Macron transfobico?

Chi la fa l’aspetti, verrebbe da dire. A forza di proclamare nuovi diritti, finisce che trovi uno che ne proclama più di te. E ti ritrovi a passare per reazionario-retrogrado-maschilista-nemico delle minoranze.

È quel che è successo a Emmanuel Macron la settimana scorsa, quando ha osato dire che la proposta del Fronte Popolare di sinistra di permettere il cambio di sesso/genere con una semplice visita agli uffici comunali era “grottesca” (ubuesque). Tanto gli è
bastato per finire alla gogna, con l’infamante (per un liberale come lui) accusa di transfobia.

Qui in Italia la vicenda è passata sostanzialmente sotto silenzio. Ma è più seria di quel che sembra. Non perché la proposta sia sensata, ma perché in mezza Europa appare tale. E domani il tema potrebbe prendere piede anche da noi.
Non tutti lo sanno, ma il cosiddetto self-id (ossia la possibilità di scegliere arbitrariamente il genere, anche se minorenni, e anche senza aver avviato un processo di transizione) è ormai legge in molti paesi del mondo, ricchi e poveri, europei e non
europei. Recentemente lo hanno adottato i governi socialisti della Spagna (Ley Trans) e della Germania (Selbstbestimmungsgesetz). Poiché il numero di paesi che introducono il self-id è crescente, e sempre più spesso include paesi che siamo abituati a considerare avanzati, se ne potrebbe ricavare l’impressione di un ordinario processo di modernizzazione, democratizzazione e civilizzazione, come quelli che negli ultimi 80 anni hanno allargato i diritti delle donne. Ma è un’impressione incompatibile con alcuni dati di fatto.

Intanto, bisogna notare che il tema del self-id è strettamente legato a quello della transizione di genere più o meno medicalizzata (bloccanti della pubertà, ormoni cross-sex, operazione chirurgica). Introdurre per legge la possibilità di cambiare precocemente sesso/genere (in alcuni paesi anche più di una volta) aumenta le probabilità che il cambio anagrafico sia l’anticamera di ben più impegnativi percorsi di transizione. Quindi il giudizio sulla sensatezza del self-id dipende anche da quello sulla sicurezza e
opportunità dei protocolli di “autoaffermazione di genere”. E tale giudizio, dopo il recente rapporto Cass e vari studi di revisione della letteratura scientifica, tende ad essere fortemente scettico verso tali protocolli, a partire dal cosiddetto “protocollo olandese”: al punto da indurre il Regno Unito a una precipitosa marcia indietro, in controtendenza rispetto a Spagna e Germania.

Un altro elemento di cui bisogna tenere conto è che, dove non si ascoltano solo le associazioni LGBT+ ma si fanno sondaggi sull’orientamento della popolazione, spesso emerge che la maggioranza dei cittadini è contraria al self-id, in contrasto con
l’orientamento favorevole delle élite politiche, economiche, culturali, mediatiche. È il caso, per fare un esempio recente, della Germania, dove pochi mesi fa il governo ha varato una legge per il self-id a dispetto dell’orientamento dell’opinione pubblica. A
giudicare dal tracollo dei partiti progressisti alle successive elezioni europee, si direbbe che gli elettori non abbiano gradito.

Ma l’elemento empirico fondamentale di cui tenere conto, quando si accusa Macron di transfobia, è che a schierarsi contro il self-id sono innanzitutto molte donne e le associazioni che le rappresentano. L’obiezione che sollevano è tanto semplice quanto
devastante per il progetto politico del self-id: se qualsiasi maschio può proclamarsi femmina, e tale auto-proclamazione ha pieno valore legale, che ne sarà degli spazi e delle speciali garanzie riservate alle donne? Questa obiezione non è teorica, ma parte dall’osservazione che, là dove il self-id è stato introdotto senza forti restrizioni, si sono moltiplicati i comportamenti opportunistici (e talora aggressivi) dei trans MtF, ossia dei maschi transitati a femmine: ex maschi che accedono agli spazi femminili nelle carceri, nei centri antiviolenza, nello sport, ma anche in politica (occupare quote rosa), o nell’accesso al
welfare (andare in pensione prima), o nelle politiche di assunzione (benefici fiscali per i posti femminili), e persino nel processo penale (evitare le aggravanti di pena previste per le aggressioni maschili).

E poi c’è la ciliegina finale. In Germania, dove cresce il timore di un conflitto armato con la Russia, si guarda con preoccupazione a quel che è accaduto in Svizzera, dove un giovane maschio ha evitato il servizio militare sfruttando il self-id. Se molti
maschi tedeschi ne abusassero, la Germania potrebbe essere costretta a mettere restrizioni al self-id, o a introdurre la coscrizione obbligatoria per le donne.

Macron transfobico? Forse solo femminista.

[Articolo uscito sulla Ragione il 25 giugno 2024]




Aborto. Difendere la legge 194?

“Difendiamo la legge 194” è diventato, da quando la destra è al governo, uno degli slogan più ripetuti da gruppi femministi e associazioni di donne, spesso in occasione di mobilitazioni di piazza. E ora pure in occasione del G7, dove è toccato a
Emmanuel Macron rimarcare la nostra (presunta) arretratezza in materia di aborto.

L’accusa al governo, mille volte ripetuta nelle piazze, è di voler smantellare la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, in vigore dal 1978. Alcuni si spingono a sostenere che il governo l’avrebbe già modificata, quella sacrosanta legge 194, e di
averlo fatto con un emendamento alla legge stessa che aprirebbe i consultori alle associazioni pro-vita.
La tesi della modificazione della legge è chiaramente campata per aria, perché la legge 194 non è stata toccata di una virgola. Quel che è vero, però, è che il governo ha fatto approvare un emendamento al decreto PNRR che – di fatto – apre le porte dei consultori alle organizzazioni pro-vita. La cosa curiosa è che questa apertura non fa che dare attuazione all’articolo 2 della
legge 194: “I consultori sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche
aiutare la maternità difficile dopo la nascita”. Dunque il governo non ha affatto attaccato la legge 194, semmai si è mosso per darle attuazione.

E qui veniamo al punto cruciale. A giudicare da come ne parlano, si direbbe che le paladine della Legge 194 non l’abbiamo mai letta. Se lo avessero fatto, si sarebbero accorte che tutta l’impostazione della legge è marcatamente pro-vita e anti-aborto.
Nell’impianto della 194, la scelta di abortire è una extrema ratio, che i consultori dovrebbero scoraggiare in tutti i modi, analizzando le cause alla radice della volontà della donna di interrompere la gravidanza, ed eventualmente prospettando alternative.

Bene. Se le cose stanno così, la sinistra e le femministe dovrebbero smettere di difendere a spada tratta la 194, come se fosse una sorta di linea Maginot contro i propositi liberticidi delle destre-destre retrograde e oscurantiste. Perché quel che si teme possano fare i gruppi pro-vita è quel che già – in teoria almeno – dovrebbe fare il personale dei consultori.

Opporsi all’ingresso delle associazioni pro-vita nei consultori ha senso per almeno due ordini di motivi. In primo luogo, perché non vi è alcuna norma che garantisca che dipendenti e volontari abbiamo qualificazioni adeguate. In secondo luogo, perché non
vi è alcuna garanzia che i membri di tali associazioni non esercitino pressioni indebite, o mettano in atto colpevolizzazioni delle donne. Ma se ci si oppone all’ingresso delle associazioni pro-vita, allora, per coerenza, è all’impianto complessivo della legge 194 che bisognerebbe porre mano, a partire dall’articolo 2.

Dare modo alle donne di riflettere sul bivio che hanno davanti a sé è più che ragionevole, ma solo se i loro interlocutori sono professionisti preparati e ideologicamente neutrali. Altrettanto ragionevole sarebbe aumentare i gradi di libertà delle donne, affrontando finalmente il problema dei medici obiettori di coscienza, e facendo sì che la scelta di abortire non sia dettata da mera mancanza di risorse economiche.

È su questo, non sull’interruzione di gravidanza in Costituzione, che sarebbe il caso di imitare la Francia, con le sue politiche di sostegno alla maternità, ben più generose delle nostre. Contrariamente a quello che siamo portati a pensare, la maggior parte
dei diritti non sono questione di inclusione/esclusione (come nel caso del diritto di voto), ma più prosaicamente di avere/non avere le risorse per renderli effettivi.

[Articolo uscito sulla Ragione il 18 giugno 2024]




Dal femminismo al neo-razzismo

Il femminismo è morto, come ha sostenuto qualche giorno fa la storica Lucetta Scaraffia? O invece è più vivo che mai, come le è stato prontamente ribattuto?

Probabilmente sono vere entrambe le cose: il femminismo è vivo, ma ha ben poco a che fare con quello storico.

Ma in che cosa il nuovo femminismo si allontana da quello storico?

Secondo la scrittrice Elena Loewental, gli episodi di intolleranza che si sono verificati nella settimana scorsa sono intrisi di “un oscurantismo conservatore tremendamente retrogrado”, e la vera cifra delle nuove femministe sarebbe l’antisemitismo.

Io capisco pienamente lo sconcerto di Elena Loewenthal, come ebrea che difende le ragioni di Israele, come donna che non può accettare il silenzio delle femministe sulle violenze e gli stupri di Hamas verso le donne israeliane, come scrittrice che inorridisce di fronte all’intolleranza di chi – nella settimana dell’8 marzo – ha provato a impedire con la forza dibattiti e presentazioni di libri non graditi.

E tuttavia c’è qualcosa che vorrei aggiungere a questa diagnosi. Certo, nel femminismo di oggi c’è anche dell’antisemitismo. Il punto, però, è che c’è molto di più. Il femminismo di oggi si distingue da quello di ieri perché ne ha smarrito il tratto essenziale e fondativo, ossia l’universalismo.

Che cos’è l’universalismo?

È l’affermazione che “le donne sono tutte sorelle nell’oppressione, senza distinguere fra origine etnica, appartenenza politica, classe sociale”, come ricorda Lucetta Scaraffia. Nel femminismo storico convivevano idee molto diverse su emancipazione, liberazione, differenza, lotta di classe, ma l’universalismo non era in discussione. A una femminista storica non sarebbe mai venuto in mente che potesse esistere una gerarchia fra vittime di serie A, serie B, serie C, e di conseguenza un differente diritto alla protezione, alla tutela, all’attenzione politica e mediatica. E, ancora meno, sarebbe venuto in mente che in questa grottesca graduatoria potessero avere un ruolo caratteri ascritti come razza, etnia, nazionalità, o che qualcosa potessero centrare le scelte politiche delle donne, o dei governi sotto i quali vivono.

Eppure è questo che sta succedendo, non solo dopo il 7 ottobre. Ci sono donne sbagliate, che non meritano né di essere difese né di essere ricordate. Sono sbagliate le donne israeliane stuprate, perché non piace il loro governo, e perché non sono parte di un popolo oppresso (ma “solo” di un popolo minacciato). Sono sbagliate le donne israeliane del passato, come la socialista Golda Meir, di cui – qualche giorno fa a Firenze – si è impedito di presentare la biografia, scritta dalla giornalista Elisabetta Fiorito.

Ma sono sbagliate anche le donne islamiche in Italia, se a commettere violenza su di loro, o a ucciderle, è a sua volta un maschio islamico. Ha dovuto ricordarlo qualche anno fa, con imbarazzo e dispetto, Ritanna Armeni (femminista storica, tra le fondatrici del Manifesto), quando si è resa conto che, sulla tragica storia di Saman Abbas, uccisa dai familiari perché voleva vivere all’occidentale, il mondo femminista e progressista aveva preferito girarsi dall’altra parte, per una aberrante forma di rispetto della cultura islamica. E ancora più sbagliate sono le suore africane violentate da religiosi in Africa, dimenticate dalle femministe forse proprio perché suore, come ipotizza Scaraffia nel suo intervento sulla fine del femminismo.

Ma le vere donne sbagliate, sbagliatissime, sono le donne bianche in quanto tali, colpevoli (anche se italiane) di discendere da “colonialisti bianchi”. Lo ha raccontato e spiegato benissimo Federico Rampini con la storia di Lorena Tomasin (nome di fantasia), 42-enne veneta da 15 anni negli Stati Uniti, iscritta a un Master della Columbia University, cui viene chiesto di “scusarsi con i compagni di corso neri per il razzismo di cui siamo portatori”, o di partecipare a corsi di rieducazione e contrizione, sempre per la colpa di essere bianche. Una deriva che Pascal Bruckner aveva indovinato già trent’anni fa nel suo libro Il singhiozzo dell’uomo bianco, ma che solo nell’ultimo decennio, con la svolta woke dei democratici, ha preso pienamente forma negli Stati Uniti, e ora plana anche sui nostri lidi.

E allora veniamo al punto: qual è la marca distintiva di questi femminismi?

Per metterla a fuoco, ripercorriamo un episodio dell’8 marzo. Bandiere in piazza, tanti slogan pro-Palestina, nessun riferimento alle donne israeliane stuprate dai miliziani di Hamas. Una ragazza italiana (di sinistra) si presenta in piazza con un cartello provocatorio che dice: Non una parola sugli stupri di HAMAS: le donne israeliane “se la sono cercata”?

Reazione: cacciata dal corteo, anche per “proteggerla” da possibili atti di violenza, nessuna voce a sua difesa da parte delle femministe in piazza.

Qual è dunque il nucleo del femminismo attuale? A me sembra che sia una forma di neo-razzismo, di cui l’antisemitismo è solo un aspetto, anche se forse il più detestabile. Il razzismo classico era basato sulla distinzione fra i bianchi e gli altri, il neo-razzismo è molto più ambizioso: pretende di stabilire una precisa gerarchia fra le molteplici condizioni delle donne, e di farlo in base a caratteri ascritti o non modificabili. E nemmeno di fronte a una tragedia come quella del 7 ottobre trova una parola di pietà, se non di solidarietà e di condivisione, per le donne israeliane uccise, né per quelle ancora prigioniere dei loro carnefici.

Quindi sì, il femminismo classico è morto, e il neo-razzismo che ne ha preso il posto è un “oscurantismo retrogrado”, che ha in odio la libertà di parola e non disdegna metodi squadristici, nelle piazze, dentro le università, nelle librerie. Possibile che né il mondo progressista, né i suoi partiti-guida, avvertano il pericolo?

[articolo uscito sul Messaggero il 14 marzo 2024]




Il silenzio di Schlein

È di qualche giorno fa una lettera che un nutrito gruppo di femministe hanno indirizzato a Elly Schlein. Oggetto: la posizione del Pd e della neosegretaria in materia di utero in affitto, o GPA (gestazione per altri).

Le scriventi sono contrarie, e si rivolgono a Elly Schlein, che invece si è ripetutamente dichiarata a favore, perché riveda la sua posizione. Inoltre, parlano con accenti critici della pretesa, da parte delle coppie che sono ricorse alla GPA, di ottenere la trascrizione automatica (all’anagrafe italiana) dei certificati di nascita rilasciati all’estero. La loro preoccupazione principale è che la sinistra lasci il tema alla destra che, a loro dire, lo distorcerebbe “per piegarlo a un progetto di riaffermazione della famiglia tradizionale istituzionalizzata e obbligatoria”.

La lettera è alquanto mielosa e adulatoria, e forse anche per questo ha suscitato la vivace reazione di Marina Terragni, la esponente più attiva della Rete per l’Inviolabilità del Corpo femminile, un gruppo ben più coerentemente impegnato, da tempo, non solo contro la pratica dell’utero in affitto, ma contro tutto il complesso delle pratiche del “progetto transumano”: autoidentificazione di genere (self-id), carriera alias nelle scuole, transizione facilitata, ricorso agli ormoni, sex work, assistenza sessuale ai disabili. Su questo, il gruppo della Terragni avrebbe apprezzato un pronunciamento più chiaro e una presa di posizione più netta, con particolare riguardo all’idea di dichiarare reato universale l’utero in affitto, come vorrebbe il governo.

Dalla lettura dei due testi si capisce che, su questi temi, il mondo femminile è spaccato. E lo è non tanto fra sostenitrici e nemiche dell’utero in affitto (i sondaggi mostrano che la maggioranza delle donne è contraria), ma sulla adesione al progetto transumano. Qui le posizioni sembrano essere tre: iper-femministe alla Schlein, favorevoli a tutto o quasi tutto il pacchetto; femministe della lettera a Schlein, contrarie all’utero in affitto ma prudenti o favorevoli sul resto; femministe radicali, come Terragni, contrarie a tutto il pacchetto.

Al di là delle convinzioni sui vari elementi del pacchetto, è interessante la dinamica politica che si è innescata. Le femministe della lettera a Schlein le chiedono di fare un passo indietro, perché hanno capito che – se si andasse allo scontro – la gente starebbe con chi critica l’utero in affitto, e il Pd ne sarebbe travolto. Il gruppo di Marina Terragni, viceversa, si chiede perché rivolgersi proprio a Schlein, visto che se ne conoscono le posizioni oltranziste su tutto o buona parte del pacchetto.

Credo che Marina Terragni abbia ragione. La questione non è politica, ma etica e culturale. E la vera posta in gioco non sono i diritti dei bambini, o le discriminazioni fra tipi di famiglie, ma l’accettabilità del pacchetto transumano. Una faccenda che chiama in campo considerazioni morali, antropologiche, filosofiche, bioetiche, su cui i progressisti sono molto più divisi dei conservatori. Se la sinistra non lo capisce, e la vuole buttare in politica, può anche farlo. Ma, così facendo, offrirebbe alla destra il proprio scalpo su un piatto d’argento.

Forse è per questo che, oggi come in passato, Schlein si guarda bene dal rispondere alle femministe.




Follemente corretto (21) – Polizia del pensiero

Per chi segue le vicende del politicamente corretto, gli Stati Uniti sono una insostituibile miniera di follie. Però, di norma, le follie si presentano una alla volta. Non così nella vicenda che il prof. Luigi Andrea Berto – italiano trapiantato in America, docente di storia alla Michigan University – ha voluto raccontare a Natalia Aspesi in una lettera alla rubrica “Questioni (non solo) di cuore”, sul Venerdì di Repubblica. Lui, di follie, ne ha dovute affrontare tre in un colpo solo.

Riassumo dalla sua lettera. Da una decina di anni, il prof. Berto tiene un corso generale sulla “storia del mondo occidentale fino al 1500”. Per far vedere ai propri allievi “come il passato possa essere deformato da idee contemporanee” si serve del celebre film 300 (del 2007), sulla battaglia delle Termopili (480 a.C.), in cui gli eroici trecento Spartani, guidati da Leonida, si immolarono nel tentativo di fermare l’esercito dei persiani, capeggiato da Serse.

Per dieci anni nessuna protesta, solo qualche mugugno da parte di studenti “troppo patriottici e conservatori”. Ultimamente, però, un paio di studentesse lo hanno accusato

presso l’amministrazione dell’università di far vedere cose inappropriate e “molestie sessuali”. E qui incontriamo la prima follia. Anziché offrire un supporto psicologico (e culturale!) alle due studentesse, evidentemente incapaci di prendere le distanze da un film-fumetto, viene portato sul banco degli accusati il docente, che peraltro usa il film per metterne in evidenza la parzialità e le distorsioni, non certo per sottoscriverne acriticamente i contenuti.

Ma non finisce qui. Nel frattempo, racconta il prof. Berto, “nell’ambito dell’operazione diversità e inclusione”, l’amministrazione dell’università inserisce nel nuovo contratto l’obbligo di fare un corso online su quei temi. Qui siamo alla seconda follia: obbligare i docenti a seguire un corso che non è di tipo funzionale (norme antincendio) o di tipo tecnico (uso di nuovi supporti didattici multimediali), o di tipo giuridico (diritti degli studenti e dei docenti), ma è di tipo politico-ideologico. Come testimonia la terza follia, ossia quel che succede alla fine del corso. Racconta il prof. Berto:

“Tra le lezioni del corso ve n’erano di varie sulle molestie sessuali. Alla fine delle lezioni si doveva fare un multiple choice quiz (quiz a crocette). Una domanda chiedeva se le accuse di molestie sessuali sono sempre vere. Se non si rispondeva sì, non si poteva proseguire nel corso e quindi si era licenziati perché non si era rispettato il contratto. Effetti collaterali del MeeToo?”.

Persino Natalia Aspesi, femminista e progressista da sempre, non riesce a nascondere il suo sconcerto: “l’obbligo del sì rivela tutta l’ipocrisia dell’iniziativa, perché si decide che le donne hanno sempre ragione”.

Il vero guaio, però, forse sta altrove. Il guaio è che quello delle molestie e di altri temi più o meno sensibili, è un argomento altamente controverso, come dimostra l’enorme spettro di opinioni e reazioni suscitate dal MeToo, anche all’interno del mondo femminile. E quando un tema è controverso, tutto si può fare tranne che obbligare studenti, professori, utenti, dipendenti pubblici e privati, a sottoporsi alle esternazioni di sedicenti esperti o educatori, e ancor meno obbligare i malcapitati discenti a sottoscrivere le idee e le credenze dei formatori, quasi sempre vestali arciconvinte dell’ortodossia woke.

Quando ciò avviene, non vuol dire che le istituzioni sono finalmente diventate sensibili a un problema, ma che stanno facendo nascere una polizia del pensiero, con le sue guardie rosse e il suo libretto di pensieri giusti. Non di rado, con l’assenso tacito dei meglio intenzionati fra noi.