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Genitori e insegnanti – L’alleanza interrotta

7 Aprile 2025 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

I genitori sono alla sbarra. Dopo l’uscita del film Adolescence, e sull’onda degli ultimi femminicidi, accade sempre più di frequente che psicologi, psicanalisti, educatori in genere, leggano i fenomeni di violenza giovanile come segnali di un disagio di cui i primi responsabili sarebbero i genitori. Alla base di tutto vi sarebbe la mancanza di dialogo, e in particolare l’incapacità dei genitori di comprendere (e ascoltare) i tormenti esistenziali dei figli. Un deficit di attenzione aggravato da una parallela incapacità di ascolto degli insegnanti.

Negli Stati Uniti la diagnosi è molto più specifica, anche perché fondata su evidenze empiriche assai robuste  (serie storiche di lungo periodo) . Con due splendidi libri (iGen e The Anxious Generation) gli psicologi sociali Jean Twenge e Jonathan Haidt hanno dimostrato in modo difficilmente controvertibile che il disagio giovanile – fatto di ansia, depressione, autolesionismo, disturbi alimentari, solitudine, ideazione suicidaria (e ahimè pure suicidi riusciti) – è esploso intorno al 2012, subito dopo l’invenzione dell’iPhone 4 e la proliferazione dei social. Anche loro, come i nostri psicologi, puntano il dito sui genitori: alla base del disagio giovanile vi sarebbero genitori iper-protettivi nel mondo reale, e colpevolmente assenti in quello virtuale (ossia su internet).

Tutte queste diagnosi hanno naturalmente una loro plausibilità. Pare abbastanza verosimile che, se genitori e insegnanti fossero più presenti e più attenti ai bisogni psicologici dei figli, avremmo un po’ meno disagio, meno comportamenti aggressivi, meno violenza di genere. Ed è indubbio che, nella situazione attuale, molti adolescenti abbiano bisogno di un supporto psicologico. E tuttavia c’è anche un altro modo di porre la questione: com’è che alla situazione attuale siamo arrivati? da dove è sbucata l’enorme fragilità adolescenziale che osserviamo oggi? perché gli adolescenti di ieri non avevano, o avevano in misura molto minore, la maggior parte dei problemi di quelli di oggi?

Ebbene, se ci poniamo da questa prospettiva, meno individuale e più storico-sociologica, le cose ci appaiono in modo alquanto diverso. C’è un prima e c’è un dopo.

E c’è un evento che ha fatto da spartiacque. Questo evento è la rottura dell’alleanza fra genitori e insegnanti, che in Italia si è consumata grosso modo fra il 1995 e il 2000, ai tempi del mantra del “diritto al successo formativo”. Se i genitori non sono più in grado di dialogare con i figli non è per un più o meno repentino deficit di empatia (come tendono a suggerire le letture psicologiche) ma per il fatto molto concreto che, a un certo punto, hanno assunto il ruolo di sindacalisti dei figli, così perdendo il loro migliore alleato, l’insegnante. Quel che oggi si stenta a riconoscere è il fatto che il dialogo con i figli passava innanzitutto attraverso la delega di autorità che le famiglie conferivano alla scuola. È in quanto consideravano fondamentali i risultati scolatici, e degni di rispetto gli insegnanti, che i genitori erano per così dire costretti a dialogare con i figli e a esercitare la funzione genitoriale. Che certo non si esaurisce nel monitorare voti e pagelle, ma diventa difficile da esercitare se il baricentro quasi esclusivo della vita di ragazze e ragazzi non è più la scuola, ma è il gruppo dei pari. E se, conseguenza cruciale, la socializzazione non è più task-oriented (ossia basata su compiti concreti, dallo studio allo sport, dagli hobby alle esplorazioni) ma identity-oriented (ovvero fondata sulla ricerca del riconoscimento nel gruppo dei pari). Se tutte le tue energie sono impiegate a costruire la tua immagine (il famigerato “profilo”) e a massimizzare l’apprezzamento di una comunità virtuale, è normale che resti ben poco spazio per il dialogo intra-familiare, e spesso per il dialogo faccia a faccia in generale.

Si parla spesso, per denunciarla, della competitività che la scuola innescherebbe, e che sarebbe all’origine di tanti suicidi studenteschi. Ma basta un minimo di introspezione e di osservazione del mondo per rendersi conto che, mediamente, è molto più potente la pressione a essere percepiti come “fighi” dai propri pari che a essere giudicati “bravi” dai propri insegnanti o genitori.

Insomma, voglio dire che il processo ai genitori attualmente in corso è mal impostato. Non perché non abbiano le loro responsabilità (la principale delle quali, spesso, è di comportarsi da adolescenti), ma perché – finché accetteremo che i nostri figli abitino su internet e che i loro insegnanti siano a mala pena tollerati – la battaglia è perduta. Troppa la fragilità che nasce dalla competizione spietata con i più belli, i più desiderabili, i più sopra le righe. Troppa l’insicurezza per chi non ha terreni di gioco concreti su cui misurarsi, ma solo l’arena virtuale della rete. Troppo forti gli incentivi al bullismo, che prima o poi tracima da internet alla realtà.

Sarò sincero: quel che mi stupisce non è che tanti genitori non dialoghino con i figli, ma che non abbiano ancora capito la ragione per cui non sono più in condizione di farlo.

[articolo uscito sul Messaggero il 5 aprile 2025]

Patriarcato? – Alle radici dei femminicidi

22 Novembre 2023 - di Luca Ricolfi

SocietàSpeciale

Intervento del Prof. Ricolfi a Quarta Repubblica (Min. 29)

Esaurite le lacrime e le indignazioni, chiuso il ciclo degli innumerevoli esercizi retorici che hanno provato a dire il nostro sgomento, sarà il caso – prima o poi – di riflettere anche sui dati che descrivono la violenza sulle donne. Non ce ne sono abbastanza per formulare una diagnosi inattaccabile, ma quei pochi che ci sono bastano a sollevare interrogativi importanti.

Il dato più importante, ben noto agli studiosi da quasi un decennio, è il cosiddetto “paradosso nordico”: come mai i tassi di violenza sulle donne più alti si riscontrano nei paesi considerati più civili, o addirittura in quelli più avanzati in materia di parità di genere?

Non tutti lo sanno, ma nei civilissimi paesi scandinavi, in Germania, in Francia, nel Regno Unito, le donne rischiano la vita più che in Italia. In Europa solo Irlanda e Lussemburgo hanno tassi di uccisione delle donne minori che in Italia. E se allarghiamo lo sguardo alle società avanzate non europee, solo in Giappone le cose vanno meglio che in Italia: paesi come Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Israele, Corea del Sud hanno tutti tassi di uccisione maggiori di quelli italiani.

Come mai?

Qualcuno ipotizza che alla base possa esservi un maggiore consumo di alcol. Altri che il problema possa essere la presenza di immigrati, o di stranieri di fede islamica. Ma i dati non sembrano facilmente conciliabili con queste ipotesi. Se vogliamo capire, dobbiamo cercare altrove.

Questo altrove potrebbe essere la sopravvivenza del patriarcato, come si sente affermare ogni volta che una donna viene uccisa da un partner possessivo. Certo. Ma sfortunatamente, anche questa ipotesi è difficilmente conciliabile con i dati. Qualcuno può plausibilmente sostenere che i paesi scandinavi siano società patriarcali? O che lo sia il Regno Unito? O il civilissimo e ultra-avanzato Canada?

Del resto è il caso stesso dell’Italia a mettere in dubbio la teoria del patriarcato. Diversi dati, dagli stupri ai femminicidi, suggeriscono che la violenza sulle donne sia maggiore nel Centro-nord che nel Sud. Se ne deve dedurre che il patriarcato è in via di estinzione nelle regioni del Mezzogiorno, mentre prospera in quelle centro-settentrionali?

Quando si è affezionati a una teoria, si trova sempre un modo di salvarla, anche contro le evidenze empiriche. Il caso della teoria del patriarcato non sfugge alla regola. Quando si è scoperto che gli stupri dilagavano in Svezia, qualcuno ha provato a spiegare le cose così: proprio il fatto di avere reso il paese molto più civile con riforme dall’alto precoci ha provocato la reazione degli uomini, che non erano pronti ad accettare tanta libertà per le donne. Di qui una sorta di contraccolpo (backlash): la violenza sulle donne sarebbe una sorta di reazione del maschio, spiazzato dalla libertà e intraprendenza femminile dopo le riforme illuminate degli anni ’70 e ’80.

Se si accetta questa lettura, si dovrebbe anche ipotizzare una straordinaria lentezza del maschio del Nord: possibile che cinquant’anni non gli siano bastati per assorbire lo shock della liberazione della donna? Mah…

Eppure esiste anche una spiegazione più semplice, per quanto più difficile da accettare. Una delle radici della violenza sulle donne nelle realtà più avanzate potrebbe essere proprio il loro essere avanzate. Quando si parla del grado di civiltà raggiunto da un sistema sociale, infatti, troppo sovente si dimentica che l’aspetto centrale delle società avanzate è la cultura dei diritti. E la cultura dei diritti è una cosa meravigliosa, ma ha anche effetti collaterali perversi. Ad esempio: l’educazione è permissiva, i genitori iper-proteggono i figli, gli insegnanti si colpevolizzano per gli insuccessi dei ragazzi. Sicché una parte di questi ultimi si convince di avere un fascio di diritti fondamentali, o quasi naturali: successo formativo, abitazione, consumi, status, divertimento, sesso. Naturalmente, succedeva anche prima che si desiderassero tutte queste cose. Ma non erano considerate diritti, bensì conquistepossibili, spesso costose in termini di sforzi, e sempre esposte al rischio di fallimento.

In breve, e detto brutalmente: nelle società “arretrate” i giovani sanno (e accettano) di poter fallire, in quelle avanzate non sono preparati all’eventualità. E il momento più critico è proprio quello della ricerca del partner sentimentale, perché quella è la prima sfida in cui i genitori – per quanto ricchi, potenti, dotati di conoscenze – non possono intervenire, né supplire alle inadeguatezze di un figlio. Per diversi ragazzi, quello di essere rifiutati dalla donna che desiderano può essere il primo vero trauma della loro vita, proprio perché è il primo scacco in cui la rete di protezione familiare è fuori gioco.

Da questo punto di vista, non stupisce che negli Stati Uniti – dove l’iper-protezione dei giovani da parte di genitori, insegnanti, istituzioni culturali ha assunto tratti grotteschi e dimensioni patologiche – per una donna il rischio di essere uccisa sia 7 volte quello dell’Italia.

Così come non stupisce l’inquietante sincronismo con cui, negli ultimissimi anni, sono aumentati sia il numero di donne uccise (quasi + 20% fra l’era pre-Covid e oggi) sia il numero di denunce e arresti di minorenni per omicidi, violenze sessuali, lesioni, percosse, danneggiamenti, risse, rapine in strada, minacce, solo per citare alcuni esempi da un recente rapporto della Polizia criminale.

La mia è solo un’ipotesi, naturalmente, ma non mi sento di escludere che, sotto questi repentini cambiamenti, non vi sia solo un deficit di consapevolezza dei diritti e del valore delle donne (un guaio cui la scuola può tentare di porre rimedio), ma una degenerazione della cultura dei diritti, che ha reso tanti maschi del tutto incapaci di fare i conti con il rischio di fallire.

Chiediamo troppo ai ragazzi?

3 Aprile 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Stanno suscitando una certa inquietudine le notizie che, negli ultimi tempi, riferiscono di giovani in crisi, specie in ambito scolastico. Fra le fonti di disagio, spesso vengono menzionate le eccessive pretese di insegnanti e genitori, ma anche ansie e frustrazioni che possono nascere nel gruppo dei pari. La diagnosi prevalente sembra essere quella che sottolinea l’insostenibilità delle pressioni competitive che il mondo degli adulti eserciterebbe sui ragazzi, chiedendo loro più di quanto possano dare.

C’è ovviamente del vero in ciascuna di queste letture, ma credo sia bene distinguere. I problemi del liceo classico, di cui tanto si parla, riguardano meno del 6% dei ragazzi, e sono di natura molto diversa da quelli degli altri licei e degli istituti tecnici e professionali. Nella mia ormai lunga esperienza di genitore e docente, quel che più mi ha colpito, negli ultimi decenni, non è certo l’eccesso di competitività, che spesso si attribuisce al classico, ma un fenomeno del tutto diverso, per certi versi opposto, che si può osservare a occhio nudo un po’ in tutti gli ordini di scuola: par la maggior parte delle famiglie, da molti anni a questa parte, la stella polare è il binomio serenità + promozione. L’importante non è che la scuola sia eccellente, o che il figlio primeggi, ma solo che sia promosso e non subisca frustrazioni. Se non fosse così, anziché legioni di genitori che se la prendono con gli insegnanti per gli insuccessi dei figli, vedremmo un vasto movimento che chiede alla scuola come mai il livello sia sceso così tanto.

Ed è qui che interviene il problema dei licei classici, e più in generale delle scuole esigenti, che per fortuna esistono anche in altri indirizzi. La strage di ragazzi che abbandonano i licei per passare a scuole più facili si spiega con il fatto che il primo anno di scuola secondaria superiore è anche il primo momento in cui la scuola smette di scherzare, ossia non sottostà all’obbligo non scritto di intrattenere e promuovere (quasi) tutti. Negli anni ’60 questo passaggio alla “scuola vera” avveniva dopo la 5aelementare, e infatti la scuola media inferiore faceva ancora stragi. Mentre oggi il passaggio alla scuola vera avviene solo dopo la 3a media, e a fare stragi ci pensano i licei.

C’è un’importante differenza, però, fra ieri e oggi. Negli anni ’60, il tipico ragazzo che non ce la faceva proveniva da una famiglia povera, in un’Italia che non aveva ancora raggiunto l’unità linguistica (come Tullio De Mauro ci ha mille volte ricordato). Oggi, invece, se un ragazzo non ce la fa, spesso è semplicemente perché la scuola media non gli ha fornito le basi per frequentare un liceo, e meno che mai per frequentare un liceo classico, con il latino e il greco. È innanzitutto da questa rinuncia della scuola media a raggiungere standard minimi di competenza linguistica (una rinuncia aggravata da tre anni di pandemia) che derivano le enormi difficoltà di tanti nostri ragazzi non appena, con la scuola secondaria superiore, incontrano la scuola vera.

Non è tutto, però. Una vasta letteratura internazionale, soprattutto psicologica e sociologica, da almeno vent’anni ci avverte che i figli dei baby boomers, ovvero i genitori dei ragazzi di oggi, oltre ad accettare il declino della qualità dell’istruzione e a rompere la storica alleanza con gli insegnanti, si sono resi responsabili di un altro disastro: la formazione di una generazione fragile, ipersensibile, ultra-bisognosa di protezione, affamata di approvazione, incapace di tollerare gli insuccessi e di gestire le difficoltà. In una parola: una generazione non-resiliente, per usare una espressione che il Pnrr ha reso di moda.

Chiunque abbia frequentato le scuole negli anni ’60 può testimoniare che le pressioni che insegnanti e genitori, allora alleati, esercitavano sui ragazzi e le ragazze erano enormemente superiori a quelle di oggi. Personalmente, ricordo i miei anni di scuola media come anni di terrore, di ansia, di spasmodica attenzione a non sbagliare. Ma anche di grandi soddisfazioni, scolastiche ed extra-scolastiche.

Dunque il punto cruciale non può essere che si chiede troppo ai ragazzi. Il punto, semmai, è che nessuno, allora, pensava di avere “diritto al successo formativo”, alla serenità, a supporti psicologici, al riconoscimento di ogni esigenza o aspirazione. Non lo pensavamo noi ragazzi, non lo pensavano i nostri genitori, non lo pensavano i nostri insegnanti, perché quelle cose non le vedevamo come diritti esigibili, ma come possibili conquiste. Oggi ai ragazzi si chiede molto di meno, ma proprio questo chiedere di meno li rende fragili, perché li lascia disarmati verso gli ostacoli e le asperità della vita, scolastica e non. Siamo sicuri che sia la strada giusta?

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