A proposito di Elodie – Lotta al patriarcato?

Che le foto sexy di Elodie suscitassero un po’ di brusio non è stupefacente. Succede quasi sempre quando qualcuno esce dal seminato. Se una cantante/modella fa l’intellettuale la cosa non passa sotto silenzio. Ma vale anche l’inverso: pensate se
un’illustre magistrata anti-mafia apparisse sulla copertina di Play Boy.

Nel caso di Elodie, quel che ha fatto scalpore è l’accostamento fra alcune immagini di lei seminuda e le reiterate dichiarazioni di femminismo, difesa della libertà delle donne, lotta al patriarcato, eccetera. Il tutto reso più pepato da una dichiarazione ostile verso Giorgia Meloni: “come può non accorgersi di lavorare per gli interessi degli uomini?”.

Trascuro le sofisticate argomentazioni in base alle quali Elodie ritiene che posare per il calendario Pirelli sia un modo di “usare la propria libertà di espressione”, e che questa sia “una lotta giusta” (in effetti lo sarebbe se qualcuno le impedisse di farlo, e sarebbe addirittura eroico se provasse a farlo in Iran o in Afghanistan). Ma lasciamo perdere. Quello che invece vorrei fare qui è raccontare come le cose possono apparire a un sociologo o a uno psicologo sociale.

La prima cosa che salta agli occhi di un sociologo è la credenza che, nelle società occidentali, esista e sia dominante il patriarcato. Se non ci fossero di mezzo la politica e l’ideologia, nessuno studioso serio si azzarderebbe mai a usare una categoria interpretativa così inappropriata e inattuale. È dal 1963, ossia da quando Alexander Mitscherlich pubblicò il suo profetico libro Verso una società senza padre, che sappiamo che le società occidentali sono caratterizzate dalla progressiva estinzione della figura paterna.
Oggi quel processo è ampiamente compiuto. Siamo diventati una società senza padri né maestri, nella quale tutte le figure che incarnavano l’autorità e il comando, dal padre all’insegnante, dal poliziotto al giudice, dal prete al ministro, hanno perso ogni
prestigio e autorevolezza.

Che senso ha, allora, parlare di patriarcato?

La risposta, verosimilmente, è che chi parla di patriarcato in realtà intende qualcos’altro, che trova comodo etichettare in quel modo. Questo qualcos’altro è la permanenza di modelli culturali, abitudini mentali, atteggiamenti e comportamenti che erano tipici dei maschi quando la società era davvero patriarcale, e che oggi sopravvivono a dispetto della scomparsa del padre. Il loro nucleo profondo non è l’autorità padre-padrone (come nell’Islam), ma la concezione della donna, vista come oggetto sessuale che, in ossequio ai gusti maschili, deve conformarsi a determinati standard e modelli di bellezza.

La realtà è che la nostra è diventata, molto più che in passato, una società ossessionata dal sesso, in cui quasi ogni cosa – messaggio, pubblicità, immagini, testi, spettacoli – ruota intorno al corpo femminile e, più o meno esplicitamente, al desiderio maschile. Buona parte della nostra economia si basa, in modo più o meno diretto, sull’esibizione del corpo della donna, formidabile macchina per vendere prodotti, servizi, fantasie e sogni.

Le donne lo sanno meglio di chiunque altro, e più di chiunque altro ne soffrono. Lo ha spiegato bene la sociologa anglo-libanese Catherine Hakim nel saggio Erotic capital (2010), e nel libro Honey Money (2012), che consentono di mettere a fuoco tre cose. Primo, non esistono solo il capitale economico, il capitale culturale e il capitale sociale (come credeva il grande Pierre Bourdieu), ma esiste anche il capitale erotico. Secondo, la maggior parte delle donne sono impegnate nella manutenzione e nell’impiego ottimale del loro capitale erotico. Terzo, il capitale erotico è una delle risorse più iniquamente distribuite.

Ed eccoci al punto. La gestione del capitale erotico è una formidabile fonte di diseguaglianza fra le donne, oltreché un insperato omaggio ai non sempre casti appetiti maschili. Certo, si può ben capire che chi è al top nella scala della bellezza si dia da fare per valorizzarla ulteriormente, anche sul piano economico e del potere.

Ma come non vedere gli effetti collaterali di questi modi di esercitare la propria sacrosanta “libertà di espressione”?

Nell’era dei social e della circolazione delle immagini una ragazza si trova a combattere su due fronti: da un lato, deve fare i conti con i media, che le propongono a getto continuo modelli di bellezza stereotipati e irraggiungibili, dall’altro deve fronteggiare la pressione dei maschi – coetanei e non – che si industriano a farle credere che fare sexting (trasmettere immagini sessualmente esplicite) sia assolutamente normale. Una trappola che può anche gratificare la minoranza fortunata ad elevato capitale erotico, ma alimenta frustrazione e senso di inadeguatezza in tutte le altre. Su questo, grazie soprattutto agli psicologi sociali americani, esiste ormai una evidenza empirica schiacciante, che riguarda tutti i paesi occidentali, compresa l’Italia: la competizione sui social, decollata inesorabilmente a partire dal 2010 (nascita dell’iPhone 4), è una fonte permanente di frustrazione, depressione, ansia, vissuti di inadeguatezza, comportamenti autolesionistici e suicidari che colpiscono innanzitutto le ragazze, e in particolare quelle delle ultime due generazioni (z e alpha).

Tornando a Elodie, non si può non riconoscerle il pieno diritto di usare il suo corpo come meglio crede, e di esporre il capitale erotico di cui la natura l’ha dotata alla vista di tutti, a partire dai maschi, tuttora i più sensibili al “bene effimero della bellezza”, come cantava Fabrizio De André in Bocca di rosa.

Resterebbe solo da girare a Elodie la stessa la domanda che lei ha rivolto a Giorgia Meloni: “come può non accorgersi di lavorare per gli interessi degli uomini?”.

[Articolo uscito sul Messaggero il 18 agosto 2024]




A proposito del caso Khelif – Il silenzio delle femministe

Credo che molti avranno seguito il caso della nostra pugile Angela Carini, che alle Olimpiadi di Parigi ha abbandonato il ring dopo 46 secondi per la durezza dei colpi ricevuti dall’algerina Imane Khelif, pugile intersessuale affetta (a quel che si è appreso) da iperandrogenismo, che comporta una iperproduzione di ormoni maschili.

La sua storia è interessante e coinvolgente, ma forse ancora più interessante è il modo con cui della vicenda si è parlato sui giornali, sui media, sui social. Intanto, colpisce il fatto che quasi tutti abbiano espresso un’opinione, nonostante nessuno di coloro che sono intervenuti pubblicamente avesse accesso alla cartella clinica dell’algerina, e quasi nessuno avesse le competenze mediche necessarie per formulare valutazioni. Colpisce ancora di più il fatto che il giudizio su una questione così delicata e complessa sia dipeso quasi interamente dai posizionamenti politico-ideologici. Gli esponenti della destra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era iniquo. Gli esponenti della sinistra si sono mossi quasi tutti come se fosse evidente che il combattimento era equo.

Ma forse l’aspetto più istruttivo di questa vicenda sono i problemi di coerenza logica che sono venuti a galla. Uno su tutti: la natura della distinzione maschi-femmina a livello biologico. Su questo fra gli ideologi della teoria gender coesistono due
posizioni difficilmente conciliabili: da un lato si sostiene che il sesso è un costrutto sociale, e che maschio e femmina sono solo due poli fra i quali esistono infinite gradazioni intermedie, di cui le persone intersessuali sono testimonianza vivente; dall’altro si afferma in modo categorico che la pugile Imane Khelif è una donna, e quindi può senz’altro gareggiare nelle competizioni femminili.

Ma le due affermazioni sono logicamente incompatibili. Se davvero il sesso è un continuum (come l’altezza o il peso), allora è inevitabile dedurne che per trasformare questo continuum in un attributo dicotomico (maschio/femmina) occorrono delle
procedure di misurazione e delle soglie. La questione non è più se Khelif sia o no una donna, ma se si avvicini a sufficienza al polo femminile per essere ammessa in una competizione femminile. E si noti che, se si accetta la teoria del continuum, allora –
in linea di principio – al medesimo test dovrebbero essere sottoposti anche i maschi. Se ad esempio l’unico criterio fosse il testosterone, dovremmo assicurarci che le concorrenti nelle gare femminili non ne abbiano troppo, ma anche che i concorrenti a
quelle maschili ne abbiano a sufficienza.

Come si vede, accettare il principio che il sesso biologico non esiste e che esistono innumerevoli stati intermedi pone più problemi di quanti ne risolva. Sfortunatamente, però, non esistono scorciatoie. Nel momento in cui il peso demografico delle persone
transessuali aumenta, e si prende coscienza dell’esistenza di persone intersessuali, è inevitabile che si ponga il problema dei criteri di inclusione.

Il punto, però, è che questo problema si pone solo su un versante del continuum. Nessun intersessuale e nessun transessuale FtM (maschio transito a femmina) chiede di gareggiare con i maschi. Quindi, di fatto, il problema riguarda solo il lato donne.
Sono le donne-donne, il cui sesso biologico è inequivocabilmente femminile, che pagano il prezzo dell’inclusione. Criteri troppo laschi di ammissione alle competizioni femminili violano il principio sportivo della equità delle gare. Ma criteri
troppo stretti entrano in conflitto con l’ideale dell’inclusione, che ha potentemente informato le Olimpiadi di Parigi.

Come se ne esce?

Secondo la sinistra ideologica e buona parte della lobby LGBT+, l’inclusione è molto più importante dell’equità della gara, e le donne-donne dovranno farsene una ragione. Secondo la destra, la cosa più importante è l’equità della gara, e sono transessuali e intersessuali che dovranno farsene una ragione. In mezzo, per fortuna, ci sono anche posizioni ragionevoli, come quelle di Paola
Concia (ex deputata Pd e attivista LGBT) che, in un’intervista rilasciata nei giorni delle Olimpiadi, deplora che i criteri di ammissione cambino a seconda dei comitati e delle federazioni sportive, e paragona l’eccesso di testosterone al doping, usato in passato dalle atlete sovietiche. E infine conclude: “non è possibile, sull’altare del politicamente corretto e dell’inclusione, sacrificare le donne. Perché poi, alla fine, quelle danneggiate sono le donne. Io dico: va bene, tutto sta cambiando, ci sono casi nuovi, persone trans, intersex, in transizione, ma troviamo un modo per cui alla fine non ci rimettano le donne”.

Già, le donne. È proprio questa la nota dolente. Di fronte alla vicenda delle due pugili, le principali organizzazioni femministe italiane – Se non ora quando e Non Una di Meno – hanno scelto il silenzio. Nessuna dichiarazione, nessuna intervista,
nessun messaggio su internet. Né sostegno a Khelif, né sostegno a Carini, né solidarietà a entrambe.

Come mai?

Forse è stato solo un segno di rispetto. Ma forse è la presa d’atto che, sempre più spesso, inclusione significa invasione degli spazi delle donne: una deriva che piace a poche, ma di cui quasi nessuna trova il coraggio di parlare.

[articolo uscito sulla Ragione il 5 agosto 2024]




Macron transfobico?

Chi la fa l’aspetti, verrebbe da dire. A forza di proclamare nuovi diritti, finisce che trovi uno che ne proclama più di te. E ti ritrovi a passare per reazionario-retrogrado-maschilista-nemico delle minoranze.

È quel che è successo a Emmanuel Macron la settimana scorsa, quando ha osato dire che la proposta del Fronte Popolare di sinistra di permettere il cambio di sesso/genere con una semplice visita agli uffici comunali era “grottesca” (ubuesque). Tanto gli è
bastato per finire alla gogna, con l’infamante (per un liberale come lui) accusa di transfobia.

Qui in Italia la vicenda è passata sostanzialmente sotto silenzio. Ma è più seria di quel che sembra. Non perché la proposta sia sensata, ma perché in mezza Europa appare tale. E domani il tema potrebbe prendere piede anche da noi.
Non tutti lo sanno, ma il cosiddetto self-id (ossia la possibilità di scegliere arbitrariamente il genere, anche se minorenni, e anche senza aver avviato un processo di transizione) è ormai legge in molti paesi del mondo, ricchi e poveri, europei e non
europei. Recentemente lo hanno adottato i governi socialisti della Spagna (Ley Trans) e della Germania (Selbstbestimmungsgesetz). Poiché il numero di paesi che introducono il self-id è crescente, e sempre più spesso include paesi che siamo abituati a considerare avanzati, se ne potrebbe ricavare l’impressione di un ordinario processo di modernizzazione, democratizzazione e civilizzazione, come quelli che negli ultimi 80 anni hanno allargato i diritti delle donne. Ma è un’impressione incompatibile con alcuni dati di fatto.

Intanto, bisogna notare che il tema del self-id è strettamente legato a quello della transizione di genere più o meno medicalizzata (bloccanti della pubertà, ormoni cross-sex, operazione chirurgica). Introdurre per legge la possibilità di cambiare precocemente sesso/genere (in alcuni paesi anche più di una volta) aumenta le probabilità che il cambio anagrafico sia l’anticamera di ben più impegnativi percorsi di transizione. Quindi il giudizio sulla sensatezza del self-id dipende anche da quello sulla sicurezza e
opportunità dei protocolli di “autoaffermazione di genere”. E tale giudizio, dopo il recente rapporto Cass e vari studi di revisione della letteratura scientifica, tende ad essere fortemente scettico verso tali protocolli, a partire dal cosiddetto “protocollo olandese”: al punto da indurre il Regno Unito a una precipitosa marcia indietro, in controtendenza rispetto a Spagna e Germania.

Un altro elemento di cui bisogna tenere conto è che, dove non si ascoltano solo le associazioni LGBT+ ma si fanno sondaggi sull’orientamento della popolazione, spesso emerge che la maggioranza dei cittadini è contraria al self-id, in contrasto con
l’orientamento favorevole delle élite politiche, economiche, culturali, mediatiche. È il caso, per fare un esempio recente, della Germania, dove pochi mesi fa il governo ha varato una legge per il self-id a dispetto dell’orientamento dell’opinione pubblica. A
giudicare dal tracollo dei partiti progressisti alle successive elezioni europee, si direbbe che gli elettori non abbiano gradito.

Ma l’elemento empirico fondamentale di cui tenere conto, quando si accusa Macron di transfobia, è che a schierarsi contro il self-id sono innanzitutto molte donne e le associazioni che le rappresentano. L’obiezione che sollevano è tanto semplice quanto
devastante per il progetto politico del self-id: se qualsiasi maschio può proclamarsi femmina, e tale auto-proclamazione ha pieno valore legale, che ne sarà degli spazi e delle speciali garanzie riservate alle donne? Questa obiezione non è teorica, ma parte dall’osservazione che, là dove il self-id è stato introdotto senza forti restrizioni, si sono moltiplicati i comportamenti opportunistici (e talora aggressivi) dei trans MtF, ossia dei maschi transitati a femmine: ex maschi che accedono agli spazi femminili nelle carceri, nei centri antiviolenza, nello sport, ma anche in politica (occupare quote rosa), o nell’accesso al
welfare (andare in pensione prima), o nelle politiche di assunzione (benefici fiscali per i posti femminili), e persino nel processo penale (evitare le aggravanti di pena previste per le aggressioni maschili).

E poi c’è la ciliegina finale. In Germania, dove cresce il timore di un conflitto armato con la Russia, si guarda con preoccupazione a quel che è accaduto in Svizzera, dove un giovane maschio ha evitato il servizio militare sfruttando il self-id. Se molti
maschi tedeschi ne abusassero, la Germania potrebbe essere costretta a mettere restrizioni al self-id, o a introdurre la coscrizione obbligatoria per le donne.

Macron transfobico? Forse solo femminista.

[Articolo uscito sulla Ragione il 25 giugno 2024]




Aborto. Difendere la legge 194?

“Difendiamo la legge 194” è diventato, da quando la destra è al governo, uno degli slogan più ripetuti da gruppi femministi e associazioni di donne, spesso in occasione di mobilitazioni di piazza. E ora pure in occasione del G7, dove è toccato a
Emmanuel Macron rimarcare la nostra (presunta) arretratezza in materia di aborto.

L’accusa al governo, mille volte ripetuta nelle piazze, è di voler smantellare la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, in vigore dal 1978. Alcuni si spingono a sostenere che il governo l’avrebbe già modificata, quella sacrosanta legge 194, e di
averlo fatto con un emendamento alla legge stessa che aprirebbe i consultori alle associazioni pro-vita.
La tesi della modificazione della legge è chiaramente campata per aria, perché la legge 194 non è stata toccata di una virgola. Quel che è vero, però, è che il governo ha fatto approvare un emendamento al decreto PNRR che – di fatto – apre le porte dei consultori alle organizzazioni pro-vita. La cosa curiosa è che questa apertura non fa che dare attuazione all’articolo 2 della
legge 194: “I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche
aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. Dunque il governo non ha affatto attaccato la legge 194, semmai si è mosso per darle attuazione.

E qui veniamo al punto cruciale. A giudicare da come ne parlano, si direbbe che le paladine della Legge 194 non l’abbiamo mai letta. Se lo avessero fatto, si sarebbero accorte che tutta l’impostazione della legge è marcatamente pro-vita e anti-aborto.
Nell’impianto della 194, la scelta di abortire è una extrema ratio, che i consultori dovrebbero scoraggiare in tutti i modi, analizzando le cause alla radice della volontà della donna di interrompere la gravidanza, ed eventualmente prospettando alternative.

Bene. Se le cose stanno così, la sinistra e le femministe dovrebbero smettere di difendere a spada tratta la 194, come se fosse una sorta di linea Maginot contro i propositi liberticidi delle destre-destre retrograde e oscurantiste. Perché quel che si teme possano fare i gruppi pro-vita è quel che già – in teoria almeno – dovrebbe fare il personale dei consultori.

Opporsi all’ingresso delle associazioni pro-vita nei consultori ha senso per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché non vi è alcuna norma che garantisca che dipendenti e volontari abbiamo qualificazioni adeguate. In secondo luogo, perché non
vi è alcuna garanzia che i membri di tali associazioni non esercitino pressioni indebite, o mettano in atto colpevolizzazioni delle donne. Ma se ci si oppone all’ingresso delle associazioni pro-vita, allora, per coerenza, è all’impianto complessivo della legge 194 che bisognerebbe porre mano, a partire dall’articolo 2.

Dare modo alle donne di riflettere sul bivio che hanno davanti a sé è più che ragionevole, ma solo se i loro interlocutori sono professionisti preparati e ideologicamente neutrali. Altrettanto ragionevole sarebbe aumentare i gradi di libertà delle donne, affrontando finalmente il problema dei medici obiettori di coscienza, e facendo sì che la scelta di abortire non sia dettata da mera mancanza di risorse economiche.

È su questo, non sull’interruzione di gravidanza in Costituzione, che sarebbe il caso di imitare la Francia, con le sue politiche di sostegno alla maternità, ben più generose delle nostre. Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, la maggior parte
dei diritti non sono questione di inclusione/esclusione (come nel caso del diritto di voto), ma più prosaicamente di avere/non avere le risorse per renderli effettivi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 18 giugno 2024]




Dal femminismo al neo-razzismo

Il femminismo è morto, come ha sostenuto qualche giorno fa la storica Lucetta Scaraffia? O invece è più vivo che mai, come le è stato prontamente ribattuto?

Probabilmente sono vere entrambe le cose: il femminismo è vivo, ma ha ben poco a che fare con quello storico.

Ma in che cosa il nuovo femminismo si allontana da quello storico?

Secondo la scrittrice Elena Loewental, gli episodi di intolleranza che si sono verificati nella settimana scorsa sono intrisi di “un oscurantismo conservatore tremendamente retrogrado”, e la vera cifra delle nuove femministe sarebbe l’antisemitismo.

Io capisco pienamente lo sconcerto di Elena Loewenthal, come ebrea che difende le ragioni di Israele, come donna che non può accettare il silenzio delle femministe sulle violenze e gli stupri di Hamas verso le donne israeliane, come scrittrice che inorridisce di fronte all’intolleranza di chi – nella settimana dell’8 marzo – ha provato a impedire con la forza dibattiti e presentazioni di libri non graditi.

E tuttavia c’è qualcosa che vorrei aggiungere a questa diagnosi. Certo, nel femminismo di oggi c’è anche dell’antisemitismo. Il punto, però, è che c’è molto di più. Il femminismo di oggi si distingue da quello di ieri perché ne ha smarrito il tratto essenziale e fondativo, ossia l’universalismo.

Che cos’è l’universalismo?

È l’affermazione che “le donne sono tutte sorelle nell’oppressione, senza distinguere fra origine etnica, appartenenza politica, classe sociale”, come ricorda Lucetta Scaraffia. Nel femminismo storico convivevano idee molto diverse su emancipazione, liberazione, differenza, lotta di classe, ma l’universalismo non era in discussione. A una femminista storica non sarebbe mai venuto in mente che potesse esistere una gerarchia fra vittime di serie A, serie B, serie C, e di conseguenza un differente diritto alla protezione, alla tutela, all’attenzione politica e mediatica. E, ancora meno, sarebbe venuto in mente che in questa grottesca graduatoria potessero avere un ruolo caratteri ascritti come razza, etnia, nazionalità, o che qualcosa potessero centrare le scelte politiche delle donne, o dei governi sotto i quali vivono.

Eppure è questo che sta succedendo, non solo dopo il 7 ottobre. Ci sono donne sbagliate, che non meritano né di essere difese né di essere ricordate. Sono sbagliate le donne israeliane stuprate, perché non piace il loro governo, e perché non sono parte di un popolo oppresso (ma “solo” di un popolo minacciato). Sono sbagliate le donne israeliane del passato, come la socialista Golda Meir, di cui – qualche giorno fa a Firenze – si è impedito di presentare la biografia, scritta dalla giornalista Elisabetta Fiorito.

Ma sono sbagliate anche le donne islamiche in Italia, se a commettere violenza su di loro, o a ucciderle, è a sua volta un maschio islamico. Ha dovuto ricordarlo qualche anno fa, con imbarazzo e dispetto, Ritanna Armeni (femminista storica, tra le fondatrici del Manifesto), quando si è resa conto che, sulla tragica storia di Saman Abbas, uccisa dai familiari perché voleva vivere all’occidentale, il mondo femminista e progressista aveva preferito girarsi dall’altra parte, per una aberrante forma di rispetto della cultura islamica. E ancora più sbagliate sono le suore africane violentate da religiosi in Africa, dimenticate dalle femministe forse proprio perché suore, come ipotizza Scaraffia nel suo intervento sulla fine del femminismo.

Ma le vere donne sbagliate, sbagliatissime, sono le donne bianche in quanto tali, colpevoli (anche se italiane) di discendere da “colonialisti bianchi”. Lo ha raccontato e spiegato benissimo Federico Rampini con la storia di Lorena Tomasin (nome di fantasia), 42-enne veneta da 15 anni negli Stati Uniti, iscritta a un Master della Columbia University, cui viene chiesto di “scusarsi con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori”, o di partecipare a corsi di rieducazione e contrizione, sempre per la colpa di essere bianche. Una deriva che Pascal Bruckner aveva indovinato già trent’anni fa nel suo libro Il singhiozzo dell’uomo bianco, ma che solo nell’ultimo decennio, con la svolta woke dei democratici, ha preso pienamente forma negli Stati Uniti, e ora plana anche sui nostri lidi.

E allora veniamo al punto: qual è la marca distintiva di questi femminismi?

Per metterla a fuoco, ripercorriamo un episodio dell’8 marzo. Bandiere in piazza, tanti slogan pro-Palestina, nessun riferimento alle donne israeliane stuprate dai miliziani di Hamas. Una ragazza italiana (di sinistra) si presenta in piazza con un cartello provocatorio che dice: Non una parola sugli stupri di HAMAS: le donne israeliane “se la sono cercata”?

Reazione: cacciata dal corteo, anche per “proteggerla” da possibili atti di violenza, nessuna voce a sua difesa da parte delle femministe in piazza.

Qual è dunque il nucleo del femminismo attuale? A me sembra che sia una forma di neo-razzismo, di cui l’antisemitismo è solo un aspetto, anche se forse il più detestabile. Il razzismo classico era basato sulla distinzione fra i bianchi e gli altri, il neo-razzismo è molto più ambizioso: pretende di stabilire una precisa gerarchia fra le molteplici condizioni delle donne, e di farlo in base a caratteri ascritti o non modificabili. E nemmeno di fronte a una tragedia come quella del 7 ottobre trova una parola di pietà, se non di solidarietà e di condivisione, per le donne israeliane uccise, né per quelle ancora prigioniere dei loro carnefici.

Quindi sì, il femminismo classico è morto, e il neo-razzismo che ne ha preso il posto è un “oscurantismo retrogrado”, che ha in odio la libertà di parola e non disdegna metodi squadristici, nelle piazze, dentro le università, nelle librerie. Possibile che né il mondo progressista, né i suoi partiti-guida, avvertano il pericolo?

[articolo uscito sul Messaggero il 14 marzo 2024]