Forza Italia e il destino del centro

Che succede in Forza Italia?

In questi ultimi giorni si sta parlando di una imminente proposta di legge di Forza Italia che agevolerebbe l’acquisizione della cittadinanza italiana ai ragazzi stranieri che hanno completato uno o più cicli di studio. L’idea è già stata bocciata da Lega e
Fratelli d’Italia (non è nel programma di governo), mentre una significativa apertura sul cosiddetto Ius scholae – ovvero la cittadinanza in base agli anni di scuola in Italia – è arrivata da Giuseppe Conte con un articolo sul Corriere della Sera.

La cosa interessante è che Conte non solo ha appoggiato l’idea, attribuendone la paternità ai Cinque Stelle, ma ha anche attaccato il massimalismo di Pd e Alleanza Verdi-Sinistra (AVS), che punterebbero sullo Ius soli (basta nascere in Italia per ottenere la cittadinanza), ossia su una proposta non solo impraticabile (mancano i numeri in parlamento) ma anche politicamente sbagliata.

Una lettura congiunta di questi due episodi suggerisce un’ovvia osservazione: sia a destra (con Forza Italia) sia a sinistra (con i Cinquestelle) è in atto un tentativo di differenziarsi dalle forze più radicali, spostandosi verso il centro.

Questo doppio movimento, tuttavia, è molto più credibile a destra che a sinistra. La mossa di Forza Italia, infatti, non è estemporanea come quella dei Cinque Stelle, ma segue una serie di recenti mosse dello stesso tipo. Pochi giorni fa Tajani, leader di Forza Italia, ha fatto significative e assai esplicite aperture anche su un’altra proposta non gradita agli alleati di governo, quella di varare un provvedimento svuotacarceri, misura peraltro perfettamente in linea con la tradizione garantista del partito berlusconiano. Ancora più significativamente, un paio di mesi fa Marina Berlusconi, presentando i progetti della casa editrice Silvio Berlusconi Editore, ha fatto una dichiarazione molto impegnativa: “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi
sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere”.

Sono tre mosse significative, che convergono su un unico obiettivo: salvare Forza Italia rafforzandone il profilo moderato garantista, liberale, e pure laico-libertario. Alla luce delle ultime mosse, non vi sarebbe nulla di strano se domani Forza Italia dovesse farsi promotrice di una legge sul fine vita, o desse disco verde al matrimonio egualitario.

È realistico un simile progetto di riposizionamento politico?

Secondo me sì, ma per spiegare perché occorre tornare ai Cinque Stelle e al loro speculare progetto di distacco da Pd e AVS. La differenza fra le due situazioni è che a sinistra qualsiasi forza moderata suscita una crisi di rigetto di natura ideologica, aggravata dal ricordo della stagione renziana. Mentre a destra un analogo rigetto non avviene perché i partiti di centro-destra, ormai da decenni, sono abituati a ricercare un equilibrio fra loro in modo pragmatico, lungo linee negoziali, senza scontri sui principi ultimi.

Ecco perché a destra c’è posto per una robusta gamba moderata, mentre a sinistra non c’è.

E la Margherita? potrebbe obiettare qualcuno, pensando a quando il centro sinistra la gamba moderata ce l’aveva eccome.
Ma è precisamente questo il punto. Per essere pienamente accettati nello schieramento di centro-sinistra, i moderati dovettero creare un loro partito, dotato di una massa elettorale critica, vicina a quella della componente post-comunista, e puntare su un “papa straniero” (Romano Prodi). È così che riconquistarono la maggioranza nel 2006, dopo il quinquennio berlusconiano.
Oggi siamo lontanissimi da quelle condizioni. La Margherita non esiste più, inabissata nel Pd; il progetto di dare al centro-sinistra una gamba moderata è fallito con la dissoluzione del Terzo Polo; la massa elettorale di Renzi è ridicola; il partito di Conte ha ben poco di moderato; quello di Calenda lotta per non scomparire; Elly Schlein è tutto tranne che un papa straniero.

Allo stato attuale il duo Tajani-Marina Berlusconi è di gran lunga l’offerta più credibile per gli elettori che guardano al centro.

[articolo per la Ragione, inviato il 19 agosto 2024]




Sinistre in fuga dal centro

Le elezioni europee dell’8-9 giugno hanno confermato la crisi profonda in cui versa la democrazia italiana: che si tratti di ’mal comune mezzo gaudio’ non consola molto, dimostrando solo come il nostro abbia reazioni sempre più simili a quelle degli altri paesi dell’area euro-occidentale.

Quali sono i sintomi più gravi della malattia? Ne elenco solo due.

Il primo è la spaccatura profonda che da anni divide ormai le nostre società civili. In Italia alla coalizione di centro-destra, egemonizzata da un partito postfascista che ha espresso una sincera adesione ai valori della democrazia liberale, e si trova a Palazzo Chigi, grazie a due alleati, Forza Italia – una formazione centrista della cui anima liberale nessuno potrebbe dubitare – e la Lega Salvini – un composito movimento populista che non ha affatto tradito le sue origini, come attestano le sue battaglie per le autonomie differenziate; corrisponde una coalizione egemonizzata da un PD, quello di Elly Schlein, sempre più lontana da una filosofia riformistica e costantemente tentata da un’alleanza, più o meno organica col Movimento 5 Stelle, che al suo qualunquismo (né destra/né sinistra) dovette i suoi inaspettati successi elettorali, e che oggi, con Giuseppe Conte, fa pensare a un neo-peronismo giustizialista. Ancora più a sinistra si colloca l’Alleanza Verdi Sinistra (vicina a un non trascurabile 7%) che con
il liberalismo classico non ha alcun rapporto (non è, a mio avviso, una colpa).

Le sinistre unite hanno retto all’onda lunga della destra grazie anche ai grandi quotidiani, che un tempo si dicevano dei padroni’, come quelli del Gruppo Gedi («Stampa», «Repubblica» etc.) e a una stampa furiosamente antigovernativa, tipo «Domani» e «Il Fatto quotidiano». Partiti, stampa, movimenti di protesta, finte associazioni ecologiche – che, in realtà riversano sul nemico di sempre, il capitalismo, le loro apprensioni per gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici – centri sociali vari, associazioni LGBT, pacifisti scatenati contro il sionismo, minoranze universitarie emule del ’68, aficionados di Ilaria Salis, parrocchie ribelli: è, questo, un mondo vario e composito che attesta che la sinistra è viva e vegeta e nulla ha perso delle sue caratteristiche d’antan.     È una constatazione, la mia, che non ha nulla di moralistico: il mondo è pieno di valori in conflitto e la loro dialettica è il sale della democrazia. E tuttavia, ci si chiede, può una democrazia ‘a norma’ sopravvivere quando gli attori principali in competizione trovano consensi elettorali allontanandosi dal centro? È una buona notizia che i riformisti e gli ex margheritini del PD siano destinati ad essere emarginati? Che le sinistre parlino con la voce di Claudia Fusani, di Daniela Preziosi, di Massimo
Giannini, di Ezio Mauro? Che le ali mediane del sistema politico, Azione di Carlo Calenda o Stati Uniti di Europa del duo Emma Bonino/Matteo Renzi non abbiano alcun potere di riassestare verso il centro l’asse della politica italiana? (Negli ultimi tempi della campagna elettorale, va pur detto, le loro critiche al governo erano così spietate da portare acqua al mulino di Elly Schlein, allontanando potenziali elettori, pur lontani dalla Meloni, ma vicini a un’opposizione corretta e non delegittimante).

L’altro dato emerso dalle urne è anch’esso poco rassicurante.

«In queste elezioni, ha scritto Augusto Minzolini – la politica estera, in presenza di due guerre, ha pesato come non mai in passato». Verissimo, ma fa sorridere l’analisi l’editorialista del «Giornale» quando parla di Un voto contro Putin (ma in quale beato paradiso caraibico vive Minzolini?) e giudica la più grave sconfitta di un partito di governo che si sia verificata dal dopoguerra a oggi – quella subita in Francia da Macron e in Germania da Scholz – il prezzo pagati per “qualche fuga in
avanti” (sic!). In realtà, la difesa a oltranza dell’Ucraina e gli Stati Uniti d’Europa sono stati i cavalli di battaglia di columnists e di scienziati politici dei grandi quotidiani ma non hanno toccato nessun cuore. Ma di quale Europa stiamo parlando se gli stati del vecchio continente sono tutti appiattiti (ammettiamo pure, con qualche buona ragione) sulle direttive di Washington e della Nato,
se nelle guerre che si stanno svolgendo sotto le nostre case i rappresentanti degli stati europei si sono astenuti da ogni iniziativa autonoma, da ogni tentativo di contribuire al farsi degli eventi, sia pure a fianco della Casa Bianca? Stati Uniti d’Europa! Siamo europei! ma davvero si poteva credere che, con queste genericità retoriche, si sarebbero ottenuti i voti dell’uomo della strada?     In un esemplare editoriale del «Corriere della Sera» dell’8 giugno u.s., L’Europa non è solo un’idea, Ernesto Galli della Loggia ha fatto rilevare: «le élite europee hanno finito per credere (…) che per radicarsi e legittimarsi nella coscienza dei propri cittadini, bastassero i grandi principi e i vantaggi concreti assicurati dall’Unione. Ma nessun corpo politico è stato mai tenuto insieme solo
da queste cose».

Non mi sembra che questa saggezza storica faccia parte della political culture dei Calenda, dei Renzi, dei Della Vedova. Il contrappeso centrista e moderato al trionfo della sinistra tendenzialmente illiberale è affidato alle mani di attori politici moralmente e intellettualmente affetti dal morbo di Parkinson.

[commento elettorale uscito su Paradoxa-Forum il 13 giugno]




Requiem per il terzo polo

Sarà magari una coincidenza, ma certo colpisce che i più clamorosi successi di queste elezioni europee siano tutti al femminile: grazie al successo dei rispettivi partiti, Ursula Von del Leyen, Giorgia Meloni, Marine le Pen, Elly Schlein avranno un ruolo
decisivo nei futuri assetti dell’unione Europea.

Ma anche in Italia l’esito del voto premia esclusivamente le liste a traino femminile: non solo Giorgia e Elly, ma anche la lista Verdi-Sinistra condotta a un clamoroso risultato (quasi il 7%) dalla candidatura di Ilaria Salis.

Ciascuno a suo modo, i tre risultati sono eccezionali. Il 28.8% di Meloni, in quanto il suo governo è l’unico fra quelli dei grandi paesi europei ad uscire vincente, per di più in un momento (elezioni intermedie) di solito non favorevole ai governi in carica. Il
24% di Elly Schlein, in quanto il Pd è l’unico partito (insieme a AVS) che aumenta i consensi anche in termini assoluti, e ci riesce a dispetto dei voti in libera uscita temporaneamente sottratti al Pd per sostenere la causa della Salis. Il 6.8% della lista AVS, perché – secondo i sondaggi – il superamento della soglia del 4% non era per niente sicuro.

Fra i tre risultati, tuttavia, quello più impattante è stato quello della Salis. In un colpo solo, la pasionaria della lista Verdi-sinistra è riuscita nel miracolo di escludere dal Parlamento Europeo sia la lista di Renzi-Bonino (Stati Uniti di Europa) sia, verosimilmente, quella di Calenda (Azione). È facile immaginare, infatti, che – in assenza del magnete Salis – molti dei voti AVS sarebbero finiti su quelle due liste, consentendo ad almeno una delle due di raggiungere il 4%. L’extra-risultato di Salis
si aggira infatti intorno al 3%, mentre i voti mancanti a Stati Uniti d’Europa sono pari appena allo 0.2 %, e quelli mancanti ad Azione allo 0.7%: due divari colmabili con 1/3 dei consensi che Salis ha portato a Bonelli e Fratoianni.

Visto da questa angolatura, il risultato di AVS è probabilmente il più influente sul futuro del nostro sistema politico. Dopo il flop europeo, sembra estremamente difficile che Renzi e Calenda riescano a mettere insieme i cocci del Terzo polo, che pure aveva guadagnato un non disprezzabile 7.8% alle elezioni politiche. Le recriminazioni reciproche, scattate subito dopo il voto, testimoniano dei limiti caratteriali e strategici dei due leader, e annunciano un futuro non proprio allegrissimo per il centro-sinistra. Se non interverrà qualche invenzione, o qualche nuovo imprenditore della politica, i cosiddetti elettori di centro, che pure esistono, e valgono più o meno il 15% del corpo elettorale, non avrà altra strada che rivolgersi alla neo-resuscitata Forza Italia, il cui leader Tajani da tempo ripete che “occupiamo lo spazio fra Giorgia Meloni e Elly Schlein”. Una simmetria che fino a ieri,
sussistendo i partiti di Renzi e Calenda, poteva apparire artificiosa e pure un po’ furbesca, ma che ora, implosi quei due partiti, suona piuttosto come una constatazione di realtà.

Così il successo di AVS rivela la sua duplice valenza. Da un lato consolida il patto d’acciaio fra PD e AVS, due forze sempre più simili tra loro, e sancisce la perifericità dei Cinque Stelle rispetto ai due partiti di sinistra-sinistra. Dall’altro scava un baratro
fra la sinistra e il centro, fornendo a Tajani le praterie di cui ha bisogno per espandere Forza Italia. Verso il 20%, dice lui. Ma anche il 15% basterebbe ad assicurare buona salute al partito che fu di Berlusconi, e lunga vita alla maggioranza di governo.

Meloni ringrazia.

[Articolo uscito sulla Ragione il 12 giugno 2024]




Utile una federazione di tutto il centrodestra. Intervista a Luca Ricolfi

Si voterà nel 2023. Il sociologo Luca Ricolfi, studioso di sinistra fuori dal coro del conformismo anti destra, si è fatto un’idea precisa di come sta mutando il quadro politico dopo il Covid e sotto la guida di un governo di unità nazionale che ingloba tutte le forze politiche, tranne Fdi.

Professor Ricolfi, gli ultimi sondaggi indicano che la maggioranza degli italiani torna a fidarsi dei partiti dopo anni di “vaffa” e pulsioni anti casta. È un miracolo di Draghi?
A me sembrano i miracoli di tre anni di governi Cinque Stelle, che alla fine hanno aperto gli occhi un po’ a tutti. Certo, Draghi ha completato l’opera, ma il grosso del lavoro pro-partiti tradizionali l’avevano fatto i disastri dei grillini, dal reddito di cittadinanza allo sprofondamento di Roma sotto il regno di Virginia Raggi.

Le grandi manovre nel centrodestra sulla federazione Lega-Fi preludono a una semplificazione del quadro politico?
Forse sarebbe un bene, ma non mi pare probabile, a meno che la legge elettorale tagli le ali ai partiti sotto il 5%, e renda molto convenienti le aggregazioni. Sul piano tecnico, però, il punto è che una semplificazione è elettoralmente neutrale solo se avviene in entrambi i campi. Se a compattarsi fosse solo il centro-destra, i voti raccolti dal partito unico della destra sarebbero di meno della somma dei consensi ai singoli partiti. E comunque Fratelli d’Italia non ci starebbe: non dobbiamo dimenticare che, come racconta Giorgia Meloni nel suo libro, Fratelli d’Italia è nata precisamente dall’insoddisfazione per l’esperienza del Pdl. Il progetto di una Federazione di tutto il centro-destra è realistico e utile, quello di un partito unico a me pare irrealistico, e un tantino autolesionistico.

Berlusconi sogna un partito unico liberale entro il 2023. Sarebbe positivo il ritorno al grande bipolarismo, attuato in Italia fino alle elezioni del 2008, le ultime che espressero un premier indicato direttamente dagli elettori?
Sì, sarebbe positivo, ma non mi pare che dalla fusione Lega-Forza Italia possa nascere un partito liberale di massa. La Lega di liberale ha ben poco, ed è inevitabile che un eventuale nuovo partito assomigli più alla Lega che a Fi. Semmai quel che la fusione potrebbe portare con sé è una maggiore accettazione della Lega in Europa, a sua volta favorita da un graduale incivilimento del linguaggio (e dei programmi) di Salvini.

Anche il centrosinistra comincia a studiare l’opportunità di aggregazioni, a costo di ripescare il nemico interno Renzi. A quale tipo di contenitore possono arrivare insieme Pd, Italia viva, Leu e le altre formazioni minori?
Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che per il Pd sia molto più facile costruire un fronte anti-destre con la sinistra più massimalista e giustizialista (dai Cinque Stelle a Leu e dintorni) che con i cespugli riformisti, come Italia Viva, Azione, +Europa. Programmaticamente, Calenda mi sembra più vicino a Forza Italia che al Pd. E non sono sicuro che, se fosse costretto a scegliere, preferirebbe andare con un centro-sinistra grillizzato che con un centro-destra federato.

Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia stanno salendo nei consensi di settimana in settimana. Sono i benefici legati al ruolo solitario di opposizione o c’è un elettorato trasversale che si si sta spostando stabilmente all’ala destra?
Una delle poche previsioni elettorali azzeccate che ho fatto in vita mia è che Giorgia Meloni sarebbe arrivata al 20% dei consensi. La feci da Porro, a Quarta Repubblica, circa un anno e mezzo fa, subito prima del Covid. Quella previsione era basata su un’analisi dei programmi e delle proposte di Fdi, che da diversi anni mi appaiono più equilibrate di quelle della Lega (ad esempio in materia di tasse e mercato del lavoro), e più coraggiose di quelle di Fi (ad esempio in materia di immigrazione). Per me, in altre parole, il centro dello schieramento conservatore è Fdi, non certo la Lega. In breve, per venire alla sua domanda, credo che l’essere all’opposizione conti poco, e che a pesare sia il fatto di avere idee chiare (e stabili!) su parecchie cose.

Anche lei avverte la sensazione che l’anomalia dell’Italia tripolare possa scomparire per la continua perdita di consensi del Movimento 5 Stelle?
Sì, anzi direi che l’anomalia è già scomparsa, perché l’eventualità di un governo populista puro non c’è più, da quando Salvini ha smesso di digrignare i denti e il Movimento Cinque Stelle, per non scomparire, si è auto-ridefinito come una costola della sinistra.

C’è ancora spazio per l’ex premier Giuseppe Conte come leader politico dei 5 Stelle o di una formazione nuova?
Temo di sì, per quanto incredibile la circostanza appaia a chiunque conservi un minimo di capacità di giudizio. Conte è un personaggio come Chance, il giardiniere di Presenze (romanzo di Jerzy Kosinski), magistralmente interpretato da Peter Sellers nel film Oltre il giardino. Che sia stato preso sul serio per tre anni, e ancora sia l’interlocutore privilegiato del Pd è una circostanza che mi lascia senza parole.

Professore, si lanci in una previsione: quando si ritornerà a votare per il rinnovo del Parlamento? Nel 2022 dopo le elezioni per il Quirinale o alla scadenza naturale del 2023?
Non ho elementi concreti, ma solo sensazioni. La mia impressione è che il Pd farà di tutto per non anticipare le elezioni, che nel 2022 perderebbe, e per assicurarsi che al Quirinale salga, come di consueto, una personalità vicina alla sinistra (Mattarella-bis subito, poi si vedrà). Dunque: si voterà nel 2023.

Intervista rilasciata a Gabriele Barberis, Il Giornale, il 25 giugno 2021




Vecchi e nuovi governanti, intervista a Luca Ricolfi

  • Professore, oggi lei quanto scommetterebbe sulla tenuta del governo Lega-Movimento 5 stelle?

Non farei alcuna scommessa. È come se lei lanciasse in aria una moneta e mi chiedesse se prevedo che venga testa o venga croce…

  • Le differenze programmatiche tra i due partiti di governo si stanno già evidenziando con forza sul tema pensioni: ma non crede esploderanno in settembre, con il Documento di economia e finanza?

Temo che a settembre ad esplodere non siano le differenze fra Lega e Cinque Stelle, ma fra il governo italiano e la Commissione europea. E, ancora di più, fra le credenze economiche del governo giallo-verde e le percezioni dei mercati finanziari.

  • Certo, i guai più grossi, al momento, li vive il centrodestra. Lei crede possa sopravvivere l’alleanza Lega-Forza Italia-Fratelli d’Italia?

No, penso che l’eventualità più probabile sia un’annessione di Fratelli d’Italia al campo della destra anti-europea, con conseguente isolamento di Forza Italia.

  • La nomina del presidente della Rai si è trasformata in un contrasto tra Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. Alla ripresa, in settembre, potrebbe essere quello il casus belli finale?

Sarebbe bellissimo se i contrasti riguardassero cosucce come la Rai, o gli interessi economici di Berlusconi. Ma la realtà è che ci sono cose ben più importanti a dividere Lega e Forza Italia, prima fra tutte la politica verso Bruxelles.

  • Alcuni esponenti azzurri iniziano a parlare, testualmente, di «tradimento» da parte della Lega. Prevede un’intensificazione delle ostilità? Dove potrebbero scatenarsi?

Forza Italia è nell’angolo. Non ha il coraggio di allearsi con il Pd, perché sarebbe un suicidio. Non ha la forza di vincolare Salvini al programma del centro-destra, perché Salvini guida il primo partito italiano ed è affetto da una sensazione, non del tutto ingiustificata, di onnipotenza personale. Credo che Forza Italia non farà nulla, perché non ha alcuna freccia al suo arco.

  • Lei ha detto che «la linea di Salvini è vincente nei consensi» e che gli italiani non sono diventati razzisti, ma «vorrebbero più buonsenso sull’immigrazione». È stata l’immigrazione il cavallo vincente della Lega su Forza Italia?

In parte sì, ma in parte no. Il vero cavallo vincente di Salvini è stato l’approccio concreto ai problemi, l’uso di messaggi semplici e comprensibili, oltreché ripetuti senza limiti. Quando parla Salvini, la gente ha la sensazione (spesso fallace, ma tant’è) che “lui” i problemi sappia risolverli e abbia ogni intenzione di prenderli per le corna.  Berlusconi e i suoi, in particolare Tajani, usano un linguaggio esangue ed esausto, assai simile al politichese della sinistra.

  •  Una rottura tra Lega e Forza Italia potrebbe far cadere qualche giunta regionale dove oggi sono alleate?

Non credo che Forza Italia abbia voglia di perdere le ultime roccaforti di potere che le restano.

  •  La Lega, intanto, ha annunciato che in autunno correrà da sola alle elezioni in Abruzzo: crede prevarrà anche lì su Forza Italia, come negli ultimi voti locali?

Sì, penso che a destra come a sinistra la gente si è stufata di votare partiti troppo piccoli, e quindi impotenti.

  •  Quante speranze ha Berlusconi di recuperare consensi alle europee del maggio 2019, nel caso fosse candidato?

Pochissime, a mio parere. Una delle ragioni della estinzione di Forza Italia è proprio la cecità di Berlusconi, che non è stato capace di cogliere il passaggio dalla stagione in cui era un valore aggiunto a quella in cui è un valore sottratto.

  • Quella di Antonio Tajani come successore è stata una buona scelta?

Pessima direi. Tajani, anche fisicamente, è il perfetto emblema della burocrazia europea.

  •  Ma esiste a suo avviso un qualche percorso che possa fare recuperare terreno a Forza Italia? Oppure la sua crisi è irreparabile?

È  da qualche anno che sostengo che, per salvarsi, Forza Italia dovrebbe, come minimo – ossia come condizione preliminare – cambiare nome e gruppo dirigente. E poi ci vorrebbe qualche idea nuova e comprensibile: non è solo la sinistra che è a corto di idee, e senza idee non si può resuscitare un partito.

  • Anche il Pd è in crisi: dovrebbe sciogliersi per dare vita a un nuovo partito di centrosinistra?

I casi di autoscioglimento di un partito sono molto rari, finché il partito riesce a raccogliere voti e a gestire il potere che – non dobbiamo mai dimenticarlo – non è solo nazionale ma anche locale e territoriale. Tuttavia una “Rifondazione democratica” non si può escludere, come estremo tentativo di salvare la pelle.

  • In quel caso, chi potrebbe esserne il leader?

Apparentemente il federatore naturale di tutto ciò che sa ancora di sinistra è Nicola Zingaretti. Ma un Pd ricostruito a partire da una figura come la sua sarebbe una sorta di “Ulivo senza Prodi” o, se preferite, una ri-bersanizzazione del medesimo partito che Renzi aveva prima rigenerato e poi distrutto. Un po’ troppo per un organismo già provato da anni di cure sbagliate.

  • Vede altre soluzioni?

Non ne vedo molte, più che altro per ragioni culturali. Se si compara il livello dei dirigenti del passato con quello dei quarantenni e cinquantenni attuali non si può che essere colti da sconforto. Per costruire un partito non populista ci vogliono idee, visione, conoscenze approfondite, oltreché un certo carisma. Io non vedo alcun leader dotato di carisma e, quanto alle idee, ne trovo tracce in pochissimi dirigenti del Pd attuale.

  • In chi, ad esempio?

A sinistra in Gianni Cuperlo, forse l’unico vero intellettuale del Pd. A destra (della sinistra) in Minniti e Calenda, due persone che – a differenza della maggior parte dei loro compagni di partito – sanno sempre di che cosa stanno parlando.

  • Alla fine si realizzerà il nuovo «bipartitismo imperfetto» italiano, con la Lega che ingloberà il resto del centrodestra e il M5s che assorbirà quanto resta del Pd e della sinistra?

È  possibile, ma non è l’unico scenario verosimile. Io ne immagino almeno altri due.

  • Quali?

Il primo scenario è quello della discesa in campo di un imprenditore della politica (Urbano Cairo?) che, come Berlusconi nel 1994 e Macron nel 2016, fondasse un nuovo partito, che andrebbe a occupare il centro del sistema politico. Questa eventualità attiverebbe una dinamica fra forze della chiusura, tendenzialmente populiste, nazionaliste, stataliste, e forze dell’apertura, tendenzialmente moderate, europeiste, liberali. In un simile scenario lo scontro politico vedrebbe da una parte Lega e Cinque Stelle, dall’altra il neopartito di centro supportato da quel che resterà di Pd e Forza Italia.

  • E il secondo scenario?

Il secondo scenario, che considero improbabile ma non impossibile, è che l’imprudenza di questo governo in materia di conti pubblici precipiti l’Italia in una crisi tipo quella del 2011, con conseguenze economico-sociali devastanti (una nuova recessione se va bene, uscita dall’euro e iper-inflazione se va male). In questo caso non si può escludere che Lega e Cinque Stelle subiscano un grave ridimensionamento elettorale, e il sistema torni a un’alternanza più o meno tradizionale fra destra e sinistra. Con un’importante differenza rispetto al passato: nella nuova situazione destra e sinistra non si confronterebbero sulle ricette per creare più prosperità, ma su quelle per ritrovarne un po’, sulle macerie di un paese andato in default.

Intervista a cura di Maurizio Tortorella pubblicata su La Verità lunedì 20 agosto 2018