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La mente (inconsapevolmente) totalitaria di Noemi Di Segni

24 Aprile 2023 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Confesso un profondo sconcerto quando leggo, sulle più importanti testate italiane, che il governo di Giorgia Meloni stenta ancora a riconoscere il fascismo come male assoluto. Anche una persona squisita come Noemi Di Segni, Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche in Italia, in un’intervista a ‘La Stampa del 21 aprile u.s., ha dichiarato che “ Giorgia Meloni e gli altri esponenti del governo devono capire che il fascismo ha fatto cose gravissime a partire dalle leggi razziali e devono capire che è stato un male assoluto per tutte l’Italia. Giorgia Meloni ha detto che le leggi razziali sono state un abominio ma ha mancato di dire che le ha fatte un governo fascista. Le leggi non nascono da sole, qualcuno le ha volute e le ha firmate”. Ancora una volta si chiede alla destra al governo di dichiararsi antifascista, non bastando la professione di fede democratica (che per un liberale comporta poi sia l’antifascismo che l’anticomunismo).

 Tra l’altro, nell’intervista, Di Segni adopera il termine ‘revisionismo’ come ‘un peccato contro lo Spirito’, per dirla con Croce, ignorando che il revisionismo è l’imperativo metodologico di ogni storico serio: se i racconti del passato fossero ‘veri’ come sono vere le leggi delle scienze naturali, che senso avrebbe  sottoporli alla critica della ragione storica? In realtà, la political culture ,in cui si riconosce l’intervistata–e con lei quasi tutti gli intellettuali impegnati del nostro paese—da qualche tempo ha dichiarato una guerra spietata a ogni tipo di revisionismo storiografico: ormai a dirci cosa realmente  fu il fascismo sembrano essere rimasti l’Anpi e  Gianfranco Pagliarulo. La ‘vulgata antifascista’—da cui vent’anni fa rifuggivano anche gli storici di sinistra– è diventata una verità di Stato e persino la più alta carica della Repubblica ha messo in guardia contro la tentazione di ripetere che il fascismo ha fatto anche cose buone. E’ il pensiero unico che celebra i suoi trionfi e che, se fosse coerente, dovrebbe porre al bando l’intervista sull’antifascismo che un politico e studioso comunista del calibro di  Giorgio  Amendola rilasciò a Piero Melograni (Ed. Laterza 1976): Il ‘Secolo d’Italia’ scrisse che i riconoscimenti tributati al regime superavano quelli che si potevano leggere nell’Intervista sul fascismo di Renzo de Felice. Ma ormai chi si ricorda più del  maggiore storico del fascismo del nostro tempo, di Augusto Del Noce, il geniale filosofo politico che alle diverse forme di totalitarismo dedicò le sue riflessioni più profonde? Chi cita più i grandi storici e scienziati politici d’oltralpe e d’oltreoceano che sul fascismo, sul nazismo, sul comunismo hanno scritto pagine fondamentali ma che oggi sembrano ignorate?

 Meloni e altri esponenti della sua area politica e culturale hanno condannato le leggi razziali e l’alleanza col Terzo Reich? Per le Vestali della Liberazione non basta: avrebbero dovuto dire che quelle pagine nere del regime fascista erano iscritte tutte nel suo DNA ideologico: insomma avrebbero dovuto scavalcare a sinistra studiosi come A. James Gregor o Ernst Nolte, elaborando una teoria dei crimini commessi dai fascisti che li presentasse come effetti naturali di cause autoevidenti. Davvero una strana pretesa, questa,  che riporta in auge quelle che un tempo si chiamavano ‘filosofie della storia’ ,intese come visioni del mondo in cui tutto era concatenato, tout se tient.

  Sennonché le ‘filosofie della storia’ sono un prodotto tipico dell’ideologia intesa come falsa coscienza che appende a un chiodo—il Valore, o il Disvalore, posto a fondamento di una politica—tutto il seguito positivo o negativo che si fa discendere da una scelta originaria o da un’idea che abbia trovato delle baionette, per dirla questa volta con Napoleone. Così per un tradizionalista doc (ce ne sono ancora) la presa della Bastiglia è all’origine del regicidio, del Terrore, delle guerre napoleoniche della finis Europae. E, analogamente, per un laicista ateo e razionalista, dalla religione cristiana discendono tutte le brutture che hanno segnato nei secoli il vecchio continente: dalle crociate ai roghi dell’Inquisizione etc.. In Controstoria del liberalismo (Ed. Laterza 2005), lo storico della filosofia, il compianto, Domenico Losurdo scriveva, della tradizione di pensiero liberale, che “Nessun’altra più di essa si è impegnata a pensare a problema decisivo della limitazione del potere. Epperò, storicamente, questa limitazione del potere è andata di pari passo con la delimitazione di un ristretto spazio sacro: maturando un’autocoscienza orgogliosa ed esclusivistica, la comunità dei liberi che lo abita è spinta a considerare legittima la schiavizzazione ovvero l’assoggettamento più o meno esplicito, imposti alla grande massa dispersa per lo spazio profano. Talvolta si è giunti perfino alla declinazione e all’annientamento. E’ dileguata del tutto questa dialettica in base alla quale il liberalismo si trasforma in un’ideologia del dominio e finanche in un’ideologia della guerra?”. Per il marxista Losurdo non c’era nessun dubbio che razzismo e colonialismo fossero iscritti nell’ideologia liberale. Ne costituiva una riprova la storia degli Stati Uniti.” |…| La Costituzione additata come modello consacra la nascita del primo Stato razziale, mentre l’autogoverno qui osannato garantisce ai proprietari di schiavi del Sud il legittimo godimento della loro proprietà senza interferenze da parte del governo federale”. Va detto che Losurdo, uno studioso sempre molto documentato e autore di libri che si leggono ancora oggi con profitto, al di là del dissenso teorico, era molto più serio del collega antichista romano, Antonio Capizzi, che scrisse un saggio degno dell’inquisizione stalinista—il titolo dice tutto– Alle radici ideologiche dei fascismi. Il mito della libertà individuale da Constant a Hitler (Roma, Savelli, 1977) per dimostrare la continuità profonda tra il Discorso  di Constant sulla libertà dei moderni comparata a quella degli antichi col Mein Kampf di Adolf Hitler.

 A mio avviso, uno storico—liberale o meno che sia—non può sottoscrivere nessuna delle due interpretazioni del liberalismo ma il problema non è questo, bensì è quello di stabilire se una comunità politica, che si ispiri ai valori della società aperta debba esigere che i suoi cittadini si riconoscano nel racconto ufficiale della storia predisposto dallo stato democratico o debba limitarsi a esigere l’assoluta fedeltà alla Costituzione e codici di cittadinanza in linea coi suoi valori. Per fare un’ipotesi non del tutto irreale, se un regime comunista o un partito comunista non si accontentasse della conversione marxleninista di un cittadino già militante in una formazione democratica borghese ma esigesse da lui il riconoscimento di aver militato in passato nell’area ideologica che teorizzava e praticava lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il genocidio, la colonizzazione non sarebbe una riprova della mens totalitaria del comunismo? E se l’esaminando dicesse: lascio il mondo capitalista, borghese, liberale non perché era il male assoluto ma perché non ha mantenuto le sue promesse, non ha risolto il problema della giustizia sociale non ha eliminato lo sfruttamento del proletariato interno ed esterno, potrebbe egualmente ottenere  la tessera del PCI o del PCUS?

 I  veri numi tutelari della ricerca storica non sono i santi dell’Inquisizione—cattolica o laica—ma i grandi scettici, come Michel de Montaigne o David Hume. Essi insegnano che la storia non è un processo necessitato in cui ogni casella, ogni momento del suo divenire, si colloca al posto giusto ma è un sistema aperto, dove può sempre accadere di tutto, dove ciò che poi accade realmente trova una sua spiegazione logica ma poteva non accadere.

 Quando si dice che il fascismo è il male assoluto e se ne vuol fare una verità di fede per tutti i cittadini non ci si ispira ai valori alti  dell’Occidente ma all’ideologia del Grande Fratello sempre più esigente che non può certo accontentarsi    della condanna senza appello delle leggi razziali e dell’esecrazione del Patto d’Acciaio che distrusse non solo le nostre città ma indebolì, forse irreparabilmente, lo stesso sentimento d’amor patrio. Se non si dice che  fin dall’inizio il fascismo fu quanto di peggio e di più pestilenziale avrebbe potuto abbattersi sull’Italia, non ci si può accostare al fonte battesimale della democrazia. Resta, pur sempre, il problema della   maggioranza dei nostri connazionali che gli assicurarono un ampio consenso–a cominciare dagli intellettuali, dagli imprenditori, dalle autorità ecclesiastiche, dalla ‘gente meccanica e di piccolo affare’. Come va considerata? Come ‘massa damnationis’ i cui residui storici attendono una bonifica integrale?

 La Meloni viene da ambienti ‘che ci hanno creduto’, da persone che, in buona fede, videro nelle camice nere il movimento e poi il governo che salvarono il paese dall’anarchia e realizzarono non poche significative riforme sociali, facendole pagare—beninteso–con la perdita delle libertà statutarie (perdita per noi inaccettabile ma non per gli Italiani del tempo, stanchi di guerre civili e di violenze, come ben riconobbero, storici non certo reazionari da Angelo tasca a Federico Chabod, da Renzo de Felice a Roberto Vivarelli). . Sono proprio tenuti i ‘postfascisti’ a qualificarsi come ‘antifascisti’, a buttare nella spazzatura della storia idealità in cui hanno creduto in buona fede e che, semmai hanno visto tradite, a partire dalle leggi del ‘38 e dall’entrata in guerra del 1940 (le vide tradite, ad esempio, una figura di intellettuale di grande onestà e cultura come Giano Accame, amico personale di Giampiero Mughini, che pure volle la sua bara avvolta nella bandiera della RSI)? Non esito a dire che non potrei avere nessuna stima per Giorgia Meloni se , per compiacere l’assordante canea degli antifascisti in servizio permanente effettivo, si proclamasse ‘finalmente’ antifascista: a parte il fatto che non convincerebbe nessuno dei suoi nemici politici –direbbero che è stata dichiarazione tardiva e imposta–, sarebbe per lei ammettere che nel fascismo storico ci sono state solo ombre e nessuna luce– nell’Erebo può dominare solo il buio pesto—e che la sua milizia politica passata è stata un’imperdonabile peccato di gioventù. Ci manca solo che si pretenda da lei, a questo punto,  di prendere posizione a favore di Claudio Pavone nella durissima polemica che l’oppose al salveminiano  Roberto Vivarelli, autore di un testo esemplare, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945 (Il Mulino, 2013), in cui lo storico, rievocando la sua giovanile adesione alla Repubblica Sociale,  la spiegava con le circostanze in cui era avvenuta, e, quel che è peggio, scriveva che non ne era affatto pentito della sua scelta.

 Debbo aggiungere, però, che non avrei nessuna stima ,altresì, di un dirigente o di un intellettuale di sinistra che oggi si definisse anticomunista. Il comunismo, come ormai è acclarato, fece più vittime del nazismo e di ogni altro regime golpista della storia contemporanea messi insieme, ma perché non riconoscere a quanti hanno creduto nelle sue ‘promesse’ una buona fede, attestata, tra l’altro, dalla disponibilità a dare la vita per la’causa’, a sacrificare una tranquilla vita borghese in difesa di idealità nobilissime, come l’eguaglianza e la giustizia sociale? Dovrei chiedere ai tanti amici comunisti, che ho conosciuto, frequentato e apprezzato per il loro impegno civile, di considerare il ‘socialismo reale’ come l’altro Male assoluto del XX secolo, come riteneva il presidente Reagan?

 Il pensiero egemone, in Italia, per citare i versi di Trilussa, sta “sprecanno troppe cose belle in nome della fede”: forse è il segno inequivocabile della nostra decadenza.

Follemente corretto (15) – C’è cane e cane

7 Febbraio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Non so se avesse ragione Umberto Eco a parlare di Ur-Fascismo, o Fascismo eterno. Probabilmente gli era un po’ scappata la mano: dei 14 tratti del fascismo individuati da Eco, 10 non sono più rintracciabili in Italia, e 4 non sono specifici del fascismo. Però sul fatto che il tema del fascismo sia sempreverde, in libreria come sui quotidiani come su internet, non ci sono dubbi. Se non vi fosse questo permanente interesse-curiosità-ossessione degli italiani, non uscirebbero a getto continuo libri su Mussolini e sul Ventennio.

Ossessione degli italiani?

Non esattamente. Ho scoperto di recente, girando sul web, che nel dibattito sono coinvolti anche i cani. E da un bel po’ di anni. Ci sono innumerevoli video di cani che, all’ordine “saluta il Duce”, fanno il saluto romano con la loro zampa destra. Ogni video ha decine di migliaia di visualizzazioni (mai come i cani nazisti, che nel Regno Unito e in Germania pare arrivino anche a 2-3 milioni di visualizzazioni).

Ma non basta. Il cane fascista, da anni, turba i pensieri della sinistra, dei sinceri democratici, dei partigiani, dell’antifascismo tutto. Già nel 2016, ad Albenga, un pastore tedesco antidroga, che doveva essere acquistato dalla Polizia Locale, ha incontrato la fiera opposizione del sindaco Pd della città, della Cgil, e persino delle associazioni dei partigiani. Il motivo: il cane, anzi la cagna, pastore tedesco di 9 mesi, ha la ventura di chiamarsi Olimpia Decima Mas.

Due anni dopo, nel 2018, la medesima fiera opposizione, con tanto di interrogazioni in consiglio comunale, ha incontrato a Monza un altro cane, il cui nome era Narco della Decima Mas. La parola Decima Mas è stata sufficiente a far scattare il riflesso pavloviano antifascista. Se un cane si chiama Decima Mas, non può che essere stato allevato nella venerazione della decima Flottiglia Mas (l’unità della Marina Italiana che, dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, fece parte del corpo militare della Repubblica di Salò e collaborò attivamente con le forze armate tedesche in Italia settentrionale).

Si scoprirà poi che molti cani poliziotto in dotazione a vigili e forze dell’ordine hanno quel cognome (Decima Mas) semplicemente perché Decima Mas è il nome di uno dei migliori allevamenti per l’addestramento dei cani, e il nome dell’allevamento viene automaticamente incluso – come una sorta di cognome – nel pedigree di ogni cane poliziotto.

Ma qual è l’origine del nome dell’allevamento? Lo spiega il titolare dell’allevamento stesso, situato ad Agugliano, in provincia di Ancona: “Tanti anni fa quando ha preso vita questa struttura inviai all’Enci (Ente Nazionale Cinofilia Italiana) tre possibili nomi: di Vallechiara, di Chiaravalle e Decima Mas. I primi due vennero esclusi perché simili ad altri e mi diedero l’ok sull’ultimo. Tutto qui”.

E mestamente aggiunge: “non capisco come si possa far polemica su degli animali che sono addestrati anche per salvare vite, per scavare tra le macerie causate da terremoti e calamità naturali e che sono spesso utilizzati per combattere lo spaccio di stupefacenti”.

Non sappiamo con sicurezza perché, fra i tre nomi, vi fosse anche Decima Mas, pare perché un lontano parente ne aveva fatto parte. Ma è rilevante? Se anche il titolare, che si dichiara apolitico, fosse nostalgico della Repubblica Di Salò, questo renderebbe fascisti i suoi cani? Dunque anche i cani, in questo strano paese, si dividono in fascisti e anti-fascisti?

Pare di sì, se basta un nome – anzi un cognome – a mobilitare il Pd, la Cgil, i partigiani. Lo sanno bene i videomaker che mettono su youtube i loro video beffardi, con cagnolini addestrati ad alzare la zampa destra al comando “saluta il Duce”. Come Andrea V., più di 12 mila visualizzazioni, che spera di evitare guai specificando: “il video è solo a scopo ludico e non ha finalità politiche”.

Salvo aggiungere, quasi a rassicurare sé stesso: “il cane credo non sia veramente fascista”.

La frattura tra ragione e realtà 1 / Su Mosca sventola bandiera rossa

27 Ottobre 2022 - di Paolo Musso

In primo pianoPolitica

Da quando è iniziata la guerra in Ucraina va di moda ripetere che Putin sarebbe un “fascista”. Eppure, sia la logica che i dati di fatto dicono il contrario: Putin è a tutti gli effetti un comunista e anche i suoi comportamenti che possono a prima vista apparire “di destra” in realtà si collocano tutti perfettamente nel solco della tradizione sovietica in cui si è formato. Perché allora questa idea si è diffusa al punto che oggi viene data praticamente per scontata non solo da tutta la sinistra, ma anche da gran parte dei moderati? In parte si tratta di opportunismo politico, ma la ragione più profonda è la perdurante assenza di un giudizio chiaro sulla natura totalitaria del comunismo.

Con questo articolo inizio una serie di interventi su problemi abbastanza diversi fra loro, ma unificati dal tema della frattura tra ragione e realtà, che aveva suscitato un certo dibattito anche fuori dal sito della Fondazione Hume e con il quale avevo concluso i miei contributi sul Covid (che, per la cronaca, usciranno fra poco raccolti in un libro, Covid, la lezione del Pacifico, scritto a sei mani con le mie dottorande Silvia Milone e Loredana Parolisi e con una prefazione di Luca Ricolfi, di cui siamo profondamente onorati e per la quale colgo l’occasione per ringraziarlo pubblicamente).

Anche se la maggior parte di tali interventi riguarderà temi legati alla scienza, che è il mio principale campo di ricerca, voglio dedicare i primi tre (che idealmente costituiscono un unico articolo in tre parti) a una grande questione culturale in cui la suddetta frattura tra ragione e realtà è particolarmente grave, non solo per la sua importanza intrinseca, ancor maggiore dopo le ultime elezioni, ma anche perché ha spesso conseguenze rilevanti per gli altri temi che toccherò in seguito.

Per farlo partirò da una delle cose più surreali che si siano sentite in questi mesi e di cui avevo già parlato in precedenza, ma solo brevemente (https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/): il fatto, cioè, che la sinistra italiana, dopo aver deciso di schierarsi (quasi) compattamente contro Putin, cosa di per sé lodevole, abbia sempre più accentuato le accuse di “populismo” e “sovranismo” che già da tempo gli rivolgeva, fino ad arrivare al paradosso di definirlo esplicitamente “fascista”.

Tale posizione è stata espressa nel modo più chiaro qualche mese fa da Giuseppe Provenzano (non proprio uno qualunque, visto che si tratta del vicesegretario del PD) nella seguente dichiarazione resa a Annalisa Cuzzocrea: «Il problema di filo-putinismo ce l’ha la destra, in particolare quella italiana. Il silenzio di Berlusconi i legami consolidati della lega di Salvini con il partito di Putin, ma anche Giorgia Meloni, che ancora guarda a Trump, l’altro polo del vento conservatore e reazionario, che non a caso definisce Putin “un genio”. Poi c’è qualche cretino di sinistra, avrebbe detto Leonardo Sciascia. Quelli che sono talmente “complessi” da ignorare anche la verità più banale: al Cremlino non sventola bandiera rossa, sventola bandiera nera» (Giuseppe Provenzano, “Giusti gli aiuti militari a Kiev, gli amici di Putin sono a destra”, su La Stampa del 27/03/2022).

Ma se questa è la formulazione più epslicita, non è certo l’unica. Si tratta infatti di una tesi molto comune, non solo tra i politici. Per limitarci agli ultimi giorni, l’hanno ripetuta, fra gli altri, il celebre storico britannico Timothy Garton Ash, il direttore del quotidiano La stampa Massimo Giannini e un opinionista in genere moderato ed equilibrato come Paolo Mieli, che a Porta a porta di domenica 2 ottobre è arrivato addirittura ad affermare che «a parte la Camera dei Fasci e delle Corporazioni» quello di Putin è a tutti gli effetti un regime fascista.

Ma perché Putin dovrebbe essere considerato fascista, questo nessuno lo sa dire. Forse perché è un dittatore? O perché fa una propaganda spudoratamente menzognera? O perché è imperialista? O perché è guerrafondaio? Ma tutte queste caratteristiche le aveva anche il regime sovietico, di cui Putin è figlio legittimo, dato che è stato per 16 anni un alto ufficiale del KGB, ha sempre giudicato una catastrofe la dissoluzione dell’URSS e da tempo, forse da sempre, sta dedicando tutte le sue forze a ricostruirla.

Inoltre, Putin ha l’esplicito sostegno del Partito Comunista Russo, giustifica l’intervento in Ucraina dicendo che bisogna liberarla dai nazisti, chiama i paesi del Terzo Mondo a unirsi a quella che presenta come una crociata contro l’Occidente capitalista che li opprime e segue pedissequamente in ogni dettaglio i metodi dell’Unione Sovietica degli anni Settanta, sia nella comunicazione che nella repressione del dissenso interno e perfino nel modo di fare la guerra, benché ciò rischi di fargliela perdere (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/). E se ancora non bastasse, pochi giorni fa ha ulteriormente chiarito il concetto mettendo a capo della sua sporca guerra il generale Sergey Surovikin, uno dei protagonisti del fallito golpe contro Gorbaciov messo in atto nel 1991 dall’ala dura del Partito Comunista Sovietico in un estremo tentativo di restaurare il vecchio assetto dell’URSS.

È pertanto evidente che chiamare Putin “fascista” è semplicemente grottesco e ricorda molto i mitici servizi del TG3, da sempre monopolio della sinistra, che, quando ci fu la caduta del comunismo in Romania, parlava degli eroici insorti che combattevano «contro i fascisti di Ceausescu» o i discorsi di tanti intellettuali di sinistra di allora sulle «sedicenti Brigate Rosse» che “in realtà” sarebbero state anch’esse “fasciste”.

Ma non solo è falso che Putin sia fascista. È falso anche che lo siano i suoi amici. Per convincersene basta guardare i risultati del voto all’ONU sui referendum-farsa in Donbass.

I 4 paesi che hanno votato a favore della Russia sono tutti retti da dittature comuniste (Bielorussia, Nicaragua e Corea del Nord) o socialiste (Siria). Quanto ai paesi che si sono astenuti (35) o non hanno partecipato al voto (10), di essi 8 sono retti da dittature comuniste (Cina, Cuba, Eritrea, Laos, Tajikistan, Turkmenistan, Venezuela, Vietnam), 11 da governi di sinistra con forti tendenze autoritarie (Algeria, Bolivia, Repubblica Centrafricana, Congo, Mongolia, Mozambico, Namibia, Tanzania, Togo, Uganda, Zimbabwe) e 3 da regimi islamici integralisti apertamente antioccidentali (Iran, Pakistan, Sudan). L’unico regime comunista che abbia votato contro Putin è la Cambogia.

Al contrario, nessun regime di destra ha votato a favore (neanche l’Ungheria del “fascista” Orbán, che anzi ha votato contro, così come il Brasile di Bolsonaro) e soltanto 7 si sono astenuti (Burkina Faso, Burundi, Eswatini, Guinea, Guinea Equatoriale, Mali, Thailandia). Completano il quadro degli astenuti o non votanti 5 repubbliche ex sovietiche, democratiche ma fortemente condizionate da Mosca (Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kyrghizistan, Uzbekistan) e 10 paesi del Terzo Mondo retti da governi moderati (Camerun, El Salvador, Etiopia, Honduras, Gibuti, Lesotho, São Tomé, Sudafrica, Sud Sudan, Sri Lanka), nessuno dei quali ha mai manifestato particolari simpatie per l’estrema destra, almeno in tempi recenti, a parte l’Honduras, che però attualmente ha un governo di centrosinistra. Infine c’è l’India, che gioca una partita tutta sua, retta com’è da un governo nazionalista, ma comunque democratico e con una politica estera spiccatamente terzomondista.

Insomma, non sono esattamente i paesi che ci si aspetterebbe di vedere schierati a sostegno di un regime fascista…

E anche se guardiamo a quanto sta accadendo in Europa, il quadro non cambia molto. L’unico politico occidentale che sia finito sul libro paga di Putin alla luce del sole è il socialdemocratico tedesco Gerhard Schröder, assunto come dirigente (strapagato) di Gazprom non appena terminato il suo mandato di Cancelliere. A rompere la ritrovata solidarietà europea è stato un altro Cancelliere tedesco socialdemocratico, quello attualmente in carica, Olaf Scholz, con il suo sciagurato ostruzionismo all’introduzione di un tetto al prezzo del gas. Il pacifismo di sinistra, dopo un breve periodo di eclissi, sta tornando a riempire le piazze con manifestazioni che, pretendendosi equidistanti tra l’aggredito e l’aggressore, finiscono oggettivamente per essere a favore di quest’ultimo.

Infine, per quanto riguarda l’Italia, il partito più filo-russo attualmente è quello dei 5 Stelle, che ormai da tempo è un partito di sinistra a tutti gli effetti e il cui già annunciato voto contrario alla prossima fornitura di armi all’Ucraina pesa molto più delle parole in libertà di Berlusconi. Queste ultime, infatti, per quanto censurabili, non sono dettate da una strategia politica, bensì dal suo narcisismo e dalla sua incapacità di accettare di non essere più lui il capo, ma non hanno prodotto nessuna conseguenza pratica rilevante e verosimilmente non ne produrranno neanche in futuro.

Poi, certo, è vero che Putin in patria è sostenuto anche dai nazionalisti di destra e dai vertici della Chiesa ortodossa; che si richiama a simbologie che spesso hanno a che fare più con la tradizione zarista e, appunto, ortodossa che con quella comunista; e che, in generale, si presenta come garante dei “veri” valori tradizionali contro la corruzione morale dell’Occidente. Ed è altrettanto vero che è visto con simpatia anche da diversi partiti occidentali di destra, che ha certamente condizionato e  probabilmente pure finanziato (anche se prima di darlo per scontato sarebbe meglio aspettare di vedere le prove promesse dagli USA).

Tuttavia, il fatto che Putin collabori (anche) con forze di destra non significa che sia egli stesso di destra. Anzi, è vero esattamente il contrario: questi, infatti, sono tutti comportamenti da perfetto manuale del KGB, tanto che erano già stati tutti messi in atto da Stalin in persona.

Anzitutto, l’alleanza con forze politiche di qualsiasi orientamento, purché utili alla causa, è sempre stata praticata dall’URSS, che da questo punto di vista era di un pragmatismo, o, più esattamente, di un cinismo totale. Inoltre, ai sovietici trattare con le forze di estrema destra è sempre riuscito più naturale che avere a che fare con quelle democratiche, per via di un’affinità culturale di fondo, dato che marxismo, fascismo e nazismo hanno tutti le loro comuni radici nell’idealismo tedesco, in particolare nella dottrina hegeliana dello Stato etico, anche se dirlo è gravemente politically incorrect e può causare seri problemi (vedi il linciaggio subito per anni da Nolte e De Felice).

Oggi tutti fanno finta di dimenticarsene, ma l’Unione Sovietica è stata per ben due anni alleata della Germania nazista, in virtù dello sciagurato patto Ribbentrop-Molotov che fu all’origine della Seconda Guerra Mondiale, giacché permise a Hitler di rivolgersi contro l’Occidente sapendo di avere le spalle coperte sul fronte orientale. E se Hitler stesso non l’avesse violato, invadendo l’URSS a tradimento (con una decisione che non ha spiegazioni strategiche, ma esclusivamente psichiatriche), quest’ultima non sarebbe mai entrata in guerra al nostro fianco contro i nazisti.

D’altra parte, quando ciò accadde e la sua stessa sopravvivenza fu messa in discussione, Stalin proclamò la mobilitazione generale non in nome del comunismo o della dittatura del proletariato, ma della “Grande Madre Russia”, che (a parte la parola “Madre” al posto di “Santa”, il che obiettivamente per lui sarebbe stato un po’ troppo) si richiamava all’immaginario collettivo della Chiesa ortodossa e non certo a quello dell’Internazionale Socialista.

Ma non si trattò di un fatto episodico e strumentale. A differenza del comunismo europeo, più marcatamente laicista e scientista, quello sovietico ha sempre avuto una forte componente messianica, ascetica e quasi mistica, derivante anch’essa dalla mitologia ortodossa e, in particolare, dall’idea della “missione” unica che Dio avrebbe assegnato alla Russia.

È stato anche grazie a questa idea, sia pure opportunamente “laicizzata”, che Stalin ha potuto giustificare il suo tentativo di realizzare “il socialismo in un solo paese”, che da un punto di vista marxista è una vera e propria eresia. Ed è sempre a causa di questa idea che l’URSS, esattamente come la neo-URSS putiniana di oggi, non ha mai escluso l’uso delle armi nucleari in una guerra contro l’Occidente, anche a costo di rischiare un olocausto atomico su scala globale. In questa prospettiva, infatti, un mondo senza la Russia è letteralmente privo di senso e quindi non vale la pena che continui ad esistere, come Putin ha più volte esplicitamente affermato, benché, di nuovo, da un punto di vista marxista ciò non abbia invece alcun senso.

Eppure, non è solo Putin a dirlo: anche i sovietici ragionavano così. Chi non ci crede vada a leggersi La terza guerra mondiale di Sir John Hackett, generale inglese che per cinque anni fu a capo delle armate NATO dell’Europa Settentrionale (anche se è del 1978 si trova facilmente su Internet). Si tratta di un saggio camuffato da romanzo che a suo tempo fece scalpore e probabilmente ci evitò la terza guerra mondiale di cui parla. Hackett, infatti, riuscì a convincere i paesi europei a tornare a curare le proprie difese convenzionali, mostrando attraverso documenti originali trafugati ai sovietici che questi ultimi se si fossero convinti di poter vincere avrebbero attaccato, anche a costo di rischiare un conflitto nucleare.

Anche il sostegno del Patriarca Kirill, che è arrivato a usare toni degni degli integralisti islamici, promettendo il Paradiso a tutti quelli che moriranno in guerra (mancavano solo le 72 vergini…), è certamente scellerato, ma per niente affatto sorprendente, né tantomeno nuovo. È vero infatti che molti sacerdoti ortodossi si sono opposti eroicamente al regime sovietico e per questo hanno subito dure persecuzioni e spesso perfino il martirio. Tuttavia, storicamente i vertici della Chiesa ortodossa sono sempre stati conniventi con il potere di turno, compreso quello sovietico. E questo non solo per paura o per comodo, ma per una ragione molto più profonda.

Infatti, a differenza di quella cattolica (parola che significa “universale”), la Chiesa ortodossa ha sempre concepito sé stessa come una Chiesa intrinsecamente nazionale. E se è vero che l’amore per la patria è un valore importante, che ha prodotto frutti meravigliosi di arte, di letteratura e di santità, è altrettanto vero che questo particolare modo di concepirlo porta troppo spesso a una sua indebita sacralizzazione. Molti aspetti della cosmovisione ortodossa, pur esposti con linguaggio cristiano, sono di fatto assai più affini ai miti pagani della terra e del sangue che non al cristianesimo. E purtroppo gli dei della terra e del sangue prima o poi pretendono sempre tributi di terra e di sangue.

Su questo aveva detto parole chiarissime la grande poetessa russa Olga Sedakova (collaboratrice dell’associazione Memorial che ha appena vinto il Nobel per la pace) già nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, che è all’origine di ciò che sta accadendo oggi e che era stata giustificata da Putin esattamente con le stesse menzogne: «Putin dice di essere il difensore dei valori tradizionali. È qualcosa di abbastanza comico, perché da noi i valori tradizionali sono stati distrutti ormai molti anni fa. […] Oggi si pensa soltanto al valore della famiglia. Si tratta, in realtà, di una polemica nei confronti della richiesta, in Occidente, di leggi per i matrimoni tra omosessuali. Ma non si parla mai di lavoro, né di persona, né di libertà. L’unica cosa che si accosta alla famiglia è il patriottismo: ognuno deve essere pronto a dare la vita per la patria. Il valore ultimo non è la persona, ma la patria. E non mi pare sia una posizione molto cristiana. […] Ai tempi di Stalin l’aborto era proibito, e le donne morivano perché abortivano clandestinamente senza medici. Esisteva il divieto, non la ragione per cui era sbagliato abortire. Così non ci si faceva problemi ad abortire clandestinamente. Trovo curioso che Stalin sia diventato il nuovo modello di moralità. La società tardo-staliniana era, potremmo dire, vittoriana. Il divorzio, ad esempio, era molto difficile da ottenere, in alcuni casi era addirittura proibito. Ma più che una difesa della famiglia, era un modo per limitare la libertà» (Olga Sedakova, L’infinito contro la noia, in Tracce n. 7, 2014, pp. 40-44).

D’altronde, anche il comunismo occidentale, pur essendo più laico di quello sovietico, in passato era piuttosto “vittoriano” (si pensi solo ai problemi che ebbe Togliatti, che pure era il capo indiscusso del PCI, quando lasciò la moglie per mettersi con Nilde Jotti). Anche da questo punto di vista, pertanto, Putin continua ad agire come un comunista sovietico degli anni Settanta, il periodo in cui si è formato e in cui, come sostengo da tempo, è rimasto mentalmente “imprigionato” (cfr. Paolo Musso, https://www.fondazionehume.it/reality-check/e-se-sulla-no-fly-zone-avesse-ragione-zelensky/ e https://www.fondazionehume.it/politica/la-prevedibile-caporetto-di-putin-e-quella-inquietante-degli-esperti/).

Ma se così stanno le cose, perché allora la sinistra, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, continua a ripetere che Putin è fascista?

Certamente vi è un aspetto di opportunismo politico, perché ciò da un lato la aiuta a far “digerire” più facilmente la guerra ai suoi elettori, tra i quali il pacifismo è ancora molto forte, mentre dall’altro le permette di tacciare di “fascisti” tutti i partiti di destra che hanno simpatie per Putin. Tuttavia, la vera ragione, che in fondo ricomprende anche questa, è molto più profonda.

A metterci sulla strada giusta è lo stesso Provenzano nella parte finale della sua dichiarazione, laddove dice che i “cretini di sinistra” non sono disposti a condannare Putin perché non capiscono che la sua bandiera non è rossa, ma nera, cioè che non è comunista, ma, appunto, fascista. Ciò, infatti, equivale ad affermare che Putin non va condannato in quanto criminale, bensì in quanto fascista. E da questo, secondo logica, seguirebbe che se invece Putin fosse davvero comunista, allora i suddetti “cretini di sinistra” non sarebbero più tali e farebbero bene a non condannarlo anche se lui commettesse esattamente le stesse azioni criminali.

Attenzione! Non sto dicendo che Provenzano pensi realmente questo. Anzi, sono certo che non lo pensa affatto, per la semplice ragione che, come tutti i suoi colleghi, non è nemmeno in grado di concepire un pensiero simile. Infatti, per la sinistra italiana (e non solo italiana) il Male è sempre per definizione di destra e la destra è sempre per definizione il Male, mentre il Bene è sempre per definizione di sinistra e la sinistra è sempre per definizione il Bene. Ne segue che il dilemma su cosa fare se Putin fosse comunista e ciononostante commettesse ugualmente queste nefandezze semplicemente non si pone perché è logicamente impossibile: se Putin fosse comunista, infatti, non potrebbe per definizione commetterle, mentre se le commette non è per definizione comunista.

Ora, questo atteggiamento nasce dal fatto che la sinistra non ha mai fatto realmente i conti con il comunismo (intendo dire con il comunismo in quanto tale e non con questa o quella sua concreta realizzazione storica), rifiutandosi ostinatamente di riconoscerne la natura intrinsecamente totalitaria e perciò irrimediabilmente oppressiva e violenta, attribuendo tali caratteristiche solo ed esclusivamente al totalitarismo di destra. E ciò ha avuto e ha tuttora conseguenze profonde, non solo quanto al giudizio su Putin, ma anche quanto alla questione di fondo della crisi di identità della sinistra e del suo possibile (o impossibile) rinnovamento.

Ne parlerò nel prossimo articolo.

 

Paola Musso

Il manicheismo è la peggiore eredità del fascismo

30 Marzo 2022 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

L’invasione dell’Ucraina voluta dal nuovo imperialismo russo con le sue distruzioni di case, di edifici civili, di monumenti, con le migliaia di vittime civili e militari, con i milioni di profughi che si riversano sulla generosa Polonia rende superflua la domanda da che parte stare. A destra e a sinistra tutti vedono in Putin il reo di crimini contro l’umanità. E tuttavia le opinioni sulle cause della guerra in corso e sul come fermarla divergono spesso radicalmente. Ed è naturale che sia così se si pensa alla  geniale riflessione di G. G. F. Hegel, il più grande filosofo dell’800:” il tragico della storia non è la lotta del giusto contro l’ingiusto, ma quella del giusto contro il giusto”. E’ giusto fornire armi all’Ucraina, si chiedono gli uni, per protrarre una guerra che seminerà altri morti e altre devastazioni? Si può chiedere al Davide ucraino di deporre la fionda e diventare schiavo del Golia russo, ribattono gli altri? Uno stato sovrano non ha il diritto di associarsi, per la sua difesa, con chi gli pare? Sì, ma ci sono considerazioni geopolitiche di cui si dovrebbe tener conto: gli Stati Uniti tollererebbero, forse, un Canada legato alla Cina di Xi? Andando ancora più a monte, alcuni ritengono che la ‘ragion di Stato’—la sicurezza dei confini—sia un retaggio dell’Ottocento e che le democrazie non abbiano nulla da temere le une dalle altre, mentre altri pensano che, ai di là delle forme di governo, essere accerchiati da stati potenzialmente ostili è qualcosa  da evitare.””Meglio rossi che morti” dicono gli uni”. “Non si può   perdere la dignità per salvare la vita’replicano gli altri. “Quot  capita tot sententiae”, dicevano gli antichi. Ebbene è proprio per questo  che anche  gli antiputinaini più convinti (come me) avvertono un fastidio sempre più profondo per le aggressioni verbali piovute su quanti—Donatella Di Cesare, Franco Cardini, Luciano Canfora, Piero Sansonetti etc.—vorrebbero porre fine all”’inutile strage” sia pure con compromessi e lacerazioni dolorose (come quelli, ad es. ,che costarono l’Alsazia-Lorena alla Francia sconfitta da Bismarck). Ci sono giornalisti, come Claudio Cerasa, che senza un nemico ideologico temono di perdere l’identità. E’ questa, in fondo, la peggiore eredità del fascismo.

Dimenticare Tienanmen!

8 Giugno 2019 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoSocietà

L’anniversario della strage di Tienanmen non ha dato la stura ai fiumi di retorica che, soprattutto nel nostro paese, sono lo scotto da pagare in queste ricorrenze. Ci sono diverse buone ragioni che spiegano il ricordo sobrio e quasi in sordina della rivolta contro il Rosso Impero di Mao Tse Tung, il cui ritratto campeggia ancora nella piazza più importante di Pechino.   Leggi di più

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