Flat tax e Iva, la grande ammuina

Prepariamoci. Fino alla fatidica data delle elezioni europee (26 maggio), ma anche dopo – se il governo sopravviverà – siamo destinati ad essere sommersi da una girandola di cifre, aliquote, clausole, scaglioni, detrazioni, deduzioni, sgravi, regimi fiscali speciali o agevolati, con cui cercheranno di acquisire il nostro favore, cioè il nostro voto. Possiamo stare certi che sentiremo decine di ipotesi di “rimodulazione” delle aliquote, innumerevoli dichiarazioni sull’assoluta esigenza di alleggerire il carico fiscale delle famiglie, disinnescare l’aumento dell’Iva, combattere l’evasione, introdurre più o meno rapidamente la flat tax. E poiché, come sempre, mancheranno cifre certe e dettagli essenziali, sarà difficilissimo capire che cosa davvero ci viene gentilmente promesso.
In questa situazione, però, una bussola relativamente chiara c’è. E’ un numeretto semplice-semplice, che non dice tutto sulla politica economica di un governo, ma dice molto. Anzi moltissimo. Questo numeretto è la pressione fiscale, ossia il rapporto fra le entrate totali della Pubblica Amministrazione e il Pil. Se la pressione fiscale diminuisce (come quasi tutti promettono, in campagna elettorale), allora vuol dire che il governo sta dando ossigeno all’economia. Se invece aumenta, allora significa che il governo sta soffocando l’economia. Certo quel numeretto non dice tutto, perché non è la stessa cosa prelevare ai ricchi o ai poveri, alle imprese grandi o a quelle piccole, all’economia regolare (inasprendo le aliquote) o a quella irregolare (costringendo gli evasori a pagare il dovuto). Però resta il fatto che dentro quel numeretto c’è l’essenziale, perché fornisce il segno della politica fiscale.
Il vantaggio di ragionare sulla pressione fiscale, anziché sulle singole misure, è che neutralizza il comando “facite ammuina” che, a giudicare dalle dichiarazioni, dalle interviste e dai tweet, tutti i governi paiono indirizzare ai loro ministri quando le risorse sono scarse rispetto alle promesse. Lo scopo del facite ammuina (confusione, in dialetto napoletano) è inondare l’opinione pubblica di presunte misure di alleggerimento fiscale, senza menzionare le contromisure, anch’esse di natura fiscale, che finanziano e quindi neutralizzano più o meno integralmente le prime. Fra tali contromisure vorrei ricordarne una ovvia e due che lo sono molto di meno.
La contromisura ovvia è l’aumento di altre tasse, di cui si parla pochissimo o si parla ideologicamente, per non dire infantilmente (far piangere i ricchi, punire le banche cattive, ecc.). Le due contromisure meno ovvie sono la cosiddetta lotta all’evasione fiscale e la riduzione delle cosiddette tax expenditures, ossia il disboscamento della selva delle esenzioni, crediti di imposta, deduzioni e detrazioni varie.
Questi ultimi due tipi di misure sono interessanti perché, a prima vista, sono meritorie (e in parte lo sono davvero), in quanto capaci di eliminare iniquità e privilegi. Chi non è d’accordo sul fatto che è ingiusto che il carico fiscale pesi sui contribuenti onesti, e che una miriade di professionisti, artigiani, partite iva, esercizi commerciali, microimprese evadano in tutto o in parte le tasse? Chi non si chiede come mai certe categorie di imprese, associazioni, settori produttivi debbano godere di speciali agevolazioni e sgravi, che sono invece negati ai contribuenti “normali”?
E tuttavia, se ci si riflette attentamente, non è difficile accorgersi dell’altra faccia della luna. Ogni azione di riduzione dell’evasione fiscale e delle agevolazioni, oltre a produrre pesanti riflessi produttivi e occupazionali, comporta inesorabilmente un aumento della pressione fiscale. Questo non significa che non si debba cercare di ridurre evasione e privilegi fiscali ingiustificati, ma che la domanda che dobbiamo farci sempre è del tipo: ok, il tale governo promette una riduzione di una o più imposte, ma si può sapere se, e in che misura, quelle lodevoli riduzioni saranno finanziate, e quindi vanificate, da aumenti di gettito in altri punti del sistema?
Ecco perché, alla fine, il numeretto della pressione fiscale è cruciale. Una riforma dell’Irpef, dell’Irap, dell’Ires o di altre imposte che riduca alcune aliquote e si accompagni anche a una riduzione della pressione fiscale è positiva perché restituisce un po’ di ossigeno all’economia. Una riforma che riduca certe tasse, magari scelte fra le più impopolari, ma aumenti la pressione fiscale è negativa perché soffoca l’economia.
Questa seconda eventualità è, purtroppo, quella in cui siamo incagliati attualmente. Con la legge di bilancio dell’anno scorso, che ora sta dispiegando i suoi effetti, si è deciso di ridurre alcune tasse ma se ne sono aumentate talmente tante altre che la pressione fiscale complessiva è salita (nel 2019 è prevista al 42.4%, contro il 42.0% dell’anno scorso). Per l’anno che viene rischia di andare anche peggio. Mentre si favoleggia di flat tax (che flat comunque non sarà, visto che si parla di 2 aliquote), si cercano disperatamente le risorse (23 miliardi) per evitare l’aumento dell’iva, che questo governo ha messo nella legge di bilancio per evitare la bocciatura dell’Europa. Ma le uniche fonti di finanziamento strutturali ipotizzate sono la spending review (per un importo ridicolo: circa 2 miliardi nel 2020) e il taglio delle cosiddette tax expenditures, ossia delle esenzioni e agevolazioni, un’azione che per definizione fa salire la pressione fiscale: tagliare gli sgravi, infatti, significa precisamente aggravare il peso del fisco sui contribuenti. Le previsioni che circolano, forse fin troppo ottimistiche, ipotizzano un ulteriore aumento della pressione fiscale nel 2020, che salirebbe dal 42.4 al 42.8%. Ma state sicuri che, quel numeretto, si farà di tutto per avvolgerlo con una fitta nebbia, perché rivelarlo significherebbe far crollare il castello di carte della politica fiscale: che consiste nel fingere che tutto cambi, nascondendo il dato cruciale, ossia che complessivamente pagheremo più tasse di prima.
Dunque la cruda realtà è questa. Proprio perché la pressione fiscale aumenterà anche l’anno prossimo, al governo gialloverde non resterà che la consolidata tecnica del “facite ammuina”. E’ facile prevedere lungo quali linee. L’aumento dell’Iva ci sarà, ma sarà presentato come un “rimodulazione”, in modo che non sia troppo evidente che complessivamente l’imposta è aumentata (anche se meno di 23 miliardi, si spera). La cancellazione di sgravi ed esenzioni sarà presentata come una grande operazione di “riordino”, per nascondere il fatto che, anche qui, si chiede agli italiani di pagare più tasse. Infine, per dare l’impressione che sulla flat tax qualcosa si sia cominciato a fare, qualche tassa e qualche aliquota sarà ritoccata verso il basso, naturalmente attingendo al gettito delle tasse che si sono aumentate o degli sgravi che si sono cancellati.
Però attenzione: è molto probabile che le poche aliquote che saranno un po’ alleggerite saranno quelle dell’Irpef, che grava sulle famiglie, e non quelle dell’Ires o dell’Irap, che gravano sulle imprese. Perché la stella polare di chi ci governa, non solo in Italia e non da oggi, è la massimizzazione del consenso. Con un’importante differenza rispetto al passato. Un tempo gli studiosi di politica economica, per segnalare il fatto che, sotto elezioni, le decisioni dei governi diventavano demagogiche, parlavano di “ciclo elettorale”, ossia di un’anomalia che si presentava periodicamente, ogni 4 o 5 anni, in prossimità delle elezioni politiche. Oggi parlare di ciclo elettorale non ha più senso, perché i politici sono sempre in campagna elettorale, a prescindere dall’imminenza di scadenze elettorali. L’idea che, valicato l’appuntamento elettorale, possa esservi, se non un ritorno alla ragione, almeno un allentamento del calcolo del consenso, è completamente fuori della realtà. Ormai i politici sono in campagna elettorale sempre, ogni anno, ogni mese, ogni, giorno, ogni minuto. E la qualità delle decisioni politiche è esattamente quella che, in queste condizioni, è lecito aspettarsi.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 aprile 2019



Manovra, ma il governo giallo-verde vuole durare?

Rispetto alla prima versione, la manovra concordata nei giorni scorsi con Bruxelles introduce essenzialmente tre cambiamenti: meno spesa corrente, meno investimenti pubblici, un po’ più di tasse, con conseguente miglioramento dei saldi (il deficit previsto scende dal 2.4% al 2%, un valore assai prossimo a quello del 2018, ereditato dal governo Gentiloni).

Sulla natura della “manovra del popolo” i pareri sono divisi. C’è chi vi riconosce un cambiamento sostanziale rispetto al passato, nel bene o nel male a seconda dei punti di vista. E chi invece sottolinea che nulla di veramente importante è cambiato: come sempre, le uscite della Pubblica Amministrazione sono di più delle entrate; come sempre, ci sono misure chiaramente elettorali; come sempre, il futuro è costellato di “clausole di salvaguardia” (aumenti automatici di tasse); come sempre, il metodo è quello: mega testo illeggibile, maxi-emendamento del governo, voto di fiducia.

L’unico punto su cui, fra gli analisti indipendenti, sussiste un notevole grado di consenso è che la manovra non è in grado di fornire alcuna spinta all’economia, né tanto meno di fermare la recessione in arrivo. Questa valutazione poggia su tre circostanze obiettive.

Uno. La manovra non è espansiva, perché l’avanzo primario è analogo a quello di quest’anno.

Due. La manovra non stimola la crescita perché non contempla né una riduzione della pressione fiscale sui produttori né un aumento degli investimenti pubblici.

Tre. La manovra, attraverso l’impennata dello spread, ha già innescato molteplici meccanismi pericolosi: maggiori spese dello Stato per il rifinanziamento del debito pubblico; perdite (virtuali) di famiglie e imprese che detengono ricchezza finanziaria; aumento dei tassi sui nuovi mutui; restrizioni (per ora modeste, ma destinate a crescere) del credito a famiglie e imprese.

Assai più controverso è ovviamente il giudizio sulla bontà dei contenuti della manovra, al di là dello loro capacità di stimolare la crescita. Su questo è impossibile dire qualcosa di ragionevolmente obiettivo, perché ognuno di noi ha priorità diverse, oltreché – spesso – una concezione diversa delle conseguenze delle misure governative. Per parte mia, se dovessi qualificare la manovra con un solo aggettivo, userei l’aggettivo “elettorale”. Anzi, se avessi a disposizione anche un avverbio, direi “smaccatamente elettorale”. Da questo punto di vista la cosiddetta manovra del popolo e il governo che l’ha concepita rappresentano davvero una rottura con il passato. Una rottura che è assoluta rispetto al governo Monti, forse il governo meno elettorale della storia repubblicana, ma che, in parte (e contro le apparenze), è tale anche rispetto ai governi Renzi e Gentiloni.

E’ vero, hanno perfettamente ragione quanti, di fronte alla mossa di varare reddito di cittadinanza e quota 100 a poche settimane dal voto europeo 2019, ricordano l’analoga mossa di Renzi nel 2014, con il bonus da 80 euro calato nelle buste paga giusto prima dell’appuntamento europeo 2014. Così come hanno ragione quanti ricordano gli innumerevoli bonus e misure varie che a quella mossa seguirono nei gloriosi anni del centro-sinistra. E ancor più ragione hanno quanti sottolineano un altro elemento di continuità, ovvero la cattiva abitudine di ipotecare il futuro con clausole di salvaguardia (aumenti di tasse), che tranquillizzano Bruxelles e riducono i gradi di libertà dei governi che verranno.

E tuttavia una differenza, un salto di qualità e di quantità, fra la manovra del popolo e le manovre del passato recente, a mio parere c’è. Lo riassumerei così: dopo Monti, tutte le manovre hanno avuto dosi di elettoralismo considerevoli, e tutte hanno fatto ricorso alle clausole di salvaguardia, ma solo ora, con la “manovra del popolo”, quasi tutte le misure sono di tipo elettorale, e la macchina delle clausole di salvaguardia prosciuga completamente gli spazi di manovra dei governi futuri.

La differenza più importante con il passato riguarda il mondo dei produttori. Nelle manovre degli ultimi 4-5 anni, accanto alle misure di stampo prevalentemente elettorale, erano presenti misure rilevanti di sostegno alla crescita, dalla decontribuzione agli sconti fiscali, dal Jobs Act ai provvedimenti di Industria 4.0. Oggi non solo scarseggiano le nuove misure in favore dei produttori, ma si fa marcia indietro su quasi tutte le misure varate nel recente passato: soppressione dell’ACE (Aiuto alla crescita economica); mancato decollo dell’IRI (Imposta sul Reddito Imprenditoriale); ridimensionamento di Industria 4.0 (poi divenuta Impresa 4.0); indebolimento del Jobs Act (attraverso il cosiddetto Decreto dignità); nuove tasse sulle imprese, sulle società finanziarie e sulle banche; per non parlare dello stop imposto a tante grandi opere. Detto in altre parole, il saldo fra le nuove misure pro-imprese (come la mini flat tax sulle partite Iva) e le vecchie misure soppresse o modificate è drammaticamente negativo. Di qui il malcontento che, da qualche mese, comincia a serpeggiare soprattutto nel Nord, dove anche l’elettorato leghista non capisce perché smontare la legge Fornero sia diventato, improvvisamente, molto più importante che varare la flat tax.

L’altra grande differenza con il passato è l’entità delle clausole di salvaguardia, praticamente raddoppiate rispetto alle leggi di bilancio degli ultimi anni. Una zavorra enorme per qualsiasi governo futuro, compreso il governo gialloverde, che già nell’autunno prossimo dovrà ingegnarsi a trovare 23.1 miliardi per non aumentare l’Iva e altre tasse.

Ecco perché, tornando alla questione posta all’inizio (fu vero cambiamento?), la mia risposta è che sì, la manovra del popolo è diversa da quelle del passato, ma la ragione principale per cui lo è non è che cambia direzione, bensì che accentua i due principali difetti delle manovre dei governi precedenti: troppe misure elettorali, abuso delle clausole di salvaguardia. Il che, forse, rende più attuale che mai l’interrogativo posto nei giorni scorsi dall’ex premier Paolo Gentiloni: il governo Conte intende durare, o dà per scontato che la sua pesante eredità – economia ferma & clausole di salvaguardia –dovrà gestirla qualcun altro?

 




Attenti alla rabbia secessionista: intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, riprendendo la mappa giallo-blu (grillini e centrodestra) dell’Italia uscita dalle elezioni del 4 marzo, balza agli occhi che se andasse in porto l’ipotesi di un governo giallo-rosso (M5S-Pd) un pezzo del Paese rischierebbe di essere tagliato fuori, è così?

Sì, il Nord si sentirebbe ulteriormente tosato, e prenderebbe assai male qualsiasi cosa che venisse battezzata “reddito di cittadinanza”. Anche perché i calcoli statistici mostrano che circa l’80% dei sussidi ai poveri finirebbero a due soli gruppi sociali: i cittadini meridionali e gli immigrati.

Secondo la Lega non solo sarebbe esclusa la coalizione che ha preso più voti, un centrodestra che per la verità ora appare diviso, ma il Nord Italia ribollirebbe. E’ una minaccia concreta?

Sì, un governo Pd-Cinque Stelle farebbe resuscitare istanze anti-fiscali e separatiste.

Quale governo potrebbe dare risposte più consone a quelle che lei giudica le priorità politico-economiche del Paese?

Il governo meno dannoso per l’Italia sarebbe un governo che promuovesse una rivoluzione liberale, soprattutto in campo fiscale, e al tempo stesso non spaventasse l’Europa e i mercati finanziari. In termini politici: un governo di grande coalizione destra-sinistra, come in Germania, con la destra che guida la politica economica e la sinistra che le impedisce di esagerare.
Peccato che una simile alternativa, pur avendo più numeri di tutte le altre (a parte ovviamente il governo di tutti senza il Pd), sia l’unica che il nostro Presidente della Repubblica non pare avere alcuna intenzione di esplorare.

Andando con ordine, dal punto di vista fiscale se venisse archiviata l’ipotesi Flat tax e, al contrario, si procedesse nella direzione del reddito di cittadinanza che ripercussioni ci sarebbero per il Settentrione?

Un po’ più di tasse, e tanta rabbia di chi il reddito se lo guadagna lavorando duramente.

Il reddito di cittadinanza è destinato al fallimento come per esempio è successo in Finlandia?

No, può benissimo essere varato, purché l’Italia accetti di continuare sul sentiero di declino su cui è avviata da 25 anni: “dimagrire insieme, dimagrire tutti” potrebbe essere la nuova frontiera. Ci piace una prospettiva del genere?

Salvini, che nelle regioni locomotiva del Paese, tocca punte percentuali tra il 30 e il 40%, ha sbagliato secondo lei a smorzare le ragioni autonomistiche a vantaggio di una politica nazionale?

No, egoisticamente ha fatto benissimo, era l’unico modo per non restare un partito territoriale. Il problema è che, con un governo Pd-Cinque Stelle, le ragioni autonomistiche del Nord sono destinate a risorgere da sé, senza bisogno di una Lega che le promuova.

Le regioni del Nord registrano un Pil pro capite medio superiore alla media europea. Moody’s ha appena confermato il rating della Lombardia su un gradino superiore a quello dell’Italia. Perché siamo ancora alla Questione meridionale, mentre anche la Spagna ci supera?

Perché la Questione meridionale abbiamo sempre preteso di affrontarla con poco Stato dove serviva (mafia, criminalità, evasione fiscale, assenteismo, inefficienza della sanità e della scuola), e con troppo Stato dove era meglio farne a meno (sussidi, clientele, finti posti di lavoro).

Popolo delle partite Iva e piccole imprese contro dipendenti pubblici. E’ ancora corretto pensare all’Italia spaccata a metà sulla base di queste categorie produttive?

No, non è corretto. Adesso la frattura sanguinosa sarà fra chi lavora e chi vive del lavoro altrui.

Un patto di governo grillino-leghista potrebbe mettere assieme le esigenze del Nord e del Sud o non è realistico?

Non lo si può escludere a priori, perché comunque il Sud ha le sue ragioni e il Nord pure, però ci vorrebbero De Gasperi e Di Vittorio, non Di Maio e Salvini.

Il Pd, che da Roma in giù il 4 marzo non ha vinto nemmeno una sfida diretta, sarebbe secondo lei malvisto dagli elettori del Sud nell’ipotesi di governo giallo-rosso?

No, credo che in tal caso il Pd sarebbe visto meglio di oggi, ma solo perché accodato ai Cinque Stelle, ossia all’unico partito che ha mostrato di prendere sul serio le rivendicazioni dei cittadini meridionali. In compenso verrebbe cancellato dalla geografia politica del Centro-Nord.

Intervista a cura di Marcella Cocchi pubblicata su QN Quotidiano Nazionale il 26 aprile 2018



Lega e Cinque Stelle, programmi incompatibili?

Buio totale. È passato quasi un mese dal voto e nessuno è in grado di dire se avremo un nuovo governo, o invece si tornerà alle urne. Quel che si comincia a intravedere, tuttavia, è che potrebbe, e il condizionale è d’obbligo, nascere un governo Cinque Stelle-Lega. Questa alternativa pare meno inverosimile delle altre.

Le ragioni per cui questa appare l’eventualità meno improbabile sono diverse. La prima è che, a quanto pare, il Centro-destra non ha alcuna volontà di restare unito, e di cercare in Parlamento i voti di cui ha bisogno, che sono molti di meno di quelli che occorrono ai Cinque Stelle. Se davvero avesse intenzione di restare unito, farebbe valere il fatto di essere risultato la coalizione con il maggior numero di voti (37.5% contro il 32.2% dei Cinque Stelle), e si presenterebbe con una delegazione unica al colloquio con il Presidente della Repubblica. Invece pare di no, andranno separati. Misteri della politica (almeno per me).

C’è anche un’altra ragione per cui un governo Di Maio-Salvini è meno improbabile di altre soluzioni. Ed è che l’unica alternativa numericamente possibile, ossia un governo Cinque Stelle-Partito democratico, pur essendo vagheggiata da molti (compresi Franceschini e Orlando, secondo i rumors dei giorni scorsi), sarebbe profondamente divisivo per il Pd. Se anche i nemici di Renzi dovessero avere la meglio, eventualità che nel clima restaurativo attuale non è da escludere, resterebbe, come freno, la necessità di evitare una sanguinosa spaccatura del Pd, un partito che tutto può permettersi tranne che di dividersi in un troncone governativo e uno di opposizione.

Supponiamo dunque che il governo Di Maio – Salvini, magari presieduto da un premier meno divisivo, veda la luce. Starebbe insieme un simile governo?

A giudicare dai programmi, si direbbe proprio di no. Flat tax e reddito di cittadinanza sono due ricette di politica economica opposte. La prima punta a rilanciare la crescita, puntando su ingenti sgravi fiscali sui produttori, prevalentemente insediati nel Centro-Nord. Il secondo punta ad attutire le conseguenze della mancata crescita, puntando su sussidi ai poveri, prevalentemente insediati nel Sud. A queste difficoltà si aggiunge la circostanza che quel che unisce Salvini e Di Maio, ovvero la ferma volontà di sfondare la barriera del 3%, non potrà che attirarci l’ostilità delle autorità europee e, presumibilmente, la diffidenza dei mercati. Per non parlare dell’ostacolo più prosaico: il nuovo governo dovrà trovare subito 12 di miliardi di euro per disinnescare l’aumento automatico dell’Iva, e forse altri 2-3 miliardi per non incorrere in una procedura di infrazione per deficit eccessivo.

E tuttavia…

Tuttavia ci sono discrete possibilità che questi ostacoli siano superati. Intanto perché se in qualcosa i politici non hanno rivali, è nel manipolare il racconto che fanno ai comuni cittadini (che poi i manipolati ci caschino, è un altro paio di maniche, e si scoprirà vivendo). Ne abbiamo già avuto parecchie avvisaglie in questi giorni. Dopo i proclami di assoluta incompatibilità, e dopo le promesse più avventate, verrà il tempo degli aggiustamenti. Salvini ha già cominciato ad aprire sul reddito di cittadinanza, purché sia “uno strumento per reintrodurre nel mondo del lavoro chi oggi ne è uscito”. Toninelli, capogruppo Cinque Stelle al Senato, ha già aperto sulla flat tax, purché sia “costituzionale” e “includa i poveri”. Per non parlare della legge Fornero, sulla cui abolizione o superamento i due partiti sono d’accordo fin da prima del voto.

Non è tutto però. A favore di un governo Cinque Stelle-Lega militano anche fattori, per così dire, paradossali. Uno è l’irrealizzabilità del programma. Sia per la Lega sia per i Cinque Stelle, un governo di coalizione, che limiti il potere del partner, è la migliore assicurazione contro il risentimento degli elettori traditi. Quando, fra qualche tempo, si scoprirà che la flat tax al 15% era una bufala, Salvini dirà che la colpa è di Di Maio, che ha frenato. E quando i cittadini del Sud si renderanno conto che il reddito di cittadinanza effettivamente attuato dal nuovo governo non vale molto di più del reddito minimo introdotto a suo tempo da Renzi e Gentiloni, Di Maio avrà buon gioco a dire che la colpa è di Salvini, che ha sempre remato contro.

Infine, un altro fattore paradossale che può, almeno all’inizio, favorire la nascita di un governo Cinque Stelle – Lega è il patriottismo anti-europeo. Proprio l’ostilità delle autorità europee a un esecutivo “populista” potrebbe essere un forte elemento di coesione di un governo esplicitamente schierato contro la “burocrazia di Bruxelles”. Un esito, questo, lungamente preparato da una stagione di demagogia anti-austerity che ha coinvolto quasi tutte le forze politiche, compreso il Pd renziano.

Poco male, se dovessimo solo incontrare le resistenze delle sempre più deboli, e meno autorevoli, “autorità europee”. Ma malissimo se, sull’onda dei rimproveri dell’Europa, del declassamento delle agenzie di rating, e di un repentino deterioramento dei conti pubblici, dovessimo incontrare l’ostilità dei mercati, che ogni anno ci prestano svariate centinaia di miliardi per rinnovare i titoli del nostro debito pubblico.

Il 2011 magari non si ripeterà, perché la storia non si ripete mai identica a sé stessa. Ma qualcosa dovrebbe averci insegnato.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 marzo 2018



L’Italia dopo il voto del 4 marzo: intervista a Luca Ricolfi

«È molto probabile che, la sera del voto, non avremo la minima idea di che governo si potrà insediare da lì a qualche settimana»: previsione di Luca Ricolfi, datata 3 marzo. Sociologo, docente di Analisi dei dati all’università di Torino, editorialista del Messaggero, osservatore tra i più lucidi delle cose della politica, allergico agli sconti a destra come a sinistra (vedi le sue analisi sul sito della Fondazione David Hume). Ci siamo rivolti a lui per interpretare le più clamorose elezioni anti establishment degli ultimi decenni e tracciare qualche scenario futuro.

Per trovare un altro risultato così dirompente bisogna tornare al 1994. Allora iniziò la Seconda repubblica, sta nascendo la Terza?

«No, stiamo tornando alla Repubblica “di mezzo” (fra la prima e la seconda), quella che è esistita fra le elezioni politiche del 1992 e le elezioni del 1994, al tempo in cui tutto cominciò a cambiare, grazie al referendum sulla preferenza unica, a Mani pulite, all’esplosione della Lega, alla nuova legge elettorale (il compianto Mattarellum). Non tutti lo ricordano ma, allora, gli studiosi di comportamenti elettorali congetturarono che l’Italia fosse ormai divisa in tre: la Padania, egemonizzata dalla Lega (Forza Italia non era ancora nata), l’Etruria, egemonizzata dal Pds, il Mezzogiorno, ancora saldamente in mano alla Dc. Oggi la carta geopolitica è tornata a essere quella di allora, con i 5 stelle al posto della Dc».

Quali sono i fattori di maggior novità del voto del 4 marzo?

«C’è molta più chiarezza di prima: il Centronord vuole proseguire sulla via della modernizzazione del Paese, timidamente intrapresa in questi anni, ma lo fa con sensibilità diverse, rappresentate dal centrodestra e dal Pd. Il Sud vuole continuare a sussistere nell’unico registro che un ceto dirigente irresponsabile è stato in grado di prospettargli: assistenza, assistenza, assistenza».

Concorda con chi sostiene che le urne ci consegnano un’Italia geograficamente e socialmente bipolare: nel Sud della disoccupazione e della povertà ha vinto il M5s, nel Nord dove si teme per la sicurezza ha vinto la Lega.

«Concordo, ma solo in parte. Oggi il voto del Nord sembra ad alcuni soprattutto anti-immigrati, ma a mio parere esprime invece, molto di più, l’ennesima rivolta antifisco e anti burocrazia».

Sarà difficile mantenere le promesse di flat tax e reddito di cittadinanza. È per questo che, sotto sotto, né Lega né M5s smaniano di governare?

«Non so se davvero esitano, a me sembrano piuttosto smaniosi entrambi. Il mancato mantenimento delle promesse penso sia messo in conto da tutti, tanto basterà dire: noi volevamo ma gli alleati, ma l’Europa, ma la situazione, eccetera eccetera».

Si è votato in marzo, quando non ci sono sbarchi d’immigrati.Se si fosse votato in maggio, la Lega avrebbe superato anche il Pd di Matteo Renzi?

«L’ho sostenuto in un’intervista a Sky pochi giorni fa. Votare a marzo ha attutito i danni subiti dal Pd, checché ne dica Renzi, che si è lamentato di non aver potuto votare prima: se si fosse votatola primavera scorsa non avrebbe potuto giocare la carta Marco Minniti».

Che però, a sorpresa, è stato sconfitto.

«Il fatto ha stupito anche me, ma forse io ho un pregiudizio positivo nei confronti di Minniti, che mi pare uno dei pochissimi ministri che sanno di che cosa parlano».

Con Lega e M5s è nato anche un nuovo bipolarismo politico che sostituisce quello composto da Forza Italia e Pd, ora residuali?

«No, il sistema per ora è quadripolare e instabile. Lega e M5s rappresentano solo la dialettica interna alle forze antieuropee. Un vero bipolarismo richiederebbe il compattarsi di due aggregazioni più ampie e robuste: ad esempio centrodestra contro mutanti».

Chi sono i mutanti?

«Pd e 5 stelle, Organismi politicamente modificati (Opm) costruiti a partire dal ceppo antico del socialismo e del comunismo».

Un ceppo che germoglia sempre meno. La sinistra è in declino dovunque in Occidente. La crisi di quella italiana ha fattori specifici più gravi?

«La sinistra non è affatto in declino, semplicemente sta assumendo forme che i media (e pure gli studiosi, devo ammettere) si rifiutano di riconoscere per quello che sono. Quella che continuiamo a chiamare sinistra è semplicemente la sinistra ufficiale, ovunque amata e votata dai ceti medi riflessivi, istruiti e urbanizzati, e dal mondo della cultura. Ma esiste anche un’altra sinistra, trasgressiva e populista, prediletta dai giovani e da una parte dei ceti popolari, che si esprime in forme nuove: Podemos in Spagna, Syriza in Grecia, 5 stelle in Italia, France insoumise oltralpe, per citare i casi più importanti. Quel che sta succedendo è che, in molti paesi, tranne il Regno Unito, la sinistra populista sta diventando più forte di quella ufficiale, riformista, benpensante, assennata e politicamente corretta».

Com’è possibile che non ci si interroghi sul fatto che il Pd tiene nei centri storici e scompare nelle periferie e tra i lavoratori?

«Me lo sono chiesto anch’io, e ne è venuto fuori un libro (Sinistra e popolo, Longanesi 2017). Però la vera domanda forse è anche quest’altra: perché del problema ci accorgiamo solo ora visto che il distacco fra sinistra e popolo è in atto da almeno 40 anni?».

Augusto Del Noce diceva che il partito comunista sarebbe diventato un grande partito radicale di massa.L’apparentamento con Emma Bonino ne è stata l’ultima piccola conferma?

«Sì, quello di partito radicale di massa è un concetto che descrive a pennello l’evoluzione del comunismo dal Pci al Pd renziano. Ne parla anche Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (Imperdonabili, Marsilio 2017). Il Pd è diventato una sorta di macchina per proclamare diritti, e anche un rifugio identitario per i ceti alti e medi, bisognosi di impegno per espiare la colpa di non essere poveri. Una mutazione che l’alleanza con la Bonino ha reso evidente, per non dire plateale. Ma a questo tipo di evoluzione (o involuzione?) ha contribuito anche una certa dose di stupidità autolesionista, una quasi inspiegabile incapacità di capire il punto di vista della gente comune: come si può pensare, nell’Italia di oggi, di attirare consensi con l’antifascismo e lo ius soli? Se ci fossero pulsioni fasciste e nostalgiche Casa Pound e Forza Nuova avrebbero avuto un risultato decente, non i pochi decimali (0.9 e 0.37%) che qualsiasi simbolo buttato sulla scheda finisce per raccogliere».

Che responsabilità hanno gli intellettuali nel distacco tra la classe dirigente del Pd e la sua area tradizionale di riferimento?

«Negli ultimi 30 anni, intellettuali e mondo della cultura molto si sono preoccupati di veder rappresentati loro stessi e i loro interessi, e pochissimo di convincere il Pd a rappresentare anche i ceti popolari. Questa è una delle differenze fra Prima e Seconda repubblica: gli intellettuali della prima pretendevano di conoscere meglio dei dirigenti del Pci quali fossero i veri interessi della classe operaia; a quelli della seconda è premuto assai di più che gli eredi del Pd rappresentassero il loro mondo incantato. Ci sono riusciti benissimo».

Che giudizio dà di Renzi come amministratore, comunicatore e stratega politico?

«Non voglio infierire, l’ho già criticato a sufficienza in questi anni. Anzi, voglio dire che, se solo avesse fatto meno il bullo e avesse provato ad ascoltare chi lo criticava stando dalla sua parte, oggi ricorderemmo le non poche buone cose che ha fatto, dal Jobs act a industria 4.0. Il dramma dell’Italia è che questo modesto Pd è pur sempre la miglior sinistra disponibile sul mercato, visto quel che offrono 5 stelle e Leu».

Cosa pensa dell’esperienza di Liberi e uguali? A chi è maggiormente attribuibile la colpa della scissione?

«Un’operazione politica penosa, nei contenuti e nelle persone. Quello che non capisco è perché abbiano scelto come capo una figura scolorita come quella di Pietro Grasso: chiunque altro, tranne forse il demonizzatissimo Massimo D’Alema, avrebbe portato a casa più voti. Quanto alla scissione, non so se è stata una colpa, forse è stata un atto di chiarezza».

Quanto il successo di M5s e Lega complica il rapporto con l’Europa?

«Meno di quanto si pensi. Noi continuiamo a fare uno sbaglio: pensare che il problema siano le autorità europee. No, il problema sono i mercati, come si è visto nel 2011, quando le autorità europee lodavano Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi, e sono bastati tre mesi di impennata dello spread per capovolgere tutto».

Che scenario intravede? Se la sente di fare delle percentuali dei possibili governi?

«No, non me la sento. Credo che molto dipenderà dal Pd, ovvero da quanti Pd vi saranno fra qualche mese. Se ve ne sarà uno solo, non si potrà che tornare al voto. Se ve ne saranno due, vedremo se la spunterà quello assistenzialista, che vuole dare una mano al sud (e ai 5 stelle), o quello sviluppista, che vuole dare una mano al Centronord (e quindi al centrodestra)».

Quanto un governo a guida Di Maio con il sostegno del Pd aggraverebbe il bilancio dello Stato?

«Molto, perché anche il Pd è tentato dalla spesa in deficit».

Dobbiamo rassegnarci all’ennesimo governo del Presidente?

«Speriamo di no, abbiamo già dato. E poi Sergio Mattarella mi pare più arbitro di Giorgio Napolitano, che era chiaramente un giocatore in campo».

Quali sono le prime riforme che suggerirebbe al nuovo governo?

«Sgravi fiscali sui produttori, alimentati da una lotta senza quartiere contro gli evasori totali».

Che cosa consiglierebbe a Silvio Berlusconi che si chiede «adesso dove si va»?

«Di decidersi a scovare un successore».

Se si rivotasse entro un anno le tendenze del 4 marzo uscirebbero radicalizzate o ridimensionate?

«Dipende: se nel frattempo non succede nulla avremo un Parlamento fotocopia. Ma qualcosa succederà. Basta che non sia un nuovo 2011».

Intervista di Maurizio Caverzan per La Verità del 12 marzo 2018