicano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che anche la vaccinazione di massa – pur necessarissima e più che mai auspicabile – non è sufficiente a fermare l’epidemia se si permette alla variante indiana di diffondersi oltre una certa soglia, verosimilmente intorno al 30-35%. L’Italia a quella soglia è piuttosto vicina (secondo l’ultima stima siamo al 28.4%), e infatti accusa i primi segni di cedimento.  Da alcuni giorni il quoziente di positività tende a  salire, mentre il valore di Rt è in crescita da un paio di settimane, e si sta avvicinando pericolosamente al valore soglia 1, che separa la regione di sicurezza (Rt<1) da quella di pericolo (Rt>1).

E non è tutto. Nella prima settimana di luglio gli indicatori di diffusione dell’epidemia (numero di positivi, quoziente di positività) suggeriscono che il numero di persone contagiate sia circa il triplo di un anno fa. Detto altrimenti: non solo l’epidemia è in ripresa, ma la base su cui il contagio si espande è sensibilmente più ampia di quella del luglio scorso.

Difficile sfuggire alla conclusione che se, finora, le cose sono andate abbastanza bene non è solo grazie alla campagna di vaccinazione, che sicuramente ha dato una mano, ma è soprattutto a causa della stagione (vita all’aperto e caldo) e a causa del ritardo con cui la variante delta è penetrata in Italia. Quest’ultimo fattore sta già venendo meno, come mostrano le statistiche sulla penetrazione della variante delta. Quanto alla bella stagione, la situazione resterà stazionaria fino ad agosto, ma invertirà il suo corso a partire da settembre. Pensare che la prosecuzione della campagna di vaccinazione basti ad arginare questi processi è un tantino azzardato. Fatta 100 la popolazione vaccinabile (over 15) Israele è all’85% di persone pienamente vaccinate (e già si vede che non basta), noi siamo appena al 40%, con l’aggravante che nella popolazione vaccinabile il peso degli anziani è in Italia molto maggiore che in Israele.

Rispetto a tutto questo, come si stanno muovendo le nostre autorità politiche e sanitarie? Spiace doverlo dire, ma – vaccini a parte – io vedo un solo elemento di reale discontinuità rispetto alla sciagurata gestione dell’epidemia nell’estate scorsa: Draghi ammette che l’epidemia è tutt’altro che vinta, e il ministro Speranza – per quel che è dato sapere – non sta scrivendo un nuovo libro per lodare il proprio operato.

Per il resto non si può non osservare che stiamo ripetendo esattamente gli errori dell’anno scorso sia nella gestione dell’estate, sia nella preparazione dell’autunno.

Sulla gestione dell’estate impera la leggerezza: porte spalancate al turismo internazionale, forze dell’ordine latitanti, riduzione del numero di test (quasi dimezzato rispetto a marzo), imminente riapertura delle discoteche.

Quanto alla preparazione per l’autunno, dall’agenda del governo paiono sparite, ammesso che vi avessero mai trovato posto, le tre mosse fondamentali che potrebbero rallentare e mitigare la corsa del virus nella stagione fredda: rafforzamento del trasporto locale, messa in sicurezza delle aule scolastiche e universitarie, riorganizzazione della medicina territoriale. E fa una certa impressione constatare che il “governo dei competenti” di tutto questo poco si curi, e che a richiamarlo sui pericoli di una ripresa dell’epidemia in autunno debba essere la “estremista” Giorgia Meloni, a quanto pare – su questo – equipaggiata di maggiore senso di responsabilità, o forse semplicemente di maggiore concretezza.

Perché siamo di nuovo a questo punto? Perché la lezione dell’anno scorso non è stata imparata? Perché le autorità si cullano nell’illusione che i vaccini basteranno a fermare l’epidemia, o a renderne sopportabili le conseguenze?

La risposta credo stia, innanzitutto, in ciò che come italiani (e, in buona parte, come europei) abbiamo dimostrato in questo anno e mezzo di Covid: per noi il turismo, le vacanze, il divertimento, la possibilità di spostarci liberamente e senza controlli sono vitali, irrinunciabili. Per queste cose siamo disposti a pagare un prezzo molto alto in termini di salute, di cultura, di istruzione. Diversamente da altri popoli che – come i giapponesi, i coreani, gli australiani, i neozelandesi –  hanno accettato pesanti limitazioni e sacrifici per combattere la pandemia, noi non siamo disposti a rinunciare alle cose che per noi contano. Certo speriamo che in autunno pochi anziani perdano la vita, e che i nostri ragazzi tornino a scuola in presenza, senza la stramaledetta Dad. Ma se questo risultato, che tutti auspichiamo, ha un costo troppo elevato, allora pazienza: ogni lasciato è perso, quindi cominciamo a prenderci le vacanze (dopotutto ce le meritiamo), poi quando arriverà l’autunno si vedrà. Non possiamo certo fare vacanze di serie B per salvare qualche migliaio di vite umane e per restaurare la scuola di ieri.

Io tutto questo l’anno scorso non l’avevo capito, per questo ingenuamente auspicavo che imitassimo i paesi che l’epidemia l’hanno vinta e, accettando sacrifici tempestivi e temporanei, hanno reso meno drammatico sia il bilancio finale dei morti sia quello delle perdite economiche. Per questo ragionavo come se della salute, della cultura e della scuola importasse davvero molto a tutti, politici e cittadini. Per questo ero incredulo di fronte alla nostra incauta estate, e non mi davo pace di fronte all’inerzia delle autorità politiche e sanitarie.

Invece quest’anno mi è chiaro: salute e scuola sono priorità solo a parole, se ci tenessimo davvero ce ne preoccuperemmo adesso, e gestiremmo l’estate in tutt’altro altro modo. E, poiché questa è la realtà, nessun politico, oggi, può chiedere agli italiani di sopportare dei sacrifici, come ebbe il coraggio di fare Berlinguer nel 1977 per salvare il paese dalla bancarotta economica. Oggi è il tempo del debito (debito “buono”, naturalmente), oggi è il tempo della spesa, oggi è il tempo della ripartenza dell’economia, oggi è il tempo del pass vaccinale, oggi è il tempo del campionato europeo di calcio. Per questo è inutile chiedere che per viaggiare si debba essere pienamente vaccinati, per questo è inutile chiedere di fare controlli veri agli aeroporti, per questo è inutile chiedere di contenere gli assembramenti in strada, allo stadio, in discoteca. E’ inutile perché non siamo pronti, non siamo disposti, abbiamo troppo sofferto, sentiamo di aver diritto a un risarcimento.

E allora?

Allora capisco che i governanti non si suicidino, e non ci chiedano di fare ciò che toglierebbe loro popolarità e consenso. Però una cosa penso che potrebbero farla motu proprio, o sotto la spinta di un’opposizione curiosamente più responsabile dell’esecutivo: porci in condizione di limitare i danni quando l’epidemia riprenderà a correre, e nuove varianti metteranno a dura prova i vaccini.

Perché se, ancora una volta, non si faranno le cose che studiosi e opposizione chiedono di fare sui trasporti, sulla scuola, sui tamponi, sul sequenziamento, sulla medicina di base, l’autunno sarà molto duro. Molto più duro di quel che sarebbe se ci preparassimo in tempo.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 luglio 2021




Le possibili ragioni dell’insistenza del Ministero della Salute sulla questione dei protocolli di cura domiciliare del Covid.

Ha destato un certo scalpore sui social media la notizia che AIFA e Ministero della Salute hanno impugnato – con esito positivo – la sospensiva concessa dal TAR sul famoso protocollo “Tachipirina e vigile attesa” per il trattamento dei casi di Covid. Il TAR, sospendendo il protocollo in via provvisoria con una decisione d’urgenza, aveva infatti in prima battuta lasciato liberi i medici di trattare simili casi in scienza e coscienza senza rischiare l’aggravio in termini di possibile responsabilità professionale derivante dal fatto di essersi discostati dai protocolli indicati dal Ministero. Tutto sommato, la sospensiva poteva essere considerata un risultato accettabile per il Ministero, che avrebbe potuto lasciar fare, sostenendo di voler rispettare la decisione dei giudici, lavandosi in tal modo le mani dall’accusa di voler mantenere a tutti i cosi un protocollo assai criticato. E invece Ministero e AIFA hanno insistito, impugnando la sospensiva dinanzi al Consiglio di Stato, che ha accolto il ricorso, con l’effetto di rimettere Speranza sul banco dei “cattivi” che non vogliono curare la gente. Perché dunque tutta questa insistenza, quando la decisione del TAR avrebbe in certo modo levato le castagne dal fuoco anche al Ministro?

A prima vista si potrebbe pensare che tratti dell’ennesimo esempio della inveterata tendenza dei nostri politici, quando si rendono conto di aver commesso un errore, a perseverare nell’errore (in modo da sostenere di non aver sbagliato) invece che assumersene la responsabilità dinanzi agli elettori, tentando di rimediare. Speranza avrebbe insomma semplicemente difeso il suo operato passato per non indebolirsi politicamente. Esiste tuttavia una lettura alternativa della vicenda, nel senso che l’insistenza nella difesa dei protocolli di “non cura” potrebbe in realtà dipendere dalla necessità di tutelare interessi assai più importanti rispetto alla “tenuta politica” di un ministro. Ma per capire quali potrebbero essere questi interessi occorre partire dall’analisi del contenuto della decisione del Consiglio di Stato che ha annullato la sospensiva del TAR. In particolare va sottolineato che il Consiglio di Stato ha espressamente affermato che va in ogni caso salvaguardata la liberta dei medici di curare in scienza e coscienza il Covid, di guisa che l’unico vero effetto della decisione di annullare la sospensiva è quello di non far venire meno l’efficacia giuridica del protocollo “tachipirina e vigile attesa”. Quel protocollo, dunque, oggi esiste e non esiste allo stesso tempo: esiste formalmente in quanto non ne è stata sospesa l’efficacia, ma non esiste sul piano degli effetti sostanziali perché il Consiglio di Stato ha anche sostenuto che non deve considerarsi vincolante per i medici. Perché dunque questo bizantinismo? Per capirlo occorre guardare altrove, in particolare al contenuto dei regolamenti relativi alle autorizzazioni al commercio dei farmaci (e dunque dei vaccini), per capire che in realtà l’effetto del protocollo che il Consiglio di Stato ha “salvato” si colloca su un piano differente rispetto a quello della responsabilità medica.

Come è noto, le autorizzazioni all’immissione in commercio dei vaccini Covid (di tutti i vaccini Covid attualmente presenti sul mercato dei paesi UE) sono autorizzazioni cosiddette “condizionate”. Per quanto la vulgata sostenga che si tratti di vaccini “sperimentali”, in realtà i vaccini in questione sono stati sperimentati, ma in misura non sufficiente per generare la documentazione ritenuta idonea – in condizioni normali – perché l’EMA (ossia l’agenzia europea del farmaco) conceda l’autorizzazione al commercio. Diciamo dunque che si tratta di vaccini sperimentati, ma non abbastanza per gli standard dei tempi ordinari. I regolamenti comunitari prevedono tuttavia che si possa comunque autorizzare la commercializzazione di farmaci (e dunque di vaccini) per i quali il fascicolo sperimentale non è ancora completo, a patto che vengano rispettate una serie di condizioni, tra le quali vi è quella della necessità e urgenza del trattamento sanitario corrispondente. L’autorizzazione subordinata a condizioni serve in altre parole a rendere prioritaria una procedura di autorizzazione, in modo da sveltire l’approvazione di trattamenti e vaccini ad esempio durante situazioni di emergenza per la salute pubblica. In particolare il regolamento UE sulle autorizzazioni dei medicinali prevede che una autorizzazione condizionata possa essere concessa – sulla base di dati meno completi di quelli normalmente richiesti – per farmaci che rispondono a una esigenza medica non soddisfatta adeguatamente da altre terapie.

Il concetto di “esigenza medica non soddisfatta” ovviamente significa – in parole povere – che non deve esistere già una cura alternativa ritenuta efficace per la malattia. Se dunque una cura alternativa efficace esistesse per il Covid – e, in particolare, se il Ministero della salute o l’AIFA riconoscessero ufficialmente che una cura efficace esiste, ecco che metterebbero a rischio la validità delle autorizzazioni condizionate all’immissione al commercio dei vaccini, per mancanza di una condizione essenziale, rappresentata appunto dall’esigenza medica non soddisfatta. E, si badi, anche se AIFA e Ministero non ritirassero le autorizzazioni in questione (eventualmente sostenendo che solo l’Agenzia Europea del Farmaco abbia il potere di farlo), da un lato avrebbero creato un imbarazzo all’EMA e, dall’altro, permarrebbe il rischio che qualunque soggetto interessato potrebbe agire dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per far dichiarare nulle le determinazioni AIFA che hanno rese efficaci in Italia le autorizzazioni (condizionate) concesse a dall’Agenzia Europea del Farmaco sui vari vaccini. Per farla breve: se si trovasse davvero una cura per il Covid certificata come efficace da qualche Ministero della salute di uno stato membro dell’UE, potrebbe venire giù tutto il castello costruito sulla ricetta europea “lockdown fino ai vaccini” – verosimilmente decisa nell’aprile del 2020 in un incontro dei governi dei maggiori paesi UE – che tanti disastri (economici e forse non solo) ha sinora provocato nel vecchio continente. Il che sarebbe uno smacco clamoroso per l’UE e per le forze politiche che tanto si sono spese per appoggiare l’approccio vaccinale (e dunque chiusurista) di reazione al Covid. Ma non basta ancora: se venissero meno per quella ragione le autorizzazioni al commercio dei vaccini, gli stati si troverebbero anche nella scomoda situazione di dover pagare miliardi di euro alle case farmaceutiche per l’acquisto di vaccini che non potrebbero poi neppure somministrare ai loro cittadini. E qui sarebbe la Commissione Europea a finire inevitabilmente sulla graticola, accusata dagli stati membri di aver fatto loro spendere un mucchio di danaro per nulla.

Questa lettura spiegherebbe del resto bene anche perché il Ministero – nell’accingersi a rivedere il protocollo della tachipirina e vigile attesa – si sia premurato, a quanto pare, di chiamare solo esperti contrari alle cure domiciliari e dunque favorevoli al vecchio schema. Anche qui – infatti – la ragione per l’adozione di un nuovo protocollo potrebbe non essere quella di verificare se davvero, e come, si può curare la malattia precocemente in modo efficace (con l’effetto di sgravare le strutture ospedaliere della pressione generata dai ricoveri dei malati di Covid), ma semmai poter continuare a sostenere ufficialmente che le varie cure domiciliari sinora proposte non sarebbero efficaci, in modo da poter continuare a sostenere che rappresenti ancora una “necessità medica” la somministrazione di massa di vaccini autorizzati solamente in via condizionata.

Sotto questo profilo l’azione del Ministero – e dell’AIFA – appare particolarmente ben congegnata. Il semplice fatto di adottare un nuovo protocollo di cure consentirebbe infatti di far decadere l’azione di annullamento già pendente davanti al TAR: se viene adottato un nuovo protocollo, il vecchio decade. E se decade il vecchio protocollo, viene meno automaticamente – per sopravvenuto ritiro dell’atto amministrativo – il procedimento di annullamento di quell’atto già pendente davanti al TAR. In questo modo cesserebbe il rischio che un giudice, rendendo la sentenza definitiva, sostenga “ufficialmente” che esistono delle cure efficaci per il Covid. Dunque, la direzione in cui si stanno muovendo sia il Ministero che l’AIFA è verosimilmente quella di ottenere una sospensiva dell’ordinanza cautelare del TAR, in modo da avere il tempo – prima della fine del processo di merito davanti allo stesso TAR – di adottare un nuovo protocollo che, per il semplice fatto di essere adottato in sostituzione del vecchio, faccia decadere l’azione pendente contro il vecchio protocollo. Il tutto facendo al contempo in modo che il contenuto del nuovo protocollo adottato dal Ministero sia tale da consentire ancora di sostenere che “ufficialmente” non esistono terapie efficaci contro il Covid, così da non creare i presupposti giuridici perché terzi possano attaccare dinanzi al TAR (o all’EMA) le autorizzazioni al commercio condizionate dei vaccini. Tutto questo sino al momento in cui le case farmaceutiche non avranno completato le sperimentazioni necessarie per presentare all’EMA la documentazione completa per ottenere una autorizzazione ordinaria al commercio dei vaccini.

Questa potrebbe dunque essere la vera ragione per cui il nostro Ministero della salute si è tanto speso in passato (e ancora oggi insiste) per non curarci dal Covid. La prova del nove – del resto – potrebbe arrivare appunto quando, a test clinici ultimati, saranno concesse dall’EMA le autorizzazioni definitive al commercio dei vaccini. Se a partire da quel momento il Ministero inizierà a dire che invece è possibile curare efficacemente il Covid, sarà chiara la ragione per cui in precedenza non l’ha mai voluto ammettere.




Covid, l’incognita di maggio

Resto dell’idea che, nella recente gestione della pandemia, l’errore capitale sia stato tenerci a bagno maria per 6 mesi (4 in conto al governo giallo-rosso, 2 in quello Draghi), con danni enormi all’economia e pochissimi benefici per la salute. E resto pure dell’idea che iniziare una vaccinazione di massa senza prima aver ridotto drasticamente la circolazione del virus sia stato un azzardo, nonché un errore non scusabile, posto che le voci che avvertivano del pericolo esistevano sia dentro il governo (Ricciardi) che fuori (Crisanti). Se ora siamo così esposti al rischio che qualche variante ci travolga non è solo perché non sappiamo né sequenziare adeguatamente, né limitare gli ingressi in Italia, ma perché la nascita di varianti resistenti ai vaccini è l’effetto statistico, e perfettamente prevedibile, della scelta di non abbattere la curva epidemica prima del decollo della campagna di vaccinazione.

Ma ormai il danno è fatto, le riaperture sono divenute politicamente e socialmente inevitabili, e ci tocca sperare che le cose non vadano troppo male. E’ fuori discussione, come avvertono i virologi meno autocensurati, che il “rischio ragionato” significa migliaia di morti in più rispetto a quelli che avremmo avuto prolungando il lockdown. Ed è pure indubbio, per quanto più difficile da far capire, che il danno economico complessivo all’industria turistica potrebbe essere molto maggiore aprendo adesso che aprendo a giugno, se aprire adesso dovesse regalarci una quarta ondata (con conseguente richiusura) in piena estate.

Quel che invece mi pare non scontato è che, nelle prossime settimane, si arrivi a 500-600 morti al giorno, come alcuni esperti hanno prospettato o lasciato intendere. Pur essendo fra quanti hanno più volte fatto previsioni catastrofiche (fin qui tutte avverate), questa volta mi trovo più in sintonia con quanti non solo si augurano, ma ritengono verosimile, un’evoluzione meno drammatica della mortalità.

Vediamo perché. Il numero medio di morti settimanali è un po’ inferiore a quello con cui sperimentammo le prime riaperture l’anno scorso, proprio ai primi di maggio come quest’anno. Inoltre esso è in lenta ma costante discesa da circa 20 giorni. Questo andamento è la risultante di quattro forze, due che sospingono la mortalità, due che la frenano.

La prima forza, che tende a tenere elevato il numero di decessi quotidiani, è l’altissimo numero di positivi e di ospedalizzati. Fatto 100 il numero di soggetti positivi del maggio scorso, ora siamo fra 300 e 500, a seconda dell’indicatore che si utilizza. Per una stima accurata del numero assoluto di soggetti positivi non ci sono dati sufficienti (o meglio: i dati che servirebbero non sono pubblici), ma l’ordine di grandezza si può calcolare: almeno 1 milione di positivi. Poiché il numero di soggetti positivi si riduce con estrema lentezza, e anzi tende a crescere non appena il governo allenta le misure restrittive, è verosimile che questa forza tenderà a tenere alto il numero dei decessi quotidiani.

La seconda forza è la mobilità delle persone, il fatto cioè che la gente tenda a stare in casa o a muoversi e incontrare altre persone. Qui le cose vanno male, e non potrebbe essere diversamente: il fatto stesso di reclamizzare le riaperture come un (sia pur graduale) ritorno alla normalità inevitabilmente comporta una crescita dei comportamenti rischiosi. In che misura ciò stia accadendo ce lo dicono i dati di mobilità di Google: fatta 100 la propensione a stare a casa di un anno fa, la medesima propensione era scesa intorno a 50 nel mese di aprile di quest’anno ed è intorno a 30 oggi. I nostri comportamenti stanno facendo di nuovo salire l’indice di riproduzione Rt, che sta di nuovo avvicinandosi pericolosamente a 1.

Fin qui le forze che supportano i ragionamenti dei pessimisti. Fortunatamente, ci sono però anche due potenti forze che spingono nella direzione opposta, ossia di una limitazione della mortalità. La prima è l’aumento della quota di tempo passata all’aperto, che tende a neutralizzare gli effetti dell’aumento della mobilità. La seconda è la campagna di vaccinazione, che – nella misura in cui privilegia le categorie più a rischio (vecchi e fragili) – abbassa drasticamente il tasso di letalità dell’infezione, ovvero la probabilità che una persona contagiata si ammali e muoia.

Ed ecco la ragione del mio non eccessivo pessimismo. Nessuno ha abbastanza dati (e modelli matematici collaudati) per prevedere quale potrà essere l’effetto congiunto delle due forze “cattive” (tanti positivi, più mobilità) e delle due forze “buone” (vita all’aperto e campagna vaccinale). E’ possibile che le prime abbiano il sopravvento, e il numero di morti torni a salire in modo apprezzabile (specialmente a Milano, dove i tifosi interisti tifano anche per il virus). Ma è anche possibile che la curva epidemica rallenti, e che le vaccinazioni determinino un drastico abbassamento del tasso di letalità, con la conseguenza di impedire un rialzo della mortalità, o addirittura di sospingere ulteriormente verso il basso il numero di morti quotidiano.

Il rischio maggiore che vedo, per i prossimi mesi, è che si scambi un’eventuale, non impossibile, riduzione del numero di decessi per un arretramento del virus, senza comprendere che – con il procedere della vaccinazione – il numero di morti sarà sempre meno un buon indicatore della diffusione del contagio. Sarebbe un errore di valutazione grave, perché ci condurrebbe – ancora una volta – a sottostimare i pericoli che ci attenderanno quest’autunno, quando il rientro a scuola e il ritorno della stagione fredda potrebbero riservarci, ancora una volta, delle brutte sorprese. Che questo rischio di sottovalutazione dei pericoli che ci attendono in autunno sia reale, e non puramente ipotetico, lo suggerisce del resto una constatazione amara: ancora una volta poco o nulla si sta facendo per mettere in sicurezza gli ambienti chiusi (aule scolastiche e universitarie) e semi-chiusi (trasporti pubblici). E’ probabile che questa distrazione sia dovuta alla credenza che la vaccinazione di massa risolverà tutto. Ma giova ricordare che si tratta, per l’appunto, di una credenza, non di una solida certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 5 maggio 2021




L’incapacità di imparare dagli errori

La battaglia fra aperturisti e chiusuristi dilaga ovunque: sui giornali, nei talk show, fra i virologi, nel Governo, persino nel Comitato tecnico-scientifico.

Ma la gente, i cittadini normali, che non hanno agganci, vie privilegiate, conoscenze preziose, o semplicemente hanno la sfortuna di essere nati nella regione sbagliata, o la disgrazia di avere un medico di base che non visita a domicilio, o non vaccina, o rimanda ogni decisione alla ASL, questi cittadini – dicevo – non si appassionano alla disputa sull’orario di inizio del coprifuoco.

Per chi si ammala, o teme di ammalarsi, o vorrebbe vaccinarsi, i problemi sono altri.

Il problema numero 1 è che, ancora oggi, a 15 mesi dall’inizio della pandemia, non solo il medico di base non ti viene a visitare, ma non esiste un protocollo ufficiale di cure domiciliari nelle prime fasi della malattia se non il beffardo protocollo ministeriale “paracetamolo & vigile attesa”. Cioè: predi una tachipirina e prega…

Questo nonostante di protocolli di cure domiciliari articolati ed efficaci ne siano stati sperimentati con successo parecchi, e l’evidenza empirica che li supporta sia considerevole. Il colmo è accaduto qualche giorno fa, quando il TAR del Lazio ha dato ragione al Comitato Cura Domiciliare Covid 19, che aveva invocato il diritto/dovere dei medici di andare oltre le scarne indicazioni ministeriali, e per tutta risposta il Ministero della Salute – anziché adoperarsi per colmare i propri ritardi – non ha trovato di meglio che ricorrere al Consiglio di Stato per sconfessare il Tar e bloccare l’iniziativa dei medici. Eppure è ben noto che l’intasamento degli ospedali e delle terapie intensive è dovuto anche alla mancata riorganizzazione della medicina territoriale, che tuttora non è in grado di gestire a casa (e precocemente) un numero adeguato di pazienti.

Un discorso analogo vale per le cure mediante anticorpi monoclonali, che richiedono solo un breve passaggio in ospedale, e se usati diffusamente potrebbero evitare le molte ospedalizzazioni: con 150 mila dosi disponibili, le carenze organizzative (e l’intasamento degli ospedali) hanno fatto sì che alla fine di marzo i pazienti trattati fossero poco più di un migliaio.

Così per i vaccini. Siamo arrivati al punto che, per potersi vaccinare senza attendere tempi biblici, decine di migliaia di persone stanno cambiando domicilio per poter usufruire dei servizi delle (poche) Regioni efficienti, guidate dal Lazio; o cercano di cambiare medico di base (molti medici di base non vaccinano); o volano in Serbia, dove vaccinarsi è facile; o scrutano internet per scoprire se in qualche Regione è previsto un “open day” in cui ci si può vaccinare con il solo requisito dell’età. Insomma, la campagna vaccinale sta alimentando un senso generale di ingiustizia, di soggezione alla sorte e all’arbitrio dei poteri pubblici.

Eppure si poteva non arrivare a questo punto. Per mettere i medici di base in condizione di visitare, dotandoli di dispostivi di protezione individuale e di un protocollo di cure domiciliari efficace, c’era tutto il tempo. Quanto alla campagna vaccinale, non si capisce perché le autorità sanitarie non siano state in grado né di gestire centralmente la campagna (come sembra suggerire l’articolo 117 della Costituzione) né di imporre alle Regioni regole comuni non derogabili. Per non parlare del coinvolgimento delle farmacie nelle vaccinazioni, per cui praticamente nulla si è fatto fino ad aprile.

Perché le cose sono andate così? Perché, ancora oggi come un anno fa, il terrore di tutti non è il Covid in sé, ma la coscienza che, se ci ammaliamo, potremmo trovarci soli, appesi a un numero verde, e abbandonati da chi dovrebbe proteggerci? Perché, oggi come ieri, centinaia di migliaia di malati non-Covid sono costretti a rinunciare a una cura, a un ricovero, a un intervento, a causa degli ospedali sopraffatti dall’onda dei malati Covid? Perché, ancora una volta, le autorità sanitarie hanno tergiversato prima di intervenire? Perché quasi nulla è stato fatto per riorganizzare il trasporto pubblico, o per mettere in sicurezza le scuole?

Se devo essere sincero, la mia risposta è: non lo so. O meglio: non lo so più. Fino a un certo punto ho creduto che la superbia e la sordità dei governanti, incapaci di ascoltare ogni voce indipendente, spiegassero molte cose.

Oggi non più. Oggi mi pare che ci sia qualcosa di più sottile e al tempo stesso più devastante: l’incapacità di imparare dai propri errori, in modo da correggerli. Un comportamento che, a chi come me appartiene a una comunità scientifica, risulta  semplicemente incomprensibile.

Ma mi rendo conto che sono io fuori strada. Nella comunità scientifica gli errori, prima o poi, si scoprono. E chi ha sbagliato li riconosce. Se non lo facesse perderebbe la sua reputazione. Per questo la scienza va avanti.

Nella politica è diverso, almeno in Italia. Basta leggere l’accorata lettera-appello a difesa del ministro Speranza (“Io sto con Roberto”) circolata nei giorni scorsi per rendersene conto. Qualsiasi errore sia stato commesso, c’è qualcuno pronto a negare che sia stato commesso, o che sia stato un errore. L’intelligenza non viene usata al servizio della ricerca della verità, ma al servizio di una causa politica ritenuta giusta, e in nome della quale si può calpestare ogni evidenza empirica (e ogni tragedia). Gli errori non sono errori, ma questioni di “punto di vista”. Ideologico.

Per questo, alla politica diversamente che alla scienza, è concesso di non imparare dai propri errori. Peccato che, di quel privilegio della politica, le vittime siano noi: la terza ondata, e il buio esistenziale che si è impadronito delle nostre vite, sono anche una conseguenza di quel privilegio.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 aprile 2021