Unione Europea e Agenzia del farmaco, giusta la scelta di Amsterdam

L’assegnazione dell’EMA ad Amsterdam ha scatenato in Italia la solita reazione, fatta di vittimismo e fantasiose teorie dei complotti. Una reazione che ha accumunato destra e sinistra, politici e media, tutti uniti nel denunciare le malefatte e la miopia dell’Europa. In realtà, l’Europa (o la dea bendata, in questo caso) ha fatto la scelta giusta; e lo scatto d’ira degli italiani è in gran parte la conseguenza di un caso di fake news.

Cominciamo da queste ultime. Si è parlato di un indotto annuale di quasi 2 miliardi. Una cifra di fantasia, come mostra un semplice calcolo spannometrico.  900 dipendenti con uno stipendio medio netto di tasse di 80 mila euro fa circa 70 milioni. 36.000 visitatori all’anno per colloqui e convegni (così ci è stato detto), con una permanenza media (generosa) di cinque giorni, ed una spesa per vitto, alloggio e divertimenti altrettanto generosa di 400 euro al giorno, fa circa 70 milioni.  Mettiamoci pure 30 milioni per il funzionamento dell’ente e la manutenzione dell’immobile. In tutto sono 170 milioni.

Come arriviamo a 2 miliardi? Da quel che si è capito (gli studi di fattibilità, come sempre in questi casi, sono stati commissionati dalle parti in causa e non sono pubblici), principalmente ipotizzando che, a poco a poco, molte aziende farmaceutiche straniere sposteranno parte degli uffici e della produzione a Milano.  Perché debbano farlo non è chiaro. Gli studi sui medicinali non sono condotti direttamente dall’EMA; e le aziende farmaceutiche che contano sono enormi multinazionali, nell’era di Internet l’ultima delle loro considerazioni è dove sia fisicamente l’EMA. Del resto, quante aziende farmaceutiche lombarde hanno intenzione di trasferire la loro produzione ad Amsterdam dopo la decisione di assegnare l’EMA a quella città? Nessuna.

Politici e media italiani sono caduti vittime della fake news sui “due miliardi di benefici” per gli stessi motivi per cui hanno voluto credere alle fake news su Expo 2015 e Olimpiadi: perché sperano sempre in qualche scorciatoia per risolvere i problemi del nostro paese e delle nostre città. Si convincono che costruire un po’ di stand e qualche stadio o villaggio olimpico dia lavoro a decine di migliaia di persone, e trasformi magicamente città di due milioni di abitanti, rendendole dei paradisi di piste ciclabili, parchi parnassiani e vie d’acqua idilliache. Si illudono così di essere al centro del mondo per mesi, e di attirare milioni di turisti che poi passano parola, moltiplicando l’afflusso per decenni a venire.

Coloro che gridano al complotto europeo farebbero bene a riflettere su un dato che è stato opportunamente passato sotto silenzio: i dipendenti dell’EMA hanno espresso una chiara preferenza per Amsterdam: 81 percento, contro il 69 percento per Milano. E chi può biasimarli? Persone e aziende non si spostano in una città perché ha ospitato l’Expo, ma in base a tre criteri: la vivibilità, il capitale umano che vi trovano, e l’efficienza della burocrazia. Silicon Valley è nata in California non perché sia vicino alle spiagge per surfers del Pacifico o si mangino buoni hamburgers, ma perché c’è un bacino di persone con un enorme capitale umano, la burocrazia aiuta invece di ostacolare, e le città sono vivibili (almeno per chi è sopra una certa soglia di reddito).

Il compito dei politici locali dovrebbe essere di creare le condizioni per rendere le città più vivibili, rendendole sicure, pulendo le strade e tappandone le buche, migliorando gli asili nido, costruendo piscine (possibilmente non faraoniche) e campetti da calcio e basket. Il compito dei politici nazionali dovrebbe essere di adeguare il capitale umano di una nazione alle esigenze del mondo moderno, e di tagliare la burocrazia. Quando avranno fatto questo, le aziende estere faranno a gara per venire da noi, e quelle italiane smetteranno di emigrare.

Ma sono tutti lavori poco appariscenti, che richiedono tempo per dispiegare i propri effetti e non danno visibilità. Molto meglio andare in giro per il mondo a raccogliere voti per l’Expo o l’Olimpiade, tagliarne i nastri in tv,  e propagare la fake news che cambieranno il volto e l’economia della città.

 

Articolo uscito su La Repubblica il 25 novembre 2017



A chi piace la bufala politicamente corretta

Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto. C’è una specie di indulgenza quando le bufale sono scritte a titoli cubitali su un giornale progressista e riguardano una causa giudicata buona: la notizia resta falsa, anche se il fine è sacrosanto. Cerchiamo di andare al concreto. Ieri Repubblica a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: “Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%”. Questa notizia è falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze. Giusto evitare le violenze, sbagliato tirare in ballo un numero falso. Così come è vero che Boschi e Boldrini non hanno partecipato al funerale di Riina, ma sbagliato che ci sia un fotomontaggio che le ritragga a quel funerale. Come nel caso della foto falsa bisogna andare alla fonte del numero. Anche se per la foto è più semplice capire che si tratta di una bufala. Quel numero è un macigno. Non basta fare clic con il tasto destro del proprio mouse per vedere chi lo ha prodotto. Né il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica, ci dice da dove esce.

Ve lo diciamo noi.

Tutto nasce da un rapporto Istat del 2015 sui dati del 2014, fatto su mandato del ministero sulle pari opportunità. Non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne. Avete capito, si tratta di un sondaggio. Ma non basta. Nella didascalia di Repubblica, e non solo, si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza.

In realtà la maggior parte di loro subisce la cosiddetta violenza psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l’Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, Ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra.

L’indagine è stata condotta facendo delle domande al campione scelto dall’Istat: la maggior parte riguardano proprio le ipotesi di violenza psicologica. Il questionario elaborato in collaborazione con le operatrici dei centri antiviolenza (per i quali sono reclamati maggiori finanziamenti) prevede infatti sette domande sulla violenza fisica, otto su quella sessuale e la bellezza di 20 su quella psicologica.

I ricercatori hanno messo in evidenza questa emergenza italiana con questo genere di domande: “Il suo partner si arrabbia se lei parla con un altro uomo? La critica per il suo aspetto, per come si veste o si pettina ad esempio dicendole che è poco attraente, inadeguata? È costantemente dubbioso sulla sua fedeltà? Controlla costantemente quanto e come spende? Il suo partner minaccia di uccidersi?” E così via.

A ciò si aggiunga, come ammettono i ricercatori, che le intervistate spesso non hanno la percezione di aver subito violenza. Sono i ricercatori che sanno meglio delle presunte vittime cosa possa essere considerata violenza nei loro confronti. Il timore è che le donne (trattate come dei soggetti inferiori) siano tutte vittime psicologiche dei propri carnefici maschi, non in grado di rispondere adeguatamente ad una serie di domande dirette sul fatto di aver subito o meno una violenza psicologica. Le donne non capirebbero da sole che quando il maschio dice che il risotto fa schifo le sta violentando psicologicamente.

Tutte cose brutte, indelicate, sgarbate. Ma davvero possiamo giudicare la violenza nei confronti delle donne con un questionario del genere?

La statistica al servizio di un’ideologia è quanto abbiamo appena descritto. Sono sconfitte proprio le donne che subiscono violenza. Dire che una donna sua tre in Italia subisce violenza, ridicolizza la denuncia. È buono per un titolo dei giornali e per un tweet, ma non per combattere la violenza vera. Può essere utile per trovare qualche finanziamento a nuove ricerche, a centri burocratici che dovrebbero spiegarci come rispondere a tono al proprio compagno, ma non a salvare una dottoressa di un pronto soccorso siciliano che viene brutalmente violentata nel suo turno di notte, perché nessuno ha previsto un presidio di sicurezza. Come è avvenuto nei mesi scorsi in Sicilia.

Articolo uscito su Il Giornale



True News … Good News

Le questioni istituzionali e di policy giudiziaria sono certamente uno dei terreni sui quali più frequentemente il dibattito viene sepolto sotto la coltre tossica e grigia delle fake news, pseudo news e non-news. Una folla di protagonisti, più o meno qualificati, vaga in quest’universo della surrealtà, con la serietà e la determinazione di chi sta lottando per la sopravvivenza, mentre i dati oggettivi urlano muti il loro desiderio di essere vendicati in nome di una verità semplice, non della Verità ideologica o, peggio, di convenienza, cui si tenta di piegare continuamente la realtà.

Alcuni esempi di questa surrealtà fanno veramente effetto. Mi è capitato qualche giorno fa, ad esempio, di partecipare ad un dibattito pubblico sulla nuova legge elettorale e sentir dire un autorevole esponente politico di un importante gruppo parlamentare che non possa dubitarsi del fatto che una legge elettorale che stabilisce una soglia dell’8 per cento sia certamente più “rappresentativa” (sic) di una che colloca quella soglia al 3 per cento.

La manipolazione della comunicazione pubblica con l’arma impropria della falsificazione è ancora più evidente allorché si applichi quella che io chiamo la “disinformazione di qualità”, la disinformazione cioè messa in atto non da “informatori generici o professionali” (come ad esempio i giornalisti), ma da coloro che professionalmente sarebbero i depositari del sapere tecnico o scientifico: “gli esperti”.

E, tanto per cambiare, i “disinformatori di qualità” pullulano nel mondo del diritto. Un elementare istinto di sopravvivenza mi impedisce di esemplificare questa affermazione con citazioni di episodi realmente accaduti, anche in forma anonima e con omissis sui protagonisti. Si sa, all’occhio vigile della legge non sfugge nulla e lo stesso vale per quello dei giuristi. Meglio non rischiare.

Raramente però si mette in luce un ulteriore effetto nefasto del frullatore della disinformazione. Che cioè la fake news rischiano di nascondere non solo le notizie scomode per taluni interessati, ma anche quelle notizie che potrebbero costituire un motivo di soddisfazione generale, al di là delle opinioni di ciascuno sul loro merito.

Un esempio recente è dato, a mio parere, dal confronto tra la vicenda catalana e quella dei referendum di Lombardia e Veneto. Nell’un caso come nell’altro la materia è certamente molto politicizzata e anche molto divaricante: un ottimo terreno per la mistificazione informativa allo scopo di accrescere i dividendi partigiani.

Eppure, proprio le polarizzazioni spregiudicate, impediscono di mettere in luce alcuni dati che, almeno dal nostro punto di vista, dovrebbero essere considerati un plus  per tutti.

Mi riferisco alla circostanza che, a differenza di quanto accaduto al di là del mediterraneo, la vicenda dei referendum italiani meriterebbe un compiacimento complessivo per come il nostro stato costituzionale ha funzionato, attivando quei meccanismi selettivi che hanno consentito di arginare le spinte anticostituzionali, senza però mortificare l’aspirazione democratica a suggellare con un referendum l’avvio di processi per la realizzazione di forme e condizioni particolari di autonomia ai sensi dell’art. 116 della Costituzione.

La vicenda referendaria italiana va, infatti, letta, non solo attraverso la lente del processo politico, ma anche attraverso quella delle garanzie costituzionali che si sono manifestate con la sentenza n. 118/2015 della Corte costituzionale, la quale ha sostanzialmente dato il via libera al referendum sulla disciplina dell’art. 116 della Costituzione, frenando invece le pulsioni extra ordinem verso forme di indipendentismo incompatibili con l’Unità della Repubblica italiana.

Insomma in Italia lo stato costituzionale questa volta a funzionato bene.

Che qualcuno valorizzi questi fatti, irriducibili alla partigianeria della polemica abituale (e dunque politicamente apolidi), ma fondamentali per quel Nation building, ancora tutto da fare in questo paese, sarebbe veramente una buona True News.

Un ulteriore mission per questo sito.




Qualcuno dica al signor Renzi di non vendere patacche

Qualcuno dovrà pur dirglielo, prima o poi, che il Presidente del Consiglio non è più lui.

Questo deve aver pensato il ministro Padoan quando, qualche giorno fa a Bruxelles, i giornalisti gli hanno chiesto di commentare le ultime proposte di Renzi in materia di economia: rottamare il fiscal compact, interrompere (anzi invertire) il già lentissimo percorso di riduzione del deficit, usare il deficit aggiuntivo (5 anni di indebitamento al 2.9%) per abbassare le tasse e fare investimenti pubblici.

Ma l’economia non è l’unico terreno su cui l’ex presidente del Consiglio ci martella da giorni. C’è anche il capitolo migranti, che si arricchisce ogni giorno di dichiarazioni e polemiche. Dopo aver praticato l’accoglienza indiscriminata nel suo triennio di governo, Renzi si è bruscamente risvegliato ed ora pare pensarla come Salvini: “aiutiamoli a casa loro”. Mentre per lo Ius soli arriva la decisione del premier Paolo Gentiloni di rimandare tutto all’autunno, con la possibilità che non se ne faccia più niente, per evitare un pericolosissimo voto di fiducia.

Né passa giorno senza che l’irrequieto segretario del Pd lanci i suoi strali, ora anche attraverso il suo nuovo libro (Avanti). Ce n’è per tutti, ma soprattutto per i suoi predecessori, Letta cui lui non ha fatto nulla (è stato il Pd a chiedergli di rottamarlo), Monti che è la vera causa dei nostri guai (se abbiamo le mani legate in economia è colpa sua). E se la Banca d’Italia rivede al rialzo le previsioni del Pil 2017 (dall’1.1% governativo di qualche mese fa a un incoraggiante 1.4%), eccolo di nuovo, che cinguetta su Twitter attraverso le parole del suo alter ego femminile, la sottosegretaria Maria Elena Boschi: “col tempo arrivano le prove che le politiche dei Mille Giorni erano coraggiose e giuste”.

Di fronte a una simile congerie di chiacchiere, forse, non sarebbe male provare a rimettere in fila i fatti. Perché il rischio dei mesi che ci aspettano, di qui alle elezioni (verosimilmente marzo 2018), è quello di una continua confusione fra il piano della realtà e quello della narrazione, fra la pietrosa verità delle cose e le parole alate con cui la politica prova ad addomesticarle.

Due sono, a mio parere, le insidie da cui dovremmo guardarci nei prossimi mesi. La prima è quella di prendere per buoni i propositi, spesso del tutto irrealistici, enunciati da chi si candida a guidare il paese. Vale per l’economia, dove l’idea di fare deficit (2.9% del Pil) per 5 anni, incrementando ulteriormente il nostro enorme debito pubblico, dovrebbe bastare a screditare chiunque la enunci, anziché essere dibattuta come un’alternativa davvero sul tappeto (e bene ha fatto il ministro Padoan a dissociarsene). Ma vale anche per l’immigrazione, dove sarebbe meglio prendere atto dei tre dati di fondo del problema anziché continuare ad alimentare illusioni: primo, l’Italia non ha né la volontà né la capacità di rimpatriare i migranti economici; secondo, la maggior parte degli Stati europei non hanno la minima intenzione di farsi carico dei rifugiati che noi abbiamo accolto; terzo, nessuno Stato europeo è disposto ad aprire i suoi porti alle navi che salvano migranti in mare.

Ma c’è anche un’altra insidia, ben più sottile, da cui dovremmo guardarci. Ed è l’insidia dei falsi bilanci, o fake stories (come verrebbe da chiamarle in questa strana era di fake news e di story telling). All’università c’è persino una disciplina scientifica che se ne occupa, si chiama “Analisi delle politiche pubbliche”. Dovrebbe essere obbligatoria per chi pretende di fare politica, e non farebbe male neppure a giornalisti e conduttori televisivi.

Che cosa si insegna in questa disciplina? In sostanza si insegnano le tecniche statistico-matematiche che, a certe condizioni, permettono di capire se un cambiamento intervenuto in un determinato sistema sociale in un dato arco di tempo è attribuibile all’azione di un decisore pubblico (tipicamente: un governo, nazionale o locale), e in quale misura. Ad esempio, se un aumento dell’occupazione, o della disoccupazione, o della povertà, è attribuibile a misure varate da un determinato governo. Quando sono usate con successo, queste tecniche di analisi dei dati aiutano ad evitare lo spettacolo cui i politici ci sottopongono sistematicamente quando raccontano i propri anni di governo.

Quali sono i capisaldi di questo spettacolo?

Sono tre: ignorare i fatti negativi, selezionare quelli positivi, attribuire questi ultimi alle politiche del governo.

Esempio. Ignorare che la povertà assoluta è aumentata e che il tasso di occupazione precaria ha toccato il massimo storico; sottolineare che l’occupazione è cresciuta e il Pil sta progredendo più velocemente di prima; attribuire questi ultimi risultati (positivi) all’azione di governo, e non fornire alcun resoconto dei primi (negativi).

Curioso. Uno studente di “Analisi delle politiche pubbliche” che ragionasse così sarebbe bocciato senza la minima esitazione. Un politico, invece, ottiene la deferente attenzione del pubblico e dei media.

Anche questo è un privilegio della casta. E, su di noi cittadini che dai politici siamo governati, produce effetti ben più gravi di quelli che siamo soliti attribuire ai vizi dei nostri governanti.

Pubblica su Panorama il 20 luglio 2017



La leggenda dei 60 miliardi

Testo a cura di  Caterina Guidoni e Luca Ricolfi.

Curioso. Sulla stampa si parla ad ogni pie’ sospinto dei pregiudizi della gente, ingannata da leggende metropolitane, dalle bufale che circolano su internet, dai discorsi di demagoghi senza scrupoli. Ben poca attenzione, invece, viene riservata ai pregiudizi dei giornalisti stessi.

Quante volte, giusto per citare un esempio clamoroso e persistente, abbiamo letto che “in Italia 1 giovane su 2 è disoccupato”? (affermazione falsa, che si basa sulla semplice ignoranza di che cosa sia il tasso di disoccupazione: i giovani disoccupati sono circa 1 su 10).

Ma il caso più interessante di pregiudizio giornalistico è probabilmente quello della corruzione che “ci costa 60 miliardi l’anno”.

Questo numero rimbalza sui grandi organi di informazione italiani (ma non solo: ci sono cascati anche Reuters e Washington Post) da circa 7 anni, ovvero da quando, siamo nel giugno del 2009, la Corte dei Conti (nel Giudizio sul rendiconto generale dello Stato 2008) scrive che il fenomeno della corruzione nella P.A. può incidere sull’economia ben oltre le stime di 50/60 miliardi l’anno, che la Corte stessa (erroneamente, come vedremo) attribuisce al Servizio Anticorruzione e Trasparenza (SAeT) del Ministero della Pubblica Amministrazione.

Da dove proviene questo numero che ricorre instancabilmente da anni su quotidiani italiani e stranieri? E soprattutto, come ha fatto a durare così a lungo nonostante sia del tutto campato per aria?

Per capirlo, dobbiamo andare con ordine.

1. Nel 2004 la Banca Mondiale pubblica una ricerca riguardante governance e corruzione  (Daniel Kauffman,  World Bank) in cui si stima che il costo delle tangenti pagate da aziende e persone fisiche nel mondo sia pari a mille miliardi di dollari e cioè circa il 3-4% del PIL mondiale.

2. Dopo un po’ di tempo, in Italia comincia a circolare la stima secondo cui la corruzione ci costa 60 miliardi di euro l’anno; nessuno sa con precisione quando, dove e come questa stima sia saltata fuori; secondo ceifan.org (sito anti-bufale) questo qualcuno è un anziano signore appassionato della materia che durante un convegno tira fuori questa cifra facendo una semplice proporzione: corruzione in Italia sta a corruzione nel mondo come Pil italiano sta a Pil mondiale.

Nel produrre questa stima il nostro misterioso signore commette due grossolani errori. Primo, pare ignorare che la stima della Banca Mondiale non si riferisce ai costi della corruzione (qualsiasi cosa questa dizione indichi); secondo, dimentica che la Banca Mondiale sottolinea che il peso delle tangenti sul Pil varia molto da paese a paese.

3. Nel febbraio 2009, il Rapporto al Parlamento del SAeT (Servizio anticorruzione e Trasparenza), presentato dall’allora Ministro Brunetta, mette in guardia da questa stima che, ottenuta senza un modello scientifico, rischia soltanto di creare confusione. In teoria, ovvero se la gente leggesse i testi che cita, la storia dovrebbe finire qui.

4. Invece, pochi mesi dopo, nel giugno 2009, la Corte dei Conti sul “Giudizio sul rendiconto generale dello stato 2008” scrive che l’impatto sociale del fenomeno della corruzione nella P.A. può incidere sull’economia ben oltre le stime di 50/60 mld l’anno del Servizio Anticorruzione e Trasparenza del Ministero della P.A., senza rendersi conto che il SAeT non solo non aveva prodotto quelle stime, ma le aveva messe in dubbio. Così, grazie a questa sciatteria della Corte dei Conti, la cifra acquisisce attendibilità.

5. A questo punto il numero comincia a diffondersi sui principali quotidiani che lo riportano come cifra ufficiale attestata nel rendiconto, guardandosi bene dal controllare come la cifra sia stata ottenuta.

6. L’anno successivo  (2010) il Rapporto del SAeT torna sull’argomento : “[…]Tale ipotesi (il valore della corruzione in Italia pari a 60 mld (N.d.R.) è smentita, non solo dalla fantasiosità del procedimento usato per calcolarla, ma, prima di tutto, dal Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Kimoon, che […] ha ricordato come il costo della corruzione mondiale sia prossimo a one trillion dollar, cioè 700 miliardi di euro: pensare che in Italia sia localizzato l’8,5% della corruzione mondiale fa un po’ sorridere anche i più pessimisti[…]”.

7. Questo passaggio viene ripreso l’anno successivo (2011) nella “Relazione al Parlamento sullo stato della Pubblica Amministrazione” del Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione (Renato Brunetta).

8. Malgrado ciò, nel 2012 la Corte dei conti torna ad attribuire la stima dei 60 mld SAeT. Nella relazione del procuratore generale si legge: “se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal SAeT […], rispetto a quanto rilevato dalla Commissione EU l’Italia deterrebbe il 50% dell’intero giro economico della corruzione in Europa!”.

9. Questa affermazione viene letta dai media come un’ulteriore prova della validità della stima. Non tenendo conto che anche sul Rapporto del SAeT si ritenesse questa cifra “esagerata”.

10. Due anni dopo, nel 2014, l’UE prende per buona la stima dei 60 miliardi come proveniente dalla Corte dei Conti, nonostante essa sia totalmente incoerente con quella fatta dalla Commissione stessa nel 2011, in cui si calcolava che la corruzione in Europa valesse 120 miliardi di euro, ossia l’1% del PIL europeo. Pare quantomeno irrealistico che l’Italia da sola contribuisca al 50% della corruzione dell’UE.

A quanto ci risulta, il primo ad accorgersi della bufala e a denunciarla è stato il blog Quattrogatti del Fatto Quotidiano, fin dal 22 ottobre 2012. Curiosamente, da allora nessuna seria autocritica è mai comparsa sui maggiori quotidiani o in Tv, e la denuncia della “leggenda dei 60 miliardi” ha continuato a vivere quasi esclusivamente nel mondo di internet. Forse a riprova del fatto che, su internet, oggi si trova il peggio e il meglio dell’informazione.

Il Pregiudizio Universale, Laterza (2016)