L’incertezza del diritto

È di ieri la notizia che il Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha disposto un’indagine conoscitiva (non un’ispezione, né un procedimento disciplinare) sulla vicenda della magistrata Iolanda Apostolico, da qualche tempo nell’occhio del ciclone per due motivi distinti, anche se collegati. Primo: avere ripetutamente disapplicato il decreto Cutro, non convalidando il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel CPR di Pozzallo, in provincia di Ragusa. Secondo: avere in passato (nel 2018) partecipato a manifestazioni anti-governative e pro-migranti.

La decisione della magistrata è stata contestata dal Governo in quanto fondata, tra l’altro, sulla tesi che la Tunisia non sia un “paese sicuro”, valutazione che, sempre secondo il governo, non spetterebbe al singolo magistrato ma ad organi istituzionali, quali il governo stesso, che fin dal 2008 aveva incluso la Tunisia fra i paesi sicuri (confermando nel marzo scorso la medesima lista di 16 paesi, fra cui la Tunisia). Contro la magistrata è stato anche sollevato il dubbio di parzialità, o scarsa indipendenza di giudizio, stante il suo (documentato) impegno pubblico contro la politica dei “porti chiusi” di Salvini.

L’esecutivo impugnerà il provvedimento della Apostolico, e la Cassazione deciderà chi ha ragione. Fine della storia?

Direi proprio di no. La vicenda Apostolico, infatti, ci consegna un problema grande come una casa, quale che sia la decisione finale della Cassazione: il problema dell’incertezza delle norme. Quel che è interessante dell’affaire Apostolico, infatti, non è che cosa deciderà la Corte, ma il fatto che – almeno per chi non è accecato dalle sue convinzioni politiche – non è affatto evidente né che Apostolico abbia ragione, né che abbia torto. Ci troviamo, in altre parole, in una situazione di incertezza intrinseca. In una situazione, cioè, nella quale la normale, ordinaria, spesso inevitabile, necessità di interpretare le norme, assume un carattere abnorme, patologico, per non dire perverso.

In un recente dibattito, proprio a proposito del caso Apostolico, Luciano Violante, magistrato e parlamentare di lungo corso, ci ha ricordato il perché: il fatto è che, rispetto a 20-30 anni fa, i margini di discrezionalità del magistrato nell’interpretazione della legge si sono enormemente allargati. E questo è avvenuto non solo per la sovrapposizione fra norme di livello differente (internazionale, europeo, nazionale), ma anche per la crescente dipendenza delle sentenze dall’evoluzione del costume e dalla specifica sensibilità del singolo giudice. Esemplare, in questo senso, il recentissimo ribaltamento, in appello, della sentenza che aveva condannato il sindaco Mimmo Lucano a 13 anni di carcere per reati gravissimi, tutti (tranne uno) evaporati nel secondo grado di giudizio.

È naturale che il comune cittadino ne sia sconcertato: come è possibile che i medesimi fatti siano valutati così diversamente da due giudici? come possiamo avere fiducia nella magistratura se, in tante circostanze, constatiamo che l’assoluzione o la condanna dipendono da “che giudice ti capita”? come difendersi dalle sentenze “creative”, in cui un giudice guarda una vicenda dall’angolo visuale delle sue convinzioni personali e delle sue idiosincrasie?

Sono domande cui non è facile dare una risposta costruttiva e praticabile, se non altro perché i responsabili di questo stato di anomia normativa (mi si permetta l’ossimoro), sono almeno tre. Il legislatore, incapace di frenare l’impulso a moltiplicare le leggi, né a badare alla loro coerenza e applicabilità. La lobby dei magistrati, che ha sempre vittoriosamente difeso la sostanziale irresponsabilità dei giudici per i loro errori e i loro arbitrii. I singoli magistrati, troppe volte incapaci di mettere tra parentesi le proprie convinzioni personali.

Abbiamo tanto discusso, a proposito del libro del generale Vannacci, della opportunità, per certe categorie (militari, poliziotti, magistrati), di rinunciare alla manifestazione pubblica del loro pensiero a causa del potere esorbitante di cui sono dotati. Ma, forse, non abbiamo abbastanza riflettuto sul fatto che, in fatto di potere, sono i magistrati che dispongono del potere più pericoloso, e malamente esercitato: quello di dare e togliere la libertà.




Il senso (perduto) delle proporzioni

Ricordate la strage del 2011 nell’isoletta norvegese di Utøya, quando in odio agli immigrati islamici un fanatico di nome Breivik uccise a sangue freddo 77 ragazzi, colpevoli di essere socialisti?
Ebbene lo sconcerto, la rabbia e l’indignazione furono unanimi. E altrettanto unanime fu lo sconcerto quando il medesimo Breivik, condannato a 21 anni di carcere (il massimo della pena nella civilissima Norvegia), intentò causa allo Stato e alle autorità carcerarie per “trattamento inumano”. Tra le lamentele di Breivik, ospitato in una prigione ultra-confortevole (un trilocale con tanto di doccia e palestra personale), lo stato di isolamento cui era stato costretto, la versione troppo vecchia della playstation, la paghetta settimanale insufficiente, i videogiochi troppo infantili. Per quanto mi riguarda lo stupore si trasformò in incredulità quando appresi che la giustizia norvegese, progressista, illuminata, avanzatissima, diede ragione all’assassino para-nazista Breivik e torto allo Stato e alle autorità carcerarie.

Questa storia mi è tornata alla mente in questi giorni, di fronte all’espressione “trattamento inumano” da alcuni adoperata per descrivere quel che è successo a uno dei due giovani americani arrestati per l’assassinio del carabiniere Mario Cerciello Rega, che prima (o dopo) un regolare interrogatorio videoregistrato e in presenza di un avvocato, è stato tenuto legato e bendato su una sedia, pare per cinque minuti. La storia di Utøya non mi è venuta in mente perché i due casi siano simili (non lo sono affatto), ma perché il caso norvegese illustra molto bene un fenomeno più generale, che è presente in entrambe le circostanze e in molti altri casi di tutt’altra specie: la completa perdita del senso delle proporzioni.

Un concetto come quello di trattamento disumano, inumano o degradante è stato coniato per individuare pratiche gravemente lesive della dignità umana, come la tortura, la riduzione in schiavitù, la detenzione in condizioni estreme, da Guantanamo ai campi libici. Estenderlo ad episodi più o meno gravi e riprovevoli ma che non hanno nulla a che fare con i comportamenti cui il concetto si riferisce, o addirittura applicarlo a casi ridicoli come illustra il caso norvegese, è un pericoloso abuso di linguaggio, che alla lunga può produrre effetti aberranti. Se la giustizia norvegese ha potuto dare ragione ai capricci di un assassino spietato, colpevole della morte di 77 ragazzi innocenti, è anche perché abbiamo smarrito il senso delle proporzioni. O, se preferite, perché siamo affetti da un eccesso di civiltà, che ormai ci impedisce di mettere i fatti nelle giuste categorie, e di usare le parole appropriate.

Può così accadere che un professore americano sia punito e addirittura perda il posto perché il materiale cui espone gli studenti (sia esso la Divina Commedia o un testo di Mark Twain) infliggerebbe alle loro menti sensibili un “danno emotivo”. O che un ministro sia accusato di “sequestro di persona” perché non fa scendere tempestivamente da una nave dei migranti salvati in mare. O che un genitore che dà uno schiaffo a un bambino venga accusato di “violenza su minore” (succede anche questo, nei paesi più civili).

Quel che colpisce, in tutti questi casi, non è il giudizio che si dà verso il colpevole, sia esso lo Stato norvegese, l’Arma dei Carabinieri, il professore americano, il ministro della Repubblica, o il genitore, ma che il meccanismo accusatorio si basi sulla medesima tecnica retorica obliqua: anziché contestare francamente la violazione di qualche regola o l’urto di qualche sensibilità individuale, si importano parole forti, cariche di emotività, e che non lasciano dubbi di colpevolezza (trattamento inumano, danno emotivo, sequestro di persona, violenza) per descrivere comportamenti che stanno in tutt’altro ambito. Con ciò si smarrisce una delle fondamentali capacità dell’essere umano, o perlomeno dell’essere umano qual era prima che l’ossessione del politicamente corretto e l’abuso della cultura dei diritti tentassero di riprogrammarlo da zero: la capacità di cogliere la sostanza di un comportamento, e di graduarne la gravità.

Una capacità che è importante, perché connessa al comune senso di giustizia. Chi perde il senso delle proporzioni, perde la capacità di soppesare il bene e il male, o di riconoscere il male estremo per quello che è. E finisce, con la sua indifferenza, per infliggere nuovo dolore a chi dal male estremo è stato colpito.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 agosto 2019



Antigone rovesciata

Non sono un giurista. Quindi è possibile che quel che sto per dire verrà giudicato inappropriato, semplicistico, aberrante, contrario alla civiltà giuridica. Però sento la necessità di dirlo.

A Strasburgo, martedì sera, tre persone hanno perso la vita, altre lottano conto la morte, altre ancora sono rimaste gravemente ferite perché un giovane di origine nordafricana, nato in Francia, ha deciso di onorare così il suo Dio. O almeno così pare, se è vero quel che riferiscono i testimoni, ossia che è fuggito gridando “Allah Akbar”, Allah è grande.

Ora, agli attentati terroristici nel cuore dell’Europa purtroppo siamo ormai abituati da anni. Così come siamo consapevoli che non esiste un modo per renderli impossibili. Però c’è una cosa che non mi torna, come cittadino europeo. Le cronache riferiscono che il giovane Cherif Chekatt (così si chiama l’attentatore) era già stato condannato 27 volte, in Francia, in Germania e in Svizzera. Per reati comuni (nel senso di non legati al terrorismo), ma non certo di poco conto (truffe, violenze, rapine, furti, a quel che si apprende: ma solo il tempo ci dirà se è esattamente così). Pare che la polizia francese l’avesse schedato con la “fiche S”, ossia con il codice che contraddistingue i soggetti pericolosi (S sta per “sûreté de l’Etat”, sicurezza dello Stato), non necessariamente islamici o terroristi in erba. Si apprende, infine, che di soggetti così classificati, e quindi monitorati dalle forze dell’ordine, in Francia ve ne siano circa 26 mila. E che “ovviamente” non ci sono abbastanza poliziotti per controllarli tutti 24 ore su 24.

Ed ecco quel che non mi torna. Supponiamo per un attimo che nulla di tutto quel che si ritiene di sapere di Cherif Chekatt sia vero, salvo il fatto che è già stato condannato 27 volte. Supponiamo, per sgomberare il campo da ogni convinzione o pregiudizio su immigrazione, etnie, islam, terrorismo, che il nostro attentatore fosse semplicemente un giovane francese, figlio di francesi, bianco, mai prima coinvolto in fatti di terrorismo ma “solo” autore di 27 reati in 3 paesi europei. Ebbene, non vi sembra che, comunque, vi sarebbe qualcosa che non va?

Come è possibile che nella civilissima Europa, anche dopo la 26-esima volta che si commette un reato, ci si possa trovare perfettamente liberi, ovvero scarcerati per la 26-esima volta, pronti a commettere il nostro 27-esimo reato? Non c’è qualcosa di profondamente illogico in un ordinamento entro il quale tutto ciò non è l’eccezione, l’anomalia, l’errore che può scappare in una situazione-limite, ma è la norma, ovvero la logica conseguenza delle avanzatissime leggi che, in Italia come nella maggior parte dei paesi europei, abbiamo ritenuto di darci?

Adesso vorrei fare un passo di lato. Supponiamo che un fine giurista, un politico illuminato, o un sincero democratico, riescano a convincermi che tutto ciò è giusto, anzi è la giustizia stessa, è il senso della civilizzazione, e dunque gli Cherif Chekatt che, anziché stare in carcere, fanno stragi nei mercatini di Natale, sono semplicemente il prezzo della nostra libertà. Ebbene, anche se io ne uscissi convinto, anche se il mio rieducatore riuscisse a rieducarmi, io comunque una cosa non potrei non fargliela notare: tutto ciò che affermi è contro il comune senso di giustizia della gente normale; tutto ciò cozza contro i sentimenti che qualsiasi persona non accecata dall’ideologia prova; tutto ciò contraddice la “legge naturale”, al di là delle “norme positive” inventate dagli uomini. Perché non è naturale che una comunità non possa difendersi da chi ha ripetutamente manifestato la volontà di colpirla.

E’ la tragedia di Antigone, ma capovolta. Là, nella tragedia di Sofocle, Antigone rivendicava il diritto di seppellire il fratello Polinice in nome della legge naturale, contro la legge della città. Noi, oggi, ci troviamo nella situazione paradossale per cui la gente, in nome della legge naturale, vorrebbe che i criminali di professione stessero permanentemente in carcere, a tutela della comune città (civiltà) europea, mentre i governanti, che quella città dovrebbero difendere, scrivono leggi che non tengono in nessun conto il comune senso di giustizia. Il principio, sacrosanto, per cui a chi sbaglia non dovrebbe mai essere negata una seconda chance, viene dilatato e stravolto fino a stabilire, di fatto, il principio per cui ad ognuno dovrebbe essere data anche una terza, una quarta, una quinta, una sesta,.., una ventisettesima chance.

E’ abbastanza incredibile, ma sulla criminalità e sul terrorismo l’unica strategia che non viene mai presa seriamente in considerazione è l’incapacitazione: punire la recidiva rendendo il tempo di permanenza in carcere tanto più lungo quanto più numerosi e ripetuti sono i crimini commessi.

So bene che, in tempi di governi (e di maggioranze) populiste, quel che pensa la gente normale viene irriso dall’élite degli illuminati, e bollato come banale buon senso, quando non come anticamera dei peggiori sentimenti e delle peggiori ideologie. Ma agi illuminati io vorrei ricordare quel che Raffaele La Capria, ebbe a scrivere sulla differenza fra buon senso e senso comune: il buon senso è spesso opportunista e conformista, perché si adatta a quel che conviene pensare in quel momento e in quel luogo, magari solo perché tutti lo pensano o fingono di pensarlo; il senso comune è libero da pregiudizi perché ha il coraggio di vedere le cose per quello che sono, al di là delle costruzioni intellettuali con cui il potere cerca di ridescriverle (Lo stile dell’anatra, Rizzoli 2010).

Sulle politiche della sicurezza, quello della gente non è bieco buon senso, ma semmai intrepido senso comune. Io lo chiamerei “senso comune etico”, un naturale sentimento di giustizia che si erge a difesa della città minacciata, e poggia sulla capacità di vedere le cose per quello che sono diventate. E quel che la gente vede è semplicemente questo: che le regole della città si sono allontanate troppo, e troppo in fretta, dal comune sentire delle persone, e proprio per questo stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza della città.

Articolo pubblicato sul Messaggero del 15 dicembre 2018



Sul populismo penale

Vi è un tema che ha perso la centralità degli anni scorsi nel dibattitto pubblico, tanto da non essere strumentalizzato nella recente campagna elettorale: la riforma della giustizia.

La scorsa legislatura si è conclusa con un bilancio negativo in materia: poche riforme, non certo ispirate da principi garantisti e liberali.

L’eccezione sembra essere la riforma dell’ordinamento penitenziario che, dopo un lungo e travagliato iter, rischia di non entrare in vigore.

La prima tappa dell’iter della riforma è stata l’istituzione, da parte del Ministro della Giustizia Orlando, degli Stati generali dell’esecuzione penale (D.M. 8 maggio 2015).

I lavori degli Stati generali sono stati, in parte, alla base dell’approvazione della legge delega al Governo (legge n. 103 del 23 giugno 2017) per riformare l’ordinamento penitenziario secondo alcuni criteri direttivi.

Il Ministro (D.M. 19 luglio 2017) ha poi istituito tre commissioni per l’elaborazione degli schemi di decreto legislativo della riforma: una competente circa le modifiche alla disciplina delle misure di sicurezza e di assistenza sanitaria; un’altra per la riforma dell’ordinamento penitenziario minorile; la terza per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso.

Precedenza è stata accordata allo schema di decreto legislativo riguardante la riforma dell’ordinamento penitenziario, privato però delle parti riguardanti l’affettività ed il lavoro (quest’ultima per mancanza di copertura finanziaria), approvato da parte del Consiglio dei ministri e trasmesso per il parere alle Commissioni Giustizia di Camera e Senato in febbraio.

Le Commissioni, pur approvando il decreto, hanno inviato dei pareri critici su alcuni punti della riforma, in particolare la Commissione del Senato ha sollevato dei dubbi circa un punto fondamentale della riforma (il superamento degli automatismi che impediscono l’individualizzazione del trattamento penitenziario).

Questo passaggio ha fortemente rallentato, e forse compromesso, l’iter approvativo della riforma. Il Governo, infatti, non potendo recepire le indicazioni provenienti dalla Commissione Giustizia del Senato, che avrebbero snaturato la riforma, ha approvato il decreto di riforma discostandosi da esse ma per questo motivo ha dovuto trasmetterlo alle Commissioni per un nuovo parere.

La grave colpa del Governo è stata quella di aver temporeggiato eccessivamente, approvando il decreto di riforma soltanto il 16 marzo, dopo le elezioni politiche, per paura che un’approvazione in piena campagna elettorale fosse strumentalizzata dalle forze politiche ostili alla riforma. Ciò nonostante le forti sollecitazioni ad accelerare i tempi ricevute da parte dell’Avvocatura, della Magistratura, della Dottrina, degli operatori del pianeta carcere e nonostante il Satyagraha indetto da Rita Bernardini del Partito Radicale e da oltre dieci mila detenuti.

Il risultato paradossale è stato che proprio quelle forze politiche (Lega e Movimento 5 stelle) hanno vinto le elezioni con conseguenze prevedibili sul futuro della riforma.

Il decreto di riforma, infatti, è stato trasmesso al nuovo Parlamento ma non è stato inserito nell’ordine del giorno della Commissione speciale, per decisione di centrodestra e Movimento 5 Stelle, in quanto ritenuta materia non urgente. Atteggiamento ostruzionistico che rischia di vedere sospesa la riforma fintanto che non si formeranno le Commissioni Giustizia di Camera e Senato.

Per scongiurare questa impasse sono due le strade percorribili: o la Commissione speciale esprime un parere sulla riforma o il Governo procede ugualmente all’approvazione della stessa.

La prima via è stata sollecitata dal Presidente della Camera Roberto Fico, che ha chiesto ai gruppi parlamentari una “riflessione” circa il parere della Commissione speciale di Montecitorio sul decreto di riforma, senza finora ottenere alcun risultato.

In quest’ottica si inserisce anche l’iniziativa dell’Unione delle Camere Penali Italiane che, per i giorni 2 e 3 maggio, ha indetto l’astensione dalle udienze ed una manifestazione nazionale, proprio per sollecitare l’inserimento dei Decreti Legislativi approvati dal Consiglio dei Ministri nell’ordine del giorno delle Commissioni speciali.

La seconda ipotesi è stata caldeggiata dal Guardasigilli Orlando, secondo il quale il Governo, in caso di prolungato ostruzionismo del Parlamento, sarebbe legittimato ad approvare definitivamente il decreto. Ciò in forza dell’art. 1, comma 83, della legge 103 secondo cui “i pareri definitivi delle Commissioni competenti per materia (…) sono espressi entro il termine di dieci giorni dalla data della nuova trasmissione” e “decorso tale termine, i decreti possono essere comunque emanati”. Poiché il decreto è stato trasmesso lo scorso 20 marzo e sono trascorsi anche i dieci giorni dall’insediamento delle Commissioni speciali, il Governo può procedere all’approvazione definitiva del decreto.

Al momento la situazione resta però sospesa, bloccata da polemiche politiche.

La riforma è fortemente contestata da Lega e Movimento 5 Stelle che la definiscono “svuota-carceri” e “salva ladri”. Ma è davvero tale? No, basta esaminarne il contenuto.

La finalità della riforma è quella di dare compiuta attuazione all’art. 27 della Costituzione, in base al quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Per questo si incentivano le misure alternative alla detenzione, superando alcuni automatismi e presunzioni che limitano l’accesso ad esse.

Ad esempio, la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale viene estesa a coloro che devono scontare fino a quattro anni di pena, rispetto ai tre previsti precedentemente (misura già anticipata da una decisione della Corte Costituzionale).

Inoltre, viene modificato l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario (che esclude dalla possibilità di accesso ai benefici di legge alcune categorie di detenuti individuate sulla base del reato commesso), superando gli automatismi esclusivi previsti per alcuni reati (con esclusione dei reati di mafia e terrorismo ed altri gravi reati associativi).

Non vi sarà, quindi, alcuna estensione automatica dei benefici bensì sarà la magistratura a valutare, caso per caso, la meritevolezza della concessione del beneficio.

Gli allarmi lanciati dai critici della riforma sono, pertanto, infondati ed immotivati, rispondenti a scarsa conoscenza del testo o a finalità politiche propagandistiche.

Nonostante il numero di reati sia in costante calo, infatti, molti politici e media fomentano un presunto allarme sociale, un’insicurezza diffusa, così da indurre una richiesta di misure securitarie e carcerocentriche. L’effetto di questo populismo penale, branca del populismo politico, che strumentalizza le paure legittime dei cittadini ed il dolore delle vittime dei reati, è la diffusione di istanze giustizialiste e forcaiole per cui il carcere è l’unico rimedio. Pertanto risultano mal digesti provvedimenti atti ad incentivare le misure alternative al carcere, in quanto considerate un vulnus al principio della certezza della pena.

In realtà, quello della certezza della pena è principio strumentalizzato: secondo la nostra Costituzione la pena deve tendere al reinserimento sociale del detenuto e per far ciò deve essere individualizzata.

A meno che per pena certa si intenda soltanto quella scontata in carcere.

Proprio questo sembra essere il sentimento comune diffuso in larga parte dell’opinione pubblica, motivo per cui il Governo ha temporeggiato e tergiversato nell’approvazione della riforma e per cui la discussione sulla riforma è stata quasi assente dal dibattito pubblico.

La riforma, inoltre, è nata come risposta al più vasto problema della condizione delle carceri. Il nostro sistema penitenziario continua ad essere afflitto dal sovraffollamento e da condizioni detentive che minano la dignità dei detenuti. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani) per i trattamenti inumani e degradanti subiti dai detenuti. Il fallimento della riforma non farà che acuire tali problematiche.

Ma di questa riforma bisogna apprezzare soprattutto il metodo che si spera sia seguito in futuro. La stesura del testo ha visto il coinvolgimento di personalità dalla indiscussa competenza in materia, provenienti dall’Accademia, dall’Avvocatura e dalla Magistratura, tanto da essere sostenuta da CSM, ANM, UCPI, CNF, Magistratura di Sorveglianza.

Un rimprovero da muovere è quello di non aver osato di più, procedendo ad una riforma organica ed incisiva dell’ordinamento penitenziario, sempre più urgente e necessaria, nonostante le urla dei forcaioli di turno.




Occupazione: cosa è imputabile alla riforma e cosa no

L’ultimo articolo di Luca Ricolfi sugli effetti della riforma del lavoro del 2015 costituisce un contributo prezioso, su di un tema spinoso, all’innalzamento del livello di un dibattito fin qui pesantemente inquinato sia dalla faziosità, sia da un uso dei dati statistici, da tutte le parti in contesa, per il quale l’aggettivo “grossolano” è un eufemismo. In questo dibattito in un paio di occasioni ho commesso anch’io, involontariamente, un errore nella lettura del dato statistico sul numero dei nuovi rapporti di lavoro stabili e di quelli a termine, creati nell’ultimo triennio: è vero che i primi sono più numerosi dei secondi, ma ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che essi sono in percentuale inferiore rispetto allo stock che si registrava all’inizio del triennio, determinandosi così una sua sia pur modesta riduzione.

Detto questo, propongo di arricchire il quadro statistico fornito e illustrato da Luca Ricolfi con due dati ulteriori, che mi paiono importanti per una valutazione degli effetti della riforma: due dati entrambi sorprendenti, resi ancor più sorprendenti se considerati congiuntamente. Il primo è quello che vede una sostanziale invarianza, negli ultimi anni, del numero dei licenziamenti in rapporto al numero dei contratti di lavoro a tempo indeterminato in essere, siano essi costituiti prima dell’entrata in vigore della riforma del 2015, o dopo: un dato che obbliga a una riflessione approfondita sul peso relativo che hanno la legge da un lato, dall’altro la cultura diffusa e le relazioni sindacali, nel determinare i comportamenti degli imprenditori e in particolare la loro propensione all’esercizio della facoltà di recedere dal rapporto con i dipendenti. Parrebbe che una riduzione incisiva del vincolo al recesso produca, almeno nel breve periodo, un mutamento del comportamento degli imprenditori molto meno rilevante di quanto ci si sarebbe atteso. Resta da chiedersi se e quanto su questo mancato effetto della riforma pesi la volatilità del dato legislativo e in particolare il rischio di una controriforma a seguito delle prossime elezioni politiche, oppure a opera della Corte costituzionale; e se un mutamento più rilevante debba attendersi nel medio periodo, se la riforma supererà indenne questi due scogli.

Il secondo dato sorprendente, apparentemente contraddittorio rispetto al primo, è quello che dà conto della drastica riduzione del contenzioso giudiziale registratasi fra il 2012 – anno nel quale è entrata in vigore una prima parte della riforma dei licenziamenti e dei contratti a termine – e la metà del 2017. I dati forniti dal ministero della Giustizia consentono di quantificare questa riduzione intorno ai due terzi. Gli stessi dati dicono, per converso, che questa riduzione si sta verificando soltanto nel settore del lavoro privato: in quello del pubblico impiego, dove né la riforma del 2012 né quella del 2015 hanno avuto applicazione, il flusso dei nuovi procedimenti iscritti a ruolo resta sostanzialmente invariato. Il che autorizza a ipotizzare, in attesa di verifiche rigorose, che siano proprio quelle due riforme la causa del fenomeno osservato.

Fonte pietroichino.it

La riduzione del tasso di contenzioso giudiziale costituisce un fatto di grande rilievo, non solo per l’amministrazione della Giustizia, ma anche e soprattutto per il sistema delle relazioni industriali; e indirettamente anche per l’efficienza del sistema economico nel suo complesso. Il tasso di contenzioso giudiziale italiano in materia di lavoro costituiva un’anomalia negativa, nel panorama europeo: solo in Italia la regola era che ogni licenziamento fosse accompagnato da un ricorso al giudice del lavoro e che dunque il severance cost per entrambe le parti fosse normalmente appesantito dalle spese legali e dall’alea di un giudizio sulla quale pesa sempre molto l’orientamento personale del magistrato. Solo in Italia avvocati e giudici erano di fatto protagonisti di primaria importanza del sistema delle relazioni industriali.

Il fatto che quell’anomalia stia avviandosi a essere superata, in parallelo con l’allineamento del nostro diritto del lavoro rispetto allo standard prevalente nei grandi Paesi occidentali, costituisce un progresso non disprezzabile nella direzione di una maggiore attrattività dell’Italia per gli investitori stranieri. Che è la precondizione, insieme alla riduzione del debito pubblico e dunque della pressione fiscale, per quella crescita economica senza la quale non può crescere né il potere contrattuale né il benessere dei lavoratori.

Quanto al fatto che il superamento di quell’anomalia non si accompagni a un aumento della frequenza dei licenziamenti, esso ci autorizza forse a ritenere che l’unica categoria in qualche misura danneggiata dalla riforma dei licenziamenti del 2012-2015 sia quella degli avvocati giuslavoristi. Esso dovrebbe comunque convincere anche chi ha a cuore sopra ogni altra cosa la sicurezza e il benessere dei lavoratori dipendenti regolari dell’opportunità che la riforma del lavoro non venga manomessa prima che si siano potuti verificare in modo rigoroso e valutare pragmaticamente i suoi effetti.