In difesa del maggioritario onesto, quello senza doppio turno
Non essendo uno scienziato politico ma un assai più modesto storico contemporaneista, non riesco sinceramente a capire i sostenitori del maggioritario a doppio turno. Come ho fatto rilevare in un articolo scritto per ‘Il Dubbio’: «Certo può parere ingiusto che su dieci partiti in competizione, vinca quello che ha ottenuto il 20% dei suffragi mentre gli altri nove che rappresentano l’80% dell’elettorato rimangano esclusi dal governo, avendo ciascuno raccolto in media l’8,8% del consenso popolare.» Il rimedio a questo inconveniente, a mio avviso, non sta, però, in quel doppio turno che nasce appunto dalla doppiezza politica e non dall’onestà politica.
Col doppio turno, per fare un esempio concreto, se per Marine Le Pen—il suo Front National fu il primo partito alle elezioni europee (e sottolineo europee pour cause) del 2014 e non dimentichiamo che fu eletta deputato per il Pas de Calais il 19 maggio 2017 col 46,02% contro il 16,4% del suo avversario socialista Kemel–si dovesse prevedere alle prossime presidenziali, al primo turno,un 45% dei suffragi contro il suo più diretto antagonista, fermo al 30%, quest’ultimo potrebbe andare all’Eliseo grazie all’SOS indirizzato al 25% degli elettori da lui lontanissimi ideologicamente ma chiamati a raccolta contro il pericolo populista (se non fascista)! Trovo tutto questo, francamente, indecente, giacché in una ‘democrazia a norma’ non si vince con la mobilitazione di tutti i Romani contro Annibale alle porte: i partiti stanno sullo stesso piano e se una formazione politica non è democratica–perché ha violato precisi articoli della Costituzione–a scioglierla debbono pensarci i tribunali, non gli elettori. Come ha spiegato, in pagine magistrali, il più grande storico francese del secondo Novecento, François Furet, una delle funzioni svolte da un antifascismo da settant’anni fuori stagione, è anche quella di promuovere l’Union sacréé contro gli odiati avversari politici. E’ l’antifascismo—autentico e subdolo veleno della democrazia liberale: lo mostrò Renzo De Felice in una criticatissima intervista a Pasquale Chessa—a stabilire che cosa può entrare nell’agenda politica di un partito e che cosa no, che cosa può essere tollerato e che cosa no. (A Genova è l’Anpi a decretare che Casa Pound non può aprire la sua sede nella Città Santa della Resistenza !!).
In un’ottica autenticamente liberale, il doppio turno che unisce gli opposti suscitando spettri del passato e alimentando paure infondate, è un residuo di stagioni che dovremmo lasciarci alle spalle per sempre. La via maestra è quella del maggioritario puro che a un candidato ritenuto (a torto o a ragione) inaffidabile ma con serie chances di vittoria, contrappone una personalità che goda di ampio prestigio e che dia garanzie per quanto riguarda le sue competenze amministrative, la sua riconosciuta onestà e la sua indiscussa professionalità. A meno che non si voglia andare incontro a una sicura débâcle, un candidato simile non può essere un fedelissimo del partito o qualcuno della cerchia interna del leader—ad esempio, un avvocato di Berlusconi o una sindacalista CGIL promossa ministro della P.I. Per battere una candidatura forte, infatti, occorre qualcuno in grado non di unire gli opposti (gollisti e maoisti contro la minaccia lepenista) ma di far convergere i «simili» ovvero quell’ampia fascia di elettorato—di destra o di sinistra– che, in un sistema proporzionale puro, avrebbe votato per partiti diversi, ma non lontani. In tal modo, il gioco sarà aperto e leale e il voto sarà un voto pro non un voto contro, nel rispetto assoluto dell’ethos democratico che non s’identifica più da tempo con quello antifascista. Come la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali, la democrazia è una cosa troppo seria per lasciarla ai political scientists.