Luci e ombre della flat tax

Flat tax. È una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, anche se qualche precedente non manca: Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%).

Prima di ragionare su questa proposta, forse non è inutile illustrare il principio della flat tax con un esempio. Supponiamo, per fissare le idee, che la flat tax venga applicata solo ai redditi delle persone fisiche e che l’aliquota sia del 20%, con una no tax area (nessuna imposta) da zero a 10 mila euro. Supponiamo anche che, come spesso accade, la proposta sia affiancata da un’imposta negativa del 50% (imposta negativa significa: se guadagni meno di 10 mila euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a 10.000 euro).

Risultato: chi guadagna 5000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro. Chi guadagna 10 mila euro non paga nulla. Chi guadagna 20 mila euro paga zero tasse sui primi 10 mila euro, e 2000 euro (il 20% di 10 mila) sui successivi 10 mila, il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%. Chi guadagna 30 mila euro paga anch’egli zero tasse sui primi 10 mila euro, e 4000 euro (il 20% di 20 mila) sui 20 mila successivi, il che significa che per lui l’aliquota è del 14.3%. Chi guadagna 50 mila euro ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%. Nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10 mila euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito. Un Paperon de Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%.

Dunque ricapitolando: i poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%. Scusate l’esempio terra-terra, ma serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla flat tax, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario). Chi fa questa obiezione o, peggio ancora, parla di un sistema che toglie ai poveri per dare ai ricchi, una sorta di “Robin Hood al contrario”, semplicemente non ha capito come funziona la flat tax. Dunque lasciamo perdere e passiamo oltre.

Dal nostro esempio possiamo dedurre che la proposta del centro-destra di introdurre la flat tax sui redditi personali, ed eventualmente su quelli di impresa, è una buona proposta?

Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare.

Ma per altri versi la flat tax è invece una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta. Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, sono entrambe fragilissime, anche se per ragioni diverse. L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale (maxi-sconto agli evasori) è debole perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente. L’idea che aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche). Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%? Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti? Per non parlare del mondo dell’edilizia, dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi, almeno sui lavori per cui non è previsto un robusto credito di imposta.

Insomma, è perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una flat tax al 15%, o anche al 23%.

È un’idea da buttar via, dunque?

Forse no. Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema). Un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista.

Alternativamente, si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi, una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più.

Quale che sia la strada prescelta, il punto resta il medesimo. Se si vuole criticare la flat tax, è inutile accanirsi contro la non progressività, perché la flat tax è progressiva, e per certi versi lo è più del sistema attuale, che nulla riconosce ai cosiddetti incapienti, ossia a chi non guadagna abbastanza da dover pagare le tasse; che la flat tax non sia il demonio, del resto, lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia, che  in una recente intervista al Corriere della Sera, dando prova di notevole onestà intellettuale ha dichiarato: “una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei”. In breve: se si vuole criticare la flat tax, l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica.

Simmetricamente, se la flat tax la si vuole difendere, la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 27 gennaio 2018



Tasse, spese, debito: il triangolo aritmetico ineludibile del voto di marzo

Sciolte le Camere, fissata la data del voto (4 marzo 2018), siamo entrati in campagna elettorale anche ufficialmente. È il tempo delle promesse, o forse sarebbe meglio dire dei sogni, perché la maggior parte di quel che viene promesso è tanto meraviglioso quanto inattuabile.

Prima di volgersi alle promesse, allora, forse è meglio partire dalle premesse, e chiederci quali sono i problemi, o meglio i gruppi di problemi, che questa legislatura lascia aperti. A me pare che siano sostanzialmente tre.

Il primo (non necessariamente il più importante) è quello dei diritti, primo fra tutti quello della cittadinanza per gli stranieri. Pur avendo affrontato molti nodi (fine vita, unioni civili, caporalato, femminicidio, stalking, autismo), la XVII legislatura lascia completamente aperta la questione della cittadinanza italiana agli stranieri (i cosiddetti ius soli e ius culturae). Una questione su cui le opinioni sono divise, ma che andrà affrontata, anziché rimandata sine die per evitare conflitti.

Il secondo gruppo di problemi è quello delle riforme istituzionali. La vittoria del fronte del no al referendum del 4 dicembre 2016 ha bocciato (a mio parere non senza buone ragioni) la proposta di Renzi, ma non ha soppresso la necessità di ammodernare e correggere la Costituzione, un’esigenza peraltro più volte riconosciuta da esponenti del no. Un’esigenza, vale la pena sottolinearlo, che non riguarda solo i limiti del bicameralismo, ma anche il pessimo assetto dei rapporti fra Stato centrale ed Enti locali: il tipo di federalismo imposto dal centro-sinistra nel 2001 con la riforma del titolo V ha condotto sia a una dilatazione della spesa pubblica sia a un rallentamento dei processi decisionali. Dopo quasi vent’anni, è venuto il momento di correre ai ripari.

Ma il gruppo di problemi più importante è, a mio parere, il terzo, ovvero quello delle riforme economico-sociali. Qui non si può dire che nulla sia stato fatto in questa legislatura: 80 euro in busta paga, decontribuzione, Jobs-Act, (lieve) alleggerimento della pressione fiscale su alcune categorie. E tuttavia i problemi fondamentali del Paese sono ancora lì, tutti quanti: il tasso di crescita del Pil e il tasso di occupazione, pur in miglioramento grazie al Quantitative Easing e alla ripresa dell’economia europea, restano fra i più bassi d’Europa; il numero di famiglie che versano in condizione di povertà assoluta è in continuo aumento, anche negli ultimi anni; il debito pubblico resta fra i più alti del mondo, e non ha ancora iniziato a scendere.

Di fronte a questi nodi, tutti e tre i principali schieramenti avanzano le loro proposte per risollevare le sorti del Paese. In materia di lotta alla povertà e di sostegno del reddito si fronteggiano tre formule: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di inclusione (Pd), imposta negativa e aumento delle pensioni minime (Forza Italia). In materia di tasse, se lasciamo da parte l’estrema sinistra, sempre attratta dall’idea di “far piangere i ricchi”, tutti promettono riduzioni fiscali: flat tax al 15% (Lega), flat tax al 23% (Forza Italia), 30 miliardi di tasse in meno (Renzi), revisione delle aliquote Irpef a favore delle fasce dei contribuenti medio-basse (Cinque Stelle).

Se si prova a fare qualche addizione, non si arriva alle cifre denunciate da Renzi nei giorni scorsi, secondo cui il programma del centro-destra costerebbe 157 miliardi e quello dei Cinque Stelle 84, se non altro perché mancano troppi dettagli per fare calcoli attendibili. Però si arriva almeno a capire una cosa: che i conti non tornano, e non possono tornare.

Già nel 2018 l’Italia avrà il problema di disinnescare 20 miliardi di clausole di salvaguardia, ossia di minacciati aumenti dell’Iva. Ci sono poi gli impegni, già assunti con la Commissione europea, di mantenere l’indebitamento netto in prossimità dell’1.6%, un obiettivo che secondo alcuni potrebbe richiedere una manovra correttiva già nella primavera prossima, ovvero appena insediato il nuovo governo.

In una situazione del genere, il fatto che le varie forze in campo promettano di tutto, sia in termini di sussidi a poveri e pensionati, sia in termini di minori tasse, dimostra una cosa soltanto: che, sia pure in misura diversa, un po’ tutti stanno ignorando l’invito del Presidente della Repubblica a fare proposte “realistiche”. E invece quell’invito andrebbe preso molto sul serio. Perché almeno un punto dovrebbe essere chiaro: se vogliono essere una cosa seria, riduzione delle tasse e nuovi sussidi sono possibili solo aumentando ancora, e di molto, il debito pubblico. E, viceversa, se si vuole iniziare a ridurre il debito pubblico, o perlomeno a non farlo ancora aumentare, quelle promesse di nuove spese e minori tasse sono insostenibili.

La realtà è che le tasse, le spese e il debito sono i vertici di un triangolo aritmetico ineludibile: non si possono ottenere risultati su un punto senza pagare un prezzo sugli altri due. Chi lo nasconde, o finge che il problema non sussista, sta ingannando gli elettori. E forse non merita il nostro voto.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 30 dicembre 2017



La battaglia delle tasse

Un tempo era l’Irpef. Negli anni ’90 la sinistra si preoccupava di ridisegnare la curva delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche. Poi vennero Berlusconi e il suo “Contratto con gli italiani”, che al primo punto prometteva due sole aliquote Irpef, una al 23%, l’altra al 33%. E poi venne Renzi, che nel dubbio fra ridurre l’Irap o ridurre l’Irpef, alla fine scelse l’Irpef anche lui: meglio mettere 80 euro in busta paga ai ceti medio-bassi che alleggerire le tasse sulle imprese (Irap e Ires).

Oggi la stagione dell’Irpef, vista come imposta super-star da cui tutto dipende, sembra perdere un po’ dello smalto di un tempo. Un po’ perché tutte le forze politiche si stanno rendendo conto che è sul sistema fiscale e contributivo nel suo insieme che occorre agire, anziché su una singola imposta. Ma un po’, anche, perché le uniche proposte abbastanza precise in campo sono quelle basate su qualche forma di flat tax, o “aliquota unica”, che tenderebbe a unificare, in tempi più o meno rapidi, le principali imposte vigenti, ovvero Irpef (persone), Iva (valore aggiunto), Ires (imposta sulle imprese), nonché le tasse sulle rendite finanziarie. Per non parlare di un ulteriore elemento che spinge verso un approccio sistemico: la crescente consapevolezza che il costo del lavoro è gravato, in Italia, da contributi sociali eccessivi, che fanno lievitare i costi delle imprese e scoraggiano le assunzioni.

In questo quadro in movimento, mi pare si stiano perdendo di vista alcuni elementi di criticità.

Il primo è che qualsiasi proposta di riduzione delle tasse che non abbia potenti coperture dal lato della spesa o da quello delle privatizzazioni significa solo, in buona sostanza, proseguire sul cammino su cui l’Italia è avviata dal lontano 1964, quando, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, nel bilancio pubblico si aprirono le prime crepe: spostare l’onere dell’aggiustamento sulle generazioni future. Su questo l’unica forza politica che sembra avere le idee chiare (o, se preferite, che ha avuto l’onestà di dichiarare le proprie intenzioni) è il Pd: al partito di Renzi va bene fermare la discesa del rapporto deficit/Pil e riportarlo in prossimità del 3% per diversi anni, il che, in concreto, significa che a pagare i nuovi debiti che faremo saranno le future generazioni. Quanto al centro-destra e al Movimento Cinque Stelle è difficile decifrare le loro intenzioni, ma tutto fa pensare che, al momento buono, anch’essi cercheranno di ottenere dall’Europa il massimo della “flessibilità” possibile, dove la parla flessibilità è solo un eufemismo per più deficit e più debito pubblico.

Un secondo elemento di criticità è l’impatto della flat tax, ovvero di un’imposta unica su tutti i tipi di redditi. L’idea che essa sia incostituzionale (perché la nostra Carta fondamentale prevede la progressività) è una scempiaggine, dal momento che tutte le proposte di flat tax in campo sono progressive (grazie a no tax area, deduzioni, scaglioni, ecc.). Ma il timore che essa, in assenza di una adeguata emersione del sommerso, possa allargare la voragine del debito pubblico o costringere a tagli della spesa pubblica assai dolorosi, è tutt’altro che infondato.  Specie se, anziché adottare la già audace (ma ben articolata) proposta dell’Istituto Bruno Leoni, che prevede un’aliquota unica al 25%, ci si spingesse verso un’aliquota del 23% (Forza Italia) o addirittura del 15% (Lega).

Una terza criticità riguarda il sostegno delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, un tema che non può essere eluso da una riforma complessiva del sistema fiscale. Ebbene su questo nessuna forza politica pare aver fatto i conti con un gravissimo problema di giustizia distributiva: calcolare la soglia di povertà in modo nominale, ovvero senza tenere conto del livello dei prezzi (più alto al Nord e nelle città), significa discriminare i poveri delle regioni settentrionali rispetto a quelli delle regioni meridionali, gli abitanti delle città a favore di quelli delle campagne. Fra le proposte in campo, mi pare che solo quella dell’Istituto Bruno Leoni prenda sul serio il problema, ma sfortunatamente il think tank guidato da Nicola Rossi e Alberto Mingardi non è una forza politica.

Ci sarebbe, infine, un’ultima criticità da segnalare. Le proposte fiscali, in Italia, sembrano avere un unico vero scopo: massimizzare il consenso di breve periodo. Non è sempre e ovunque così, nel resto delle economie avanzate. Paesi come gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, stanno puntano molto su una riduzione della pressione fiscale sui produttori, a partire dall’abbattimento dell’imposta societaria (Ires e Irap, nel nostro ordinamento). E lo stanno facendo per una ragione molto semplice: solo così, in un mondo in cui la concorrenza internazionale è sempre più agguerrita, possono pensare di attrarre investimenti esteri e dare una spinta significativa al Pil.

Credo che dovremmo pensarci anche noi, perché l’anomalia degli ultimi 20 anni è che il tasso di crescita del Pil e quello dell’occupazione sono rimasti sostanzialmente appaiati, un fatto che significa una cosa soltanto: la produttività media del sistema Italia è sostanzialmente ferma dalla fine degli anni ’90. Forse, anziché incentivare direttamente le assunzioni, dovremmo chiederci se non sarebbe meglio mettere le imprese nelle condizioni di crescere abbastanza in fretta da costringerle ad assumere. Il risultato, verosimilmente, non sarebbe solo una dinamica dell’occupazione più vivace, ma anche un aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato: che non dipende dalla benevolenza degli imprenditori, ma dalla ragionevole convinzione che domani si dovrà produrre più di oggi.

Pubblicato su Il Messaggero