Fatti e profezie

Quando un manipolo di facinorosi dell’estrema sinistra impedì con la forza al professor Angelo Panebianco di tenere una lezione a Scienze politiche, noi del Carlino faticammo a trovare qualcuno disposto a prendere le sue difese. In precedenza i collettivi universitari fecero irruzione negli uffici del rettore di Bologna e gli appesero al collo un cartello denigratorio, poi vennero l’occupazione della biblioteca di lettere, gli scontri con le forze dell’ordine, i murales che inneggiavano alla vittoria sulla polizia, le bombe anarchiche, le sassaiole no-Tav, le minacce e le botte a un nostro cronista, i rapporti dei servizi segreti sui pericoli rappresentati dall’antagonismo “rosso”, le contestazioni alle presentazioni dei libri di Giampaolo Pansa, le scritte che glorificavano agli assassini delle nuove Br… Mai per una volta abbiamo pensato, e men che meno scritto, che la democrazia fosse in pericolo e che una riedizione del “biennio rosso” o, peggio, del brigatismo post sessantottino fossero realmente alle porte.

Ci siamo limitati a chiedere il rispetto della legge. È bastato che una decina di imbecilli manifestasse davanti a Repubblica o leggesse un proclama anti immigrati nei locali di un’associazione di Como perché si diffondesse un clima da Marcia su Roma incipiente. “Fascisti, un italiano su due ha paura”, era, ieri, il titolo di apertura di Repubblica. Ma davvero? Mica tanto. Il titolo richiamava un sondaggio, la domanda era: ‘‘Secondo lei, quanto è diffuso il fascismo in Italia?’’. L’11% degli intervistati ha risposto ‘‘molto’’, il 35% “abbastanza”; il 48% oscillava tra il “poco” e il “per niente”. La “paura” non figurava nelle domande né nelle risposte, la maggioranza degli intervistati dichiarava di non avvertire il problema. Eppure si è scelto di titolare che “un italiano su due ha paura”. Giornali in crisi di lettori e partiti in crisi di consenso soffiano su flebili fiammelle sparse per il Paese nella speranza che divampi un incendio grazie al quale ritrovare l’identità perduta. Si tratta di un meccanismo antico: quando le élite politiche o culturali della sinistra perdono la presa sulla società, un riflesso pavloviano le spinge ad evocare l’Uomo Nero, la minaccia fascista, la democrazia in pericolo. Per i gruppuscoli dell’estrema destra è una manna. Mai stati così al centro dell’attenzione, neanche ai tempi del vecchio Msi, di Terza posizione e dei Nar. Mai stati così lusingati dai media, che nel descriverli come brutti, sporchi e cattivi ne esaltano il narcisismo e ne gratificano il superominismo spingendoli fatalmente verso azioni sempre più eclatanti. Settant’anni fa, il sociologo americano Robert Merton formulò la tesi della profezia che si autoavvera. «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze», scrisse. Un consiglio agli amici di Repubblica, del Pd e dell’associazionismo “democratico”: rileggetevi Merton (“Teoria e struttura sociale”) e, nei limiti delle vostre convenienze, attenetevi ai fatti.

Articolo pubblicato il 10 dicembre 2017 su QN Quotidiano Nazionale



Unione Europea e Agenzia del farmaco, giusta la scelta di Amsterdam

L’assegnazione dell’EMA ad Amsterdam ha scatenato in Italia la solita reazione, fatta di vittimismo e fantasiose teorie dei complotti. Una reazione che ha accumunato destra e sinistra, politici e media, tutti uniti nel denunciare le malefatte e la miopia dell’Europa. In realtà, l’Europa (o la dea bendata, in questo caso) ha fatto la scelta giusta; e lo scatto d’ira degli italiani è in gran parte la conseguenza di un caso di fake news.

Cominciamo da queste ultime. Si è parlato di un indotto annuale di quasi 2 miliardi. Una cifra di fantasia, come mostra un semplice calcolo spannometrico.  900 dipendenti con uno stipendio medio netto di tasse di 80 mila euro fa circa 70 milioni. 36.000 visitatori all’anno per colloqui e convegni (così ci è stato detto), con una permanenza media (generosa) di cinque giorni, ed una spesa per vitto, alloggio e divertimenti altrettanto generosa di 400 euro al giorno, fa circa 70 milioni.  Mettiamoci pure 30 milioni per il funzionamento dell’ente e la manutenzione dell’immobile. In tutto sono 170 milioni.

Come arriviamo a 2 miliardi? Da quel che si è capito (gli studi di fattibilità, come sempre in questi casi, sono stati commissionati dalle parti in causa e non sono pubblici), principalmente ipotizzando che, a poco a poco, molte aziende farmaceutiche straniere sposteranno parte degli uffici e della produzione a Milano.  Perché debbano farlo non è chiaro. Gli studi sui medicinali non sono condotti direttamente dall’EMA; e le aziende farmaceutiche che contano sono enormi multinazionali, nell’era di Internet l’ultima delle loro considerazioni è dove sia fisicamente l’EMA. Del resto, quante aziende farmaceutiche lombarde hanno intenzione di trasferire la loro produzione ad Amsterdam dopo la decisione di assegnare l’EMA a quella città? Nessuna.

Politici e media italiani sono caduti vittime della fake news sui “due miliardi di benefici” per gli stessi motivi per cui hanno voluto credere alle fake news su Expo 2015 e Olimpiadi: perché sperano sempre in qualche scorciatoia per risolvere i problemi del nostro paese e delle nostre città. Si convincono che costruire un po’ di stand e qualche stadio o villaggio olimpico dia lavoro a decine di migliaia di persone, e trasformi magicamente città di due milioni di abitanti, rendendole dei paradisi di piste ciclabili, parchi parnassiani e vie d’acqua idilliache. Si illudono così di essere al centro del mondo per mesi, e di attirare milioni di turisti che poi passano parola, moltiplicando l’afflusso per decenni a venire.

Coloro che gridano al complotto europeo farebbero bene a riflettere su un dato che è stato opportunamente passato sotto silenzio: i dipendenti dell’EMA hanno espresso una chiara preferenza per Amsterdam: 81 percento, contro il 69 percento per Milano. E chi può biasimarli? Persone e aziende non si spostano in una città perché ha ospitato l’Expo, ma in base a tre criteri: la vivibilità, il capitale umano che vi trovano, e l’efficienza della burocrazia. Silicon Valley è nata in California non perché sia vicino alle spiagge per surfers del Pacifico o si mangino buoni hamburgers, ma perché c’è un bacino di persone con un enorme capitale umano, la burocrazia aiuta invece di ostacolare, e le città sono vivibili (almeno per chi è sopra una certa soglia di reddito).

Il compito dei politici locali dovrebbe essere di creare le condizioni per rendere le città più vivibili, rendendole sicure, pulendo le strade e tappandone le buche, migliorando gli asili nido, costruendo piscine (possibilmente non faraoniche) e campetti da calcio e basket. Il compito dei politici nazionali dovrebbe essere di adeguare il capitale umano di una nazione alle esigenze del mondo moderno, e di tagliare la burocrazia. Quando avranno fatto questo, le aziende estere faranno a gara per venire da noi, e quelle italiane smetteranno di emigrare.

Ma sono tutti lavori poco appariscenti, che richiedono tempo per dispiegare i propri effetti e non danno visibilità. Molto meglio andare in giro per il mondo a raccogliere voti per l’Expo o l’Olimpiade, tagliarne i nastri in tv,  e propagare la fake news che cambieranno il volto e l’economia della città.

 

Articolo uscito su La Repubblica il 25 novembre 2017



A chi piace la bufala politicamente corretta

Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto. C’è una specie di indulgenza quando le bufale sono scritte a titoli cubitali su un giornale progressista e riguardano una causa giudicata buona: la notizia resta falsa, anche se il fine è sacrosanto. Cerchiamo di andare al concreto. Ieri Repubblica a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: “Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%”. Questa notizia è falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze. Giusto evitare le violenze, sbagliato tirare in ballo un numero falso. Così come è vero che Boschi e Boldrini non hanno partecipato al funerale di Riina, ma sbagliato che ci sia un fotomontaggio che le ritragga a quel funerale. Come nel caso della foto falsa bisogna andare alla fonte del numero. Anche se per la foto è più semplice capire che si tratta di una bufala. Quel numero è un macigno. Non basta fare clic con il tasto destro del proprio mouse per vedere chi lo ha prodotto. Né il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica, ci dice da dove esce.

Ve lo diciamo noi.

Tutto nasce da un rapporto Istat del 2015 sui dati del 2014, fatto su mandato del ministero sulle pari opportunità. Non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne. Avete capito, si tratta di un sondaggio. Ma non basta. Nella didascalia di Repubblica, e non solo, si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza.

In realtà la maggior parte di loro subisce la cosiddetta violenza psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l’Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, Ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra.

L’indagine è stata condotta facendo delle domande al campione scelto dall’Istat: la maggior parte riguardano proprio le ipotesi di violenza psicologica. Il questionario elaborato in collaborazione con le operatrici dei centri antiviolenza (per i quali sono reclamati maggiori finanziamenti) prevede infatti sette domande sulla violenza fisica, otto su quella sessuale e la bellezza di 20 su quella psicologica.

I ricercatori hanno messo in evidenza questa emergenza italiana con questo genere di domande: “Il suo partner si arrabbia se lei parla con un altro uomo? La critica per il suo aspetto, per come si veste o si pettina ad esempio dicendole che è poco attraente, inadeguata? È costantemente dubbioso sulla sua fedeltà? Controlla costantemente quanto e come spende? Il suo partner minaccia di uccidersi?” E così via.

A ciò si aggiunga, come ammettono i ricercatori, che le intervistate spesso non hanno la percezione di aver subito violenza. Sono i ricercatori che sanno meglio delle presunte vittime cosa possa essere considerata violenza nei loro confronti. Il timore è che le donne (trattate come dei soggetti inferiori) siano tutte vittime psicologiche dei propri carnefici maschi, non in grado di rispondere adeguatamente ad una serie di domande dirette sul fatto di aver subito o meno una violenza psicologica. Le donne non capirebbero da sole che quando il maschio dice che il risotto fa schifo le sta violentando psicologicamente.

Tutte cose brutte, indelicate, sgarbate. Ma davvero possiamo giudicare la violenza nei confronti delle donne con un questionario del genere?

La statistica al servizio di un’ideologia è quanto abbiamo appena descritto. Sono sconfitte proprio le donne che subiscono violenza. Dire che una donna sua tre in Italia subisce violenza, ridicolizza la denuncia. È buono per un titolo dei giornali e per un tweet, ma non per combattere la violenza vera. Può essere utile per trovare qualche finanziamento a nuove ricerche, a centri burocratici che dovrebbero spiegarci come rispondere a tono al proprio compagno, ma non a salvare una dottoressa di un pronto soccorso siciliano che viene brutalmente violentata nel suo turno di notte, perché nessuno ha previsto un presidio di sicurezza. Come è avvenuto nei mesi scorsi in Sicilia.

Articolo uscito su Il Giornale



True News … Good News

Le questioni istituzionali e di policy giudiziaria sono certamente uno dei terreni sui quali più frequentemente il dibattito viene sepolto sotto la coltre tossica e grigia delle fake news, pseudo news e non-news. Una folla di protagonisti, più o meno qualificati, vaga in quest’universo della surrealtà, con la serietà e la determinazione di chi sta lottando per la sopravvivenza, mentre i dati oggettivi urlano muti il loro desiderio di essere vendicati in nome di una verità semplice, non della Verità ideologica o, peggio, di convenienza, cui si tenta di piegare continuamente la realtà.

Alcuni esempi di questa surrealtà fanno veramente effetto. Mi è capitato qualche giorno fa, ad esempio, di partecipare ad un dibattito pubblico sulla nuova legge elettorale e sentir dire un autorevole esponente politico di un importante gruppo parlamentare che non possa dubitarsi del fatto che una legge elettorale che stabilisce una soglia dell’8 per cento sia certamente più “rappresentativa” (sic) di una che colloca quella soglia al 3 per cento.

La manipolazione della comunicazione pubblica con l’arma impropria della falsificazione è ancora più evidente allorché si applichi quella che io chiamo la “disinformazione di qualità”, la disinformazione cioè messa in atto non da “informatori generici o professionali” (come ad esempio i giornalisti), ma da coloro che professionalmente sarebbero i depositari del sapere tecnico o scientifico: “gli esperti”.

E, tanto per cambiare, i “disinformatori di qualità” pullulano nel mondo del diritto. Un elementare istinto di sopravvivenza mi impedisce di esemplificare questa affermazione con citazioni di episodi realmente accaduti, anche in forma anonima e con omissis sui protagonisti. Si sa, all’occhio vigile della legge non sfugge nulla e lo stesso vale per quello dei giuristi. Meglio non rischiare.

Raramente però si mette in luce un ulteriore effetto nefasto del frullatore della disinformazione. Che cioè la fake news rischiano di nascondere non solo le notizie scomode per taluni interessati, ma anche quelle notizie che potrebbero costituire un motivo di soddisfazione generale, al di là delle opinioni di ciascuno sul loro merito.

Un esempio recente è dato, a mio parere, dal confronto tra la vicenda catalana e quella dei referendum di Lombardia e Veneto. Nell’un caso come nell’altro la materia è certamente molto politicizzata e anche molto divaricante: un ottimo terreno per la mistificazione informativa allo scopo di accrescere i dividendi partigiani.

Eppure, proprio le polarizzazioni spregiudicate, impediscono di mettere in luce alcuni dati che, almeno dal nostro punto di vista, dovrebbero essere considerati un plus  per tutti.

Mi riferisco alla circostanza che, a differenza di quanto accaduto al di là del mediterraneo, la vicenda dei referendum italiani meriterebbe un compiacimento complessivo per come il nostro stato costituzionale ha funzionato, attivando quei meccanismi selettivi che hanno consentito di arginare le spinte anticostituzionali, senza però mortificare l’aspirazione democratica a suggellare con un referendum l’avvio di processi per la realizzazione di forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi dell’art. 116 della Costituzione.

La vicenda referendaria italiana va, infatti, letta, non solo attraverso la lente del processo politico, ma anche attraverso quella delle garanzie costituzionali che si sono manifestate con la sentenza n. 118/2015 della Corte costituzionale, la quale ha sostanzialmente dato il via libera al referendum sulla disciplina dell’art. 116 della Costituzione, frenando invece le pulsioni extra ordinem verso forme di indipendentismo incompatibili con l’Unità della Repubblica italiana.

Insomma in Italia lo stato costituzionale questa volta a funzionato bene.

Che qualcuno valorizzi questi fatti, irriducibili alla partigianeria della polemica abituale (e dunque politicamente apolidi), ma fondamentali per quel Nation building, ancora tutto da fare in questo paese, sarebbe veramente una buona True News.

Un ulteriore mission per questo sito.




Qualcuno dica al signor Renzi di non vendere patacche

Qualcuno dovrà pur dirglielo, prima o poi, che il Presidente del Consiglio non è più lui.

Questo deve aver pensato il ministro Padoan quando, qualche giorno fa a Bruxelles, i giornalisti gli hanno chiesto di commentare le ultime proposte di Renzi in materia di economia: rottamare il fiscal compact, interrompere (anzi invertire) il già lentissimo percorso di riduzione del deficit, usare il deficit aggiuntivo (5 anni di indebitamento al 2.9%) per abbassare le tasse e fare investimenti pubblici.

Ma l’economia non è l’unico terreno su cui l’ex presidente del Consiglio ci martella da giorni. C’è anche il capitolo migranti, che si arricchisce ogni giorno di dichiarazioni e polemiche. Dopo aver praticato l’accoglienza indiscriminata nel suo triennio di governo, Renzi si è bruscamente risvegliato ed ora pare pensarla come Salvini: “aiutiamoli a casa loro”. Mentre per lo Ius soli arriva la decisione del premier Paolo Gentiloni di rimandare tutto all’autunno, con la possibilità che non se ne faccia più niente, per evitare un pericolosissimo voto di fiducia.

Né passa giorno senza che l’irrequieto segretario del Pd lanci i suoi strali, ora anche attraverso il suo nuovo libro (Avanti). Ce n’è per tutti, ma soprattutto per i suoi predecessori, Letta cui lui non ha fatto nulla (è stato il Pd a chiedergli di rottamarlo), Monti che è la vera causa dei nostri guai (se abbiamo le mani legate in economia è colpa sua). E se la Banca d’Italia rivede al rialzo le previsioni del Pil 2017 (dall’1.1% governativo di qualche mese fa a un incoraggiante 1.4%), eccolo di nuovo, che cinguetta su Twitter attraverso le parole del suo alter ego femminile, la sottosegretaria Maria Elena Boschi: “col tempo arrivano le prove che le politiche dei Mille Giorni erano coraggiose e giuste”.

Di fronte a una simile congerie di chiacchiere, forse, non sarebbe male provare a rimettere in fila i fatti. Perché il rischio dei mesi che ci aspettano, di qui alle elezioni (verosimilmente marzo 2018), è quello di una continua confusione fra il piano della realtà e quello della narrazione, fra la pietrosa verità delle cose e le parole alate con cui la politica prova ad addomesticarle.

Due sono, a mio parere, le insidie da cui dovremmo guardarci nei prossimi mesi. La prima è quella di prendere per buoni i propositi, spesso del tutto irrealistici, enunciati da chi si candida a guidare il paese. Vale per l’economia, dove l’idea di fare deficit (2.9% del Pil) per 5 anni, incrementando ulteriormente il nostro enorme debito pubblico, dovrebbe bastare a screditare chiunque la enunci, anziché essere dibattuta come un’alternativa davvero sul tappeto (e bene ha fatto il ministro Padoan a dissociarsene). Ma vale anche per l’immigrazione, dove sarebbe meglio prendere atto dei tre dati di fondo del problema anziché continuare ad alimentare illusioni: primo, l’Italia non ha né la volontà né la capacità di rimpatriare i migranti economici; secondo, la maggior parte degli Stati europei non hanno la minima intenzione di farsi carico dei rifugiati che noi abbiamo accolto; terzo, nessuno Stato europeo è disposto ad aprire i suoi porti alle navi che salvano migranti in mare.

Ma c’è anche un’altra insidia, ben più sottile, da cui dovremmo guardarci. Ed è l’insidia dei falsi bilanci, o fake stories (come verrebbe da chiamarle in questa strana era di fake news e di story telling). All’università c’è persino una disciplina scientifica che se ne occupa, si chiama “Analisi delle politiche pubbliche”. Dovrebbe essere obbligatoria per chi pretende di fare politica, e non farebbe male neppure a giornalisti e conduttori televisivi.

Che cosa si insegna in questa disciplina? In sostanza si insegnano le tecniche statistico-matematiche che, a certe condizioni, permettono di capire se un cambiamento intervenuto in un determinato sistema sociale in un dato arco di tempo è attribuibile all’azione di un decisore pubblico (tipicamente: un governo, nazionale o locale), e in quale misura. Ad esempio, se un aumento dell’occupazione, o della disoccupazione, o della povertà, è attribuibile a misure varate da un determinato governo. Quando sono usate con successo, queste tecniche di analisi dei dati aiutano ad evitare lo spettacolo cui i politici ci sottopongono sistematicamente quando raccontano i propri anni di governo.

Quali sono i capisaldi di questo spettacolo?

Sono tre: ignorare i fatti negativi, selezionare quelli positivi, attribuire questi ultimi alle politiche del governo.

Esempio. Ignorare che la povertà assoluta è aumentata e che il tasso di occupazione precaria ha toccato il massimo storico; sottolineare che l’occupazione è cresciuta e il Pil sta progredendo più velocemente di prima; attribuire questi ultimi risultati (positivi) all’azione di governo, e non fornire alcun resoconto dei primi (negativi).

Curioso. Uno studente di “Analisi delle politiche pubbliche” che ragionasse così sarebbe bocciato senza la minima esitazione. Un politico, invece, ottiene la deferente attenzione del pubblico e dei media.

Anche questo è un privilegio della casta. E, su di noi cittadini che dai politici siamo governati, produce effetti ben più gravi di quelli che siamo soliti attribuire ai vizi dei nostri governanti.

Pubblica su Panorama il 20 luglio 2017