Mezzi di informazione e manifestazioni contro il self-id – Un inquietante silenzio

La notizia è che quasi nessuno, e meno che mai i grandi giornali e le grandi reti tv, ne ha parlato. Eppure è successo, un po’ dappertutto nel mondo (o più precisamente nei paesi democratici).

Parigi. Berlino. Milano. Madrid. Barcellona. Maiorca. Lisbona. Vienna. Praga. Berna. Copenhagen. Bruxelles. The Hague. Lussemburgo. Oslo. Londra. Manchester. Edimburgo. Dublino. Glasgow. Cardiff. Swansea. New York. Washington. Atlanta.
San Francisco. Chicago. Chennai, Tokyo. San Poalo, Buenos Aires, Rio de Janeiro. Taipei. Brisbane. Wellington. Montreal…

Sono decine e decine le grandi città in cui, il 1° novembre, si sono date appuntamento migliaia di donne per protestare davanti alle ambasciate e ai consolati della Germania. Perché tanto silenzio? Come mai ogni sera veniamo minuziosamente informati delle più banali, irrilevanti, o semplicemente ultra-localistiche manifestazioni di protesta, e nulla, invece, ci viene detto di quel che è appena capitato nelle principali città del mondo?

Per provare a capire, ricapitoliamo i fatti. Il 1° novembre, in Germania, è entrata in vigore una legge rivoluzionaria sul self-id, o autodeterminazione di genere. La nuova legge permette a chiunque di cambiare genere con un atto puramente amministrativo,
indipendentemente da qualsiasi valutazione di medici, psichiatri, psicologi, giudici. In particolare, permette a qualsiasi maschio di proclamarsi femmina, e così accedere a spazi e benefici riservati alle donne. Dove gli spazi invasi possono essere i reparti
femminili nelle carceri, i centri anti-violenza, le competizioni femminili nello sport. Mentre i benefici vanno dalle quote rosa in ambito economico o elettorale alle agevolazioni in materia di assunzioni e pensionamenti.

E non è tutto. Dopo aver cambiato genere una prima volta si può, dopo 12 mesi, tornare al sesso originario, e poi magari cambiare di nuovo, e così via per anni. In linea di principio, una persona può cambiare genere/sesso anche decine di volte, a seconda delle opportunità e dei rischi. Quanto ai minori, dall’età di 14 anni possono cambiare genere con il consenso dei genitori, e dai 14 ai 18 anni anche senza, purché un giudice dia l’ok.

Ma l’aspetto più paradossale della legge, fortemente voluta dalla cosiddetta coalizione semaforo (socialisti, liberali, verdi) è quel che implica per i neonati. Al momento di registrarli all’anagrafe, oltre al nome, ora i genitori potranno anche scegliere il genere fra quattro alternative: maschio; femmina; diverso; nessuno. Un bambino biologicamente maschio potrebbe trovarsi a dover fare i conti con una famiglia che lo tratta come una femmina, e viceversa (per non parlare dei bambini arbitrariamente considerati come di un genere “diverso”, o di nessun genere).

Infine, le sanzioni: chi trattasse un autopercepito lui come una lei (o viceversa), rischia una sanzione fino a 10 mila euro.

È contro tutto questo che si sono mobilitate le donne tedesche, ed è in loro aiuto che sono scese in piazza le donne in tante città di tutto il mondo.

Ed ora torniamo alla domanda iniziale: perché questo silenzio assordante dei mezzi di informazione sulle manifestazioni del 1° novembre a sostegno delle donne tedesche, vittime di una legge che ne comprometterà la sicurezza e ne eroderà le conquiste?

Sarò molto sincero: non mi è chiaro.

Una ragione potrebbe essere che il movimento di resistenza al self-id, pur avendo fra le sue promotrici Joanne Rowling e altre celebrità, è largamente minoritario (ma lo sono anche altri movimenti, di cui in realtà si parla parecchio). Un’altra ragione,
potrebbe essere che, a giudicare dalle immagini circolate nei giorni scorsi, l’età media delle femministe che protestano contro il self-id è abbastanza avanzata (qualcuno potrebbe dire che si tratta soprattutto di boomers, nate fra il 1946 e il 1964). Un’altra
ragione ancora potrebbe essere la forza e l’ubiquità del politicamente corretto, che privilegia nettamente la comunità trans, a scapito del mondo femminile.

Ma anche quest’ultima ragione non mi convince granché: tutta la stampa di destra è ostile alle rivendicazioni trans, eppure anch’essa è rimasta in silenzio. Insomma, il rebus sembra restare tale.

Forse, per capire, dobbiamo scavare in altra direzione. Il punto debole dei presidi davanti alle ambasciate germaniche potrebbe essere, semplicemente, la loro compostezza. Nessuna delle donne scese in piazza ha bloccato il traffico, o imbrattato monumenti, o scagliato molotov contro la polizia. Nessuna si è spogliata, nessuna ha lanciato sassi, nessuna ha gridato slogan offensivi.

Manifestare pacificamente non paga?

[articolo inviato alla Ragione il 3 novembre 2024]




Le tre ragazze terribili e il tramonto del cordone sanitario

È un vero peccato che la dott.ssa Boccia abbia scelto proprio questi giorni per attirare su di sé, e sulla sua vicenda con il ministro Sangiuliano, la vigile attenzione del sistema dei media. Avesse scelto un periodo più insignificante, forse oggi non ci sfuggirebbe quel che proprio in questi giorni sta accadendo nel cuore delle nostre democrazie, e segnatamente nei due paesi leader dell’Unione europea, ossia in Francia e Germania.

Volendo riassumere, la metterei così: in questi giorni si sta celebrando, nei due paesi più importanti, il funerale del “cordone sanitario”, ossia dell’idea che verso i partiti estremisti, e in particolare verso l’estremismo di destra erede del fascismo e del
nazismo, le forze politiche “democratiche” dovessero alzare una barriera invalicabile, capace di tenere i barbari lontani dal potere.

È da anni che la barriera scricchiola, ma è proprio in questi giorni che nel muro democratico si sono aperte le due brecce fondamentali. La prima è in Francia, dove il triplo salto mortale di Macron – scioglimento del Parlamento, successo di Marine Le
Pen al primo turno, vittoria del “cordone sanitario” repubblicano ai ballottaggi del secondo turno – sta per dare vita a un governo conservatore, guidato dal gaullista Michel Barnier e tenuto in piedi dai voti del Rassemblement National di Marine Le Pen.

La seconda breccia, assai meno visibile della prima, si è aperta in Germania una settimana fa, quando in Turingia e in Sassonia (due länder della Germania dell’Est) i quattro partiti tradizionali, ossia popolari, socialdemocratici, verdi e liberali, si sono
trovati – anche messi tutti insieme – a raccogliere meno del 50% dei voti. Ora la maggior parte dei voti è in mano ai due partiti estremisti di sinistra (Linke) e di destra (AfD, ossia Alternative für Deutschland), da sempre tenuti fuori dei giochi dal cordone sanitario, nonché a un terzo partito nuovo di zecca (BSW, o Alleanza Sahra Wagenknecht), che aveva già avuto una buona affermazione due mesi fa alle Europee.

In breve: il cordone sanitario è saltato sia in Francia sia in Germania, e a farlo saltare sono state tre ragazze o ex ragazze terribili, le “estremiste” Marine Le Pen, Alice Weidel (presidente AfD), e Sahra Wagenknecht (fondatrice di BSW). Se vorranno restare al potere, alle forze tradizionali potrebbe non bastare unirsi fra loro, e potrebbe risultare necessario aprire alle forze fin qui tenute fuori della cittadella del potere.

Non stupisce che, se questi sono i risultati delle strategie di esclusione, a qualcuno sorga il dubbio: siamo sicuri che siano state strategie lungimiranti? siamo sicuri che non sia stato proprio il cordone sanitario ad alimentare l’estremismo, e a favorire la
replicazione del virus nazi-fascista? Sono domande legittime, anzi doverose. Ma se ne potrebbe formulare una ancora più radicale: siamo sicuri di aver bene interpretato la natura del virus da cui ci volevamo proteggere?

È possibile, in altre parole, che le forze democratiche abbiano mal compreso il significato profondo della “marea nera” di cui, da diversi decenni, si lamenta l’ascesa. Se andiamo a vedere qual è il carburante che sostiene l’avanzata dei partiti estremisti è difficile non accorgersi che, al centro di tutto, c’è la preoccupazione per l’immigrazione irregolare, e in subordine lo scetticismo per le politiche europee in materia di agricoltura, ecologia, e ultimamente pure riguardo alla guerra in Ucraina. Che bollare tutto questo come neo-nazismo, razzismo o estremismo di destra sia riduttivo, e alla fine pericolosamente fuorviante, lo testimonia non solo il radicamento dei partiti estremisti nei ceti popolari, ma il modo in cui i medesimi ceti popolari percepiscono sé stessi. In Germania, ad esempio, le serie storiche dei sondaggi mostrano che nell’ultimo ventennio alla costante ascesa della Afd, ormai prossima a diventare il primo partito tedesco, si accompagna una formidabile diminuzione – sia nel länder dell’ovest che in quelli dell’est – degli elettori che si considerano di estrema destra: erano circa il 10% una ventina di anni fa, sono meno del 3% oggi, e comunque dai sondaggi più recenti risultano più numerosi nelle regioni dell’Ovest (dove la AfD è debole), e meno numerosi in quelle dell’est (dove la AfD è forte).

Ma c’è anche un altro indizio, forse ancora più significativo, che smentisce l’equazione che equipara ostilità agli immigrati e razzismo neo-nazista: la clamorosa affermazione del partito BSW di Sahra Wagenknecht, che si colloca nettamente a sinistra ma non per questo rinuncia a porre con forza il problema dell’immigrazione irregolare, suscitando lo sconcerto degli osservatori più convenzionali, cui pare impossibile che un partito di sinistra possa essere ostile agli immigrati, o che un partito ostile agli immigrati possa non essere neo-nazista.

Il caso tedesco e il caso francese stanno lì a dimostrare che, invece, entrambe le cose sono perfettamente possibili. In Germania, la sinistra sta scoprendo a sue spese che se vuole rimanere al governo non può non fare i conti con la sinistra anti-immigrati di
Sahra Wagenknecht. In Francia, Macron sta prendendo atto che, se vuole dar vita a un nuovo esecutivo, non può continuare a considerare neo-fascisti gli elettori di Marine Le Pen. In entrambi i paesi, i partiti (autoproclamati) democratici si stanno
rendendo conto che – come ha denunciato Alice Weidel – ad essere “profondamente antidemocratico” è il cordone sanitario con cui, in tutti questi anni, hanno escluso forze politiche che rappresentano ormai un elettore su tre.

[articolo uscito sul Messaggero l’8 settembre 2024]




Può esistere un partito sia di destra sia di sinistra?

Partiti né di destra né di sinistra non sono rari nelle democrazie. Il tipico esempio sono i partiti liberaldemocratici, che hanno spesso fatto la loro apparizione nei maggiori paesi europei, come il Regno Unito, la Germania, la Francia. Anche l’Italia ha una
lunga tradizione di partiti moderati di centro, sia nella prima Repubblica (pri, psdi, pli), sia nella seconda: recentemente, il Terzo polo di Renzi e Calenda, in passato le infinite varianti del mastellismo-casinismo-follinismo: ccd, cdu, udc, eccetera.

Ma un partito sia di destra sia di sinistra? Può esistere, o è una contraddizione logica, come l’ircocervo che Benedetto Croce evocava per spiegare l’impossibilità del liberalsocialismo?

Dall’8 gennaio di quest’anno dobbiamo invece ritenere che possa esistere. E da ieri, dopo le elezioni amministrative nei länder tedeschi della Germania e della Sassonia, dobbiamo ritenere non solo che possa esistere, ma che possa sfondare. La prova
vivente è la pioggia di voti che, alla sua prima uscita in un’elezione germanica, ha inondato il partito fondato da Sahra Wagenknecht per l’appunto l’8 gennaio. Il partito si chiama Bündnis Sahra Wagenknecht (Lega Sara Wagenknecht), ed è il risultato di una scissione del partito della Linke, la formazione di estrema sinistra radicata nelle regioni della ex Germania dell’Est. Moglie di Oscar Lafontaine, ex leader della Linke, Sahra Wagenknecht è una politica tedesca con una chiara matrice di sinistra, ma si discosta dalla sinistra ufficiale classica, non importa qui se moderata o estrema, su almeno 4 punti fondamentali.

Il primo è il sostegno all’Ucraina, più in generale l’adesione alla Nato, ritenute controproducenti. Il secondo sono le politiche green, troppo costose per i ceti popolari. Il terzo sono gli eccessi del politicamente corretto e dell’agenda LGBT+. Il quarto, di gran lunga il più importante, sono le politiche migratorie, considerate troppo permissive.

In generale, le idee di Wagenknecht si richiamano alla dottrina marxista nel senso che privilegiano i conflitti a livello economico-strutturale, e snobbano quelli di tipo culturale e sovrastrutturale. Di qui la difesa dei lavoratori tedeschi nei confronti della
concorrenza dei migranti, visti come un temibile “esercito industriale di riserva”, e la freddezza rispetto alle rivendicazioni LGBT+.

Il successo di Wagenknecht, che in Turingia ha ottenuto il 16% e in Sassonia il 12%, è cruciale per la politica tedesca perché si è accompagnato a un successo ancora maggiore di Alternative für Deutschland, il partito tedesco più anti-immigrati e più
nostalgico del nazismo, che ormai raccoglie circa 1/3 dei voti in entrambe le regioni. Insieme, i due partiti anti-immigrati sfiorano il 50% dei consensi, a fronte del disastroso risultato dei partiti di governo (socialdemocratici, verdi, liberali), e al discreto ma non sufficiente risultato dei Popolari (24% in Turingia, 32% in Sassonia).
Per questi ultimi si prospetta un dilemma: fare fronte comune con socialdemocratici e Linke contro i due partiti anti-immigrati (BSW e AfD), con il rischio che al prossimo giro possano ottenere la maggioranza dei voti e formare un governo il cui unico vero
obiettivo sarebbe la lotta all’immigrazione illegale; oppure tentare il dialogo con il partito “sia di destra sia di sinistra” di Sahra Wagenknecht, recependo le inquietudini di tanti tedeschi nei confronti degli immigrati.

Resta il fatto che, nei due länder in cui si è votato, i quasi-nazisti di AfD hanno il 30% dei voti, e se Sahra Wagenknecht non avesse canalizzato una parte della protesta contro i migranti, probabilmente veleggerebbero sul 40%.

Qual è la lezione?

Sono tante, e dipendono dai pregiudizi di ciascuno di noi. L’unica lezione difficilmente contestabile è che il partito-ircocervo – sia di destra sia di sinistra – è diventato possibile. Staremo a vedere se solo in Germania.

[articolo uscito sulla Ragione il 3 settembre 2024]




Onda nera e dilemma migratorio

A guardarle da lontano, le elezioni europee forniscono un risultato molto chiaro: indietro liberali, verdi, socialisti, avanti tutte e tre le destre: Popolari di Ursula von der Leyen, Riformisti di Giorgia Meloni, Identitari di Marine Le Pen. E altrettanto
chiaro, anche se non a tutti, è il triplice messaggio che è stato recapitato a Bruxelles: non ci convince la velocità (eccessiva) della transizione green, non ci va l’inconcludenza in materia di flussi migratori irregolari, non ci piace il politicamente
corretto dei burocrati europei.

Complessivamente, gli equilibri politici si sono spostati verso destra, in alcuni casi in modo clamoroso: in Francia è crollato il partito di Macron, e quello di Marine Le Pen ha toccato la quota stratosferica del 32%; in Germania sono crollati i
Socialdemocratici del cancelliere Scholtz, superati dalla AFD (Alternative für Deutschland), un partito di destra così estrema da essere stato espulso da Identità e Democrazia, il gruppo più a destra del Parlamento Europeo. Tutto ciò ha suggerito ai
commentatori più pittoreschi di parlare di un’onda nera che starebbe sommergendo le fragili istituzioni europee.

A guardarle più da vicino, ovvero paese per paese, le elezioni europee raccontano una storia assai meno univoca, forse più interessante. Ci sono paesi, anche importanti, in cui i socialisti sono cresciuti sensibilmente: in Francia sono rinati, dopo essere quasi scomparsi nelle elezioni del 2022; in Italia, con il 24% del Pd, hanno ottenuto il miglior risultato dai tempi dell’exploit di Renzi, che rialse a dieci anni fa (41% alle Europee del 2014).

Anche il mito dell’onda nera andrebbe ridimensionato. Se, ad esempio, prendiamo i due paesi scandinavi (Finlandia e Svezia), attualmente governati da coalizioni di destra, non mancano le sorprese: in entrambi i paesi i partiti di estrema destra (Veri
Finlandesi e Democratici svedesi) hanno ottenuto risultati elettorali pessimi, a fronte di buoni risultati delle forze progressiste.

I casi più interessanti, però, a mio parere sono quelli della Danimarca e della Germania. Questi due paesi, infatti, illustrano bene quanto cruciale sia, per gli equilibri elettorali della sinistra, il modo in cui viene affrontato il tema migratorio.

In Danimarca, nel 2022, la premier socialdemocratica Mette Frederiksen aveva vinto le elezioni politiche su una linea securitaria, ventilando addirittura il trasferimento dei migranti irregolari in Ruanda, sulla linea del premier britannico Rishi Sunak. Il
risultato, però, è stato che due anni dopo, alle elezioni Europee, il suo partito è stato scavalcato dall’Alleanza di sinistra, un partito di sinistra-sinistra.

La vicenda è interessante perché ricalca, in un arco di tempo molto più breve, quel che in Italia è capitato al Pd nel decennio 2014-2024. La svolta riformista impressa da Renzi e Gentiloni con il Jobs Act e la linea dura sull’immigrazione (ministro Minniti) hanno innescato una progressiva crisi di rigetto, con la scissione di Leu, i tormenti del dopo-Renzi, la riconquista della “ditta” da parte di Bersani e compagni, la sconfitta di Bonaccini, l’ascesa finale di Elly Schlein, coronata dal successo alle Europee. La
differenza con il caso danese è che lì la reazione alla sinistra moderata e riformista è stata rapida e affidata a un a partito più a sinistra dei socialdemocratici, mentre da noi è stata lunga e affidata alla scalata interna al Partito Democratico.

In Germania le cose sono andate in un modo ancora più inedito. Qualche mese fa, di fronte alla irresolutezza dei socialdemocratici in tema di migranti, e al connesso deflusso di voti popolari verso l’AFD, Sahra Wagenknecht, politica proveniente dalla Linke (il partito più a sinistra della Germania), ha deciso di fondare un partito al tempo stesso di sinistra e anti-migranti. Alla prima prova elettorale, le Europee dei giorni scorsi, il suo partito nuovo di zecca ha totalizzato il 6.2%, che sommato al 15.9% della AFD porta oltre il 22% la quota di elettori che hanno espresso un voto innanzitutto anti-immigrati.

Il caso tedesco e il caso danese illustrano nel modo più chiaro la crucialità che, per la sinistra di governo, assume il dilemma migratorio. Snobbare o negare il problema aliena le simpatie dei ceti popolari, e finisce per ingrossare le file dei partiti di
estrema destra. Prenderlo su di sé, rende meno ardua la conquista del governo, ma alla lunga crea divisioni nel campo progressista, alimentando la crescita della sinistra-sinistra. Anche di questo, prima o poi, dovrà farsi carico Elly Schlein.

[articolo uscito sul Messaggero il 12 giugno 2024]




Lacrime da coccodrillo e sorrisi da kiwi

Datemi pure dell’insensibile (io preferirei “razionale”), ma non mi commuovono proprio le lacrime di Angela Merkel, che (ovviamente) si sono prese le prime pagine di tutti i giornali del mondo. Certo, sempre meglio (del resto ci vuol poco) del miserabile spettacolo che sta dando la politica nostrana. E meglio ancora delle lacrime c’è il fatto che (finalmente!) un politico europeo ha pronunciato la fatidica parola, ammettendo che le misure adottate sono state finora “inefficaci”. Inoltre, in Germania i risarcimenti a chi si vede chiudere l’attività sono una cosa seria (e in più non li chiamano “ristori”, che non è affatto un dettaglio secondario: spiegherò in un prossimo articolo perché). Ma gli aspetti positivi finiscono qui.

Anzitutto, infatti, teniamo presente che stiamo parlando del paese più ricco, potente e organizzato di tutta l’Europa, che, ciononostante, ha avuto 28.241 morti in valore assoluto e 337 morti per milione (mpm) in valore relativo alla popolazione, che è poi quello che conta davvero e che il triplo di quello che accusava alla fine dell’estate. Certo, sono sempre meglio dei catastrofici 1156 mpm dell’Italia e dei 1610 mpm del Belgio, fin dall’inizio “maglia nera” del mondo, salvo una breve parentesi in estate, quando, grazie al caldo che ci ha dato una mano, era stato superato dal Perù. E meglio anche dei 1059 della Spagna, dei 1004 della Gran Bretagna, dei 994 degli USA e dei 944 della Francia, solo per citare gli altri paesi leader dell’Occidente, che, incredibilmente, sono tutti messi peggio della grande maggioranza dei paesi sudamericani.

La Germania invece è messa un po’ meglio di questi ultimi, ma soltanto un po’, avendo un numero di mpm che è circa la metà del loro, il che è assolutamente surreale, dato il vero e proprio abisso che c’è fra le rispettive istituzioni sanitarie e statali. Anche ammettendo che là i morti siano sottostimati, non possono comunque esserlo più di tanto, perché non stiamo parlando di “Stati falliti” che non sono nemmeno in grado di contarli o (Venezuela a parte) di dittature che mentono intenzionalmente. Ora, anche se i mpm della Germania fossero in realtà non la metà, ma “solo” un terzo o un quarto di quelli di paesi come Colombia (ufficialmente 800), Ecuador (785) o Bolivia (770), il fatto resterebbe ugualmente tanto incredibile quanto ingiustificabile. E non dimentichiamo che alcuni paesi sudamericani, non affidabili al 100%, ma comunque abbastanza affidabili, come Paraguay (293) e Uruguay (34), dichiarano un numero di mpm addirittura inferiore rispetto ai tedeschi (nel secondo caso di ben il 90%).

Ma anche restando nell’ambito dei paesi più avanzati, dove siamo sicuri che i dati sono sostanzialmente omogenei, le cose non vanno molto meglio. In Europa la grande Germania sta appena un pochino meglio della derelitta Grecia (417 mpm) e della Lituania (404), paese che però nella prima fase aveva rapidamente azzerato il contagio con appena 81 morti (29 mpm), mentre adesso sta pagando la generosa ospitalità offerta ai profughi della Bielorussia, che ufficialmente dichiara appena 142 mpm, ma, essendo una dittatura tra le più scellerate del pianeta, ha di sicuro una situazione molto più grave. La Germania sta invece leggermente peggio della Serbia (319) e della Slovacchia (296), parecchio peggio di Lettonia (245), Danimarca (184) ed Estonia (145), molto peggio di Finlandia (92), Islanda (82) e Norvegia (74) e moltissimo peggio dei paesi orientali ed oceanici, che hanno gestito meglio di tutti al mondo l’emergenza: Taiwan (0,3 mpm), Nuova Zelanda (5), Singapore (5), Corea del Sud (14), Giappone (23) e Australia (35).

La cosa più preoccupante è però che in questa seconda fase la Germania ha avuto un numero di morti che è già il doppio rispetto alla prima e, soprattutto, da diversi giorni ha il più alto tasso al mondo di morti al giorno rispetto alla popolazione. Ieri perfino in valore assoluto era il secondo peggior paese al mondo, dietro soltanto agli USA di Trump il Pazzo (944 contro 2662), che però hanno il quadruplo di abitanti, per cui in proporzione l’incremento della Germania è stato superiore: 11,2 mpm contro 8 mpm.

Ancora più impietoso è il paragone con i paesi orientali ed oceanici, in particolare con i secondi, perché ultimamente il “modello coreano”, che è anche quello del Giappone, sta avendo un po’ di problemi (il che merita una riflessione a parte, che farò in un prossimo articolo). Qui, infatti, la cosiddetta “seconda ondata” (altro termine improprio e fuorviante su cui mi riprometto di tornare in futuro) semplicemente non c’è mai stata, se consideriamo che tra Taiwan (che, tra parentesi, nella mappa ufficiale della OMS continua a non esistere), Singapore, Nuova Zelanda e Australia, con una popolazione totale di oltre 60 milioni, a novembre ci sono stati in totale appena 2 morti (1 a Singapore e 1 in Australia), ovvero 0,03 mpm, e a dicembre finora neanche uno, mentre in Germania sono stati rispettivamente 6.279 (75 mpm) e 11.379 (135 mpm). Stiamo parlando di una differenza, o meglio, di un abisso di ben 4 ordini di grandezza, che è qualcosa di al di là del bene e del male, specialmente in paesi che hanno più o meno lo stesso livello di sviluppo economico e tecnologico.

Va da sé, ovviamente, che il paragone è ancor più impietoso per l’Italia, che, con una popolazione praticamente identica a quella dei quattro paesi suddetti, di morti ne ha avuti 16.958 (283 mpm) a novembre e 14.266 (237 mpm) in questa parte di dicembre. E, già che ci siamo, faccio notare che in un articolo pubblicato su questo stesso sito il 19 ottobre (Il lockdown che non c’è mai stato e quello che ci vorrebbe) concludevo dicendo che se non avessimo immediatamente e radicalmente cambiato rotta avremmo presto pianto altri 35.000 morti: detesto aver ragione… Ma per una volta non è di noi che stiamo parlando.

Infatti, tutto ciò dimostra, purtroppo, quello che ho sempre sostenuto (cfr. il mio articolo del 6 giugno su www.ilsussidiario.net e quello, appena citato, del 19 ottobre su questo sito) e cioè che la Germania non è mai stata un modello, neanche nella prima fase, perché le sue politiche di prevenzione sono sempre state sostanzialmente le stesse che hanno catastroficamente fallito in tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale. In particolare, neanche lì si è mai capito (o voluto capire), che, come dicono sia il buon senso che gli studi scientifici, il modo in cui ci si contagia più facilmente è stando al chiuso per molto tempo con persone adulte, il che significa in ufficio e in fabbrica: guarda caso, gli unici luoghi che non sono mai stati chiusi.

La differenza con l’Italia, che sembrava enorme (ma il discorso vale anche per altri paesi), era in realtà dovuta in gran parte alla gestione delle case di riposo, che i tedeschi avevano difeso in modo perfetto, mentre noi malissimo, arrivando al punto di ricoverarci i malati di Covid, il che ci era costato oltre 9.000 dei nostri 35.000 morti. Tenendo conto che in Germania gli anziani che stanno in casa di riposo sono il doppio rispetto all’Italia, ne deriva che se noi le avessimo gestite come loro avremmo avuto 26.000 morti, mentre se loro le avessero gestite come noi ne avrebbero avuti 27.000. Il resto l’ha fatto la maggiore efficienza tedesca (vedi per esempio la gestione dei tamponi), ma non una vera differenza qualitativa nelle misure adottate.

Non è quindi strano che, ridimensionato di molto il peso di questo fattore (perché almeno alle case di riposo abbiamo imparato a farci un po’ più di attenzione, benché ancora non abbastanza), anche il gap con la Germania si sia ridotto sensibilmente. Quello che invece è davvero strano, nonché imperdonabile, è che questo la Merkel l’abbia capito solo ora, mentre era evidente fin da maggio, così come era evidente fin da maggio che il crollo dei contagi verificatosi proprio in quel periodo era dovuto essenzialmente all’arrivo dell’estate, visto che non erano state prese nuove misure, anzi, un po’ ovunque si stava riaprendo anche quel che era stato chiuso.

Ma la cosa più grave è che la sua reazione dimostra che tale incomprensione dei fatti perdura, dato che alla fine l’unica cosa che ha saputo fare è stato riproporre le stesse misure fallimentari di sempre, sia pure in forma più rigida, oltre al solito appello (ipocrita e vergognoso) alla popolazione perché rispetti le regole, il che implicitamente sottintende che fin qui non le aveva rispettate abbastanza, il che è falso è comunque irrilevante, visto che lei stessa ha ammesso che erano inefficaci. Certo, almeno una parte delle responsabilità Frau Angela se l’è presa, il che rispetto a Conte, che non se ne prende mai neanche mezza e ci tratta sempre come una massa di scolaretti indisciplinati e un po’ stupidi, è sempre un bel salto.

Ma il problema è che per valutare un leader il paragone non va fatto con i peggiori, bensì con i migliori: e i migliori, in questo caso, sono stati quelli dei paesi oceanici, in particolare la straordinaria Jacinda Ardern, giovanissima premier neo-rieletta (a maggioranza assoluta: e vorrei vedere…) della Nuova Zelanda, che da maggio è senza morti e senza virus, sicché la gente può “assembrarsi” senza preoccupazioni e soprattutto senza mascherine, come chiunque può verificare con i suoi occhi guardano la folla sorridente che proprio in questi giorni nel mitico Golfo di Hauraki assiste alle regate della Coppa America, che magari i kiwi vinceranno pure (lo spero: se la meritano e magari questo aiuterà a far conoscere al mondo quello che hanno fatto).

Che la Merkel, pur ammettendo il fallimento, si ostini ancora a fare di testa sua invece di imparare da loro fa sì che purtroppo le sue, quandanche soggettivamente sincere, siano oggettivamente lacrime da coccodrillo.