Sulla svolta di Zuckerberg – Requiem per il fact checking

La marcia indietro di Zuckerberg sul fact checking e sulle politiche di assunzione pro-minoranze sessuali ha verosimilmente origine nella pavidità, o meglio nella sete di potere. Il padrone di META fa indubbiamente parte dell’establishment, e non ha laminima intenzione – ora che a comandare sono Trump & Musk – di rinunciare alla propria centralità, con i vantaggi che ne conseguono in termini di denaro, potere, prestigio. La tesi che la svolta sia maturata da una riflessione sulla libertà nella Rete, messa a repentaglio dal gigantesco apparato di algoritmi-sentinella e cacciatori di fake news, è a sua volta un tipico esempio di fake news. La libertà della Rete non c’entra nulla, e non c’è nulla di realistico nell’idea che – lasciando miliardi di utenti liberi di scorazzare e insultarsi in Rete – la verità emerga, grazie alla “mano invisibile” del web. Quel che avremo, in realtà, sarà solo un po’ più di Far West.

Detto tutto questo, però, non sono in alcun modo fra quanti rimpiangono l’era del fact checking. E non lo sono per esperienza diretta, come cittadino e come studioso.

Come cittadino, non ho apprezzato il modo in cui, durante la pandemia e la guerra in Ucraina, la macchina del fact checking – per lo più in sintonia con la grande stampa e le grandi reti tv – ha impedito ogni discussione libera, documentata e intellettualmente onesta sul vaccino e sul conflitto Russia-Ucraina. Ricordate come veniva trattato chiunque dicesse che i vaccini erano sperimentali? o chi segnalava gli effetti avversi? o chi dubitava dell’eticità delle restrizioni alla libertà di circolazione?
o chi sosteneva che i vaccinati potessero trasmettere il virus?

Non solo. Ricordate come veniva redarguito chi, a proposito di guerra in Ucraina, non iniziasse il suo intervento premettendo che c’era un aggredito e c’era un aggressore? Ricordate l’etichetta di “putinismo” appioppata a chiunque dicesse qualcosa che potesse suonare come giustificazione, o attenuazione di responsabilità, della Russia? Ricordate quante voci un tempo autorevoli sono state cancellate dal dibattito pubblico perché non sufficientemente e non abbastanza convintamente schierate con la parte giusta?

E i cosiddetti fatti? Quante ipotesi su fatti non accertati sono state bollate come bufale complottiste, salvo poi ammettere – mesi o anni dopo – che erano vere, o non del tutto destituite di fondamento?

Ma veniamo al me studioso (sociologo e analista dei dati). Per mestiere sono stato per anni un frequentatore di siti di fact checking. Ebbene, la mia esperienza è stata la seguente: quasi sempre, dopo poche righe, capivo quale era l’intenzione del fact checker, ossia qual era l’obiettivo politico del suo lavoro di smontaggio, o debunking, come ora si preferisce chiamarlo. E altrettanto quasi sempre mi rendevo conto che lo scopo del fact checking era difendere, affermare, imporre qualche variante dell’ortodossia progressista.

Non è tutto però. Qualche volta, se il fact checking era firmato, andavo a vedere quali erano le credenziali scientifiche del fact checker. E invariabilmente dovevo constatare che non avevano nulla a che fare con l’argomento affrontato. Generiche competenze
in materia di comunicazione, lauree in discipline deboli, esperienze nei campi più svariati erano alla base di analisi che, fra gli studiosi, hanno sempre richiesto competenze approfondite e specialistiche.

Dunque, il fact checking è stato, in questi anni, fondamentalmente privo dei due requisiti che, soli, lo legittimerebbero: l’imparzialità e la competenza. Più che fact checking, è stato fake checking. Un disastro frutto di due grandi processi storici: da un lato, il “tradimento dei chierici”, che negli anni ’20 del secolo scorso – come spiegò a suo tempo Julien Benda – condusse gli intellettuali a schierarsi acriticamente con i fascismi e i nazionalismi, e negli anni ’20 del nostro secolo li vede compattamente schierati con il pensiero unico progressista; dall’altro, lo sdoganamento – in nome della democrazia – di tutte le opinioni e di tutte le fonti, un processo culminato con l’ascesa dei movimenti populisti e qualunquisti.

E ora?

Ora il quadro è in rapido cambiamento: stiamo passando da un Far West in cui gli sceriffi sono quasi tutti corrotti, a un Far West senza sceriffi.

Voi che cosa preferireste?

[articolo uscito sulla Ragione il 14 gennaio 2025]




Quando il “fact checking” è farlocco

Chi ama informarsi su internet, girovagando fra un sito e l’altro, si sarà sicuramente accorto della recente nascita di un nuovo genere letterario: il “fact checking”, o controllo dei fatti. Sotto questa etichetta, vagamente pretenziosa, centinaia di analisti si autonominano giudici delle affermazioni di politici, giornalisti, studiosi, industriali, scrittori, figure pubbliche in genere.
Il fenomeno è interessante, e merita una riflessione. La prima cosa che colpisce è la mancanza di competenze specifiche, pertinenti e soprattutto riconosciute, di molti autori di spietate “verifiche” delle affermazioni altrui. In perfetto stile internet, per cui uno vale uno e tutti abbiamo diritto di dire la nostra, chiunque si sente autorizzato a improvvisare audaci operazioni di fact checking, quasi sempre volte a smontare quel che qualcun altro ha detto. Ma l’aspetto più interessante è che non di rado gli esperti, ovvero coloro che hanno una riconosciuta competenza o esperienza riguardo all’argomento di cui si parla, risultano ancora meno affidabili dei dilettanti. La faziosità è endemica fra coloro che si occupano di temi scottanti, specie se l’analista si sente impegnato nella difesa di una buona causa.
Per capire come tutto ciò sia possibile dovremmo, prima di tutto, renderci conto che il genere letterario fact checking non è un genere omogeneo. O meglio: l’espressione fact checking è usata per tre tipi molto diversi di operazioni critiche.
Il primo tipo di fact checking potremmo, con un piemontesismo, definirlo il fact checking dei “pistini”, o dei pignoli. Esso si applica ad affermazioni relativamente poco importanti, talora espresse in modo vago, ma che è (abbastanza) facile controllare se si ha un minimo di dimestichezza con le fonti statistiche. Questo tipo di fact checking, che non interesserebbe nessuno se non coinvolgesse figure pubbliche, viene per lo più usato per punzecchiare i politici sgraditi e assolvere i politici graditi. Di norma non è erroneo, ma solo tendenzioso nella scelta dei bersagli. Il politico dice che il Pil è aumentato dell’1.7 nell’anno x, il pistino gli obietta che in realtà è aumentato dell’1.4%. Il giornalista di fama afferma che il paese y ospita la metà dei richiedenti asilo dell’Italia, il pistino gli obietta che non è esatto, che dipende dal periodo di riferimento, e comunque bisogna capire che cosa intendesse quel giornalista. L’effetto che questo tipo di fact checking esercita sui politici è più o meno quello di una mosca sulla schiena di una mucca.
Il secondo tipo di fact checking si potrebbe chiamare il fact checking delle “sentinelle”, o dei guardiani dei fatti. L’unica vera differenza con il fact checking dei pistini è che le affermazioni sottoposte a controllo riguardano fatti “caldi”, che ciascuno di noi può giudicare più o meno interessanti, ma che pochi si azzarderebbero a considerare irrilevanti. L’idea delle sentinelle è che, su certi fatti, chi ha responsabilità pubbliche o è molto conosciuto non si possa permettere di dire il falso. Non puoi dire che il debito è diminuito se è aumentato (e viceversa), non puoi dire che i morti in mare sono aumentati se sono diminuiti (e viceversa), e così via. Un caso tipico è il recente fact checking cui, sul sito lavoceinfo, è stato sottoposto un clamoroso errore di Saviano, ingenuamente convinto che “i 5 miliardi che servono per i rifugiati (…) non pesano sul debito italiano, non sulle nostre tasche”.
L’effetto che le sentinelle producono su politici e figure pubbliche è spesso modesto, a meno che non sia sfruttato e amplificato dai media (cosa che, giustamente, non avviene mai con il fact checking dei pistini).
La caratteristica logica fondamentale di questi due tipi di fact checking è che, di norma, resistono al fact checking del fact checking. Salvo casi rari di malafede o di ignoranza, è difficile che sorga una controversia sui “veri” fatti, mentre è assai comune che i colpiti dal fact checking, non dovendo rendere conto a nessuno, semplicemente se ne facciano un baffo.
Fin qui il fact checking può essere utile o inutile, ma di norma non è dannoso, e tantomeno pericoloso. Dove invece può diventarlo è con il terzo tipo di fact checking, che io chiamerò semplicemente “fake checking”, cioè controllo fasullo, o farlocco. Quel che distingue il fake checking dal fact checking è che esso non verte su fatti ma su interpretazioni dei fatti. Il fake checking comincia quando si finge di credere che certe affermazioni, che riguardano i nessi fra fatti (tipicamente i nessi di causa-effetto) siano obiettivamente verificabili, e in più si ha la pretesa di attribuire a sé stessi il ruolo di giudice di ultima istanza. E infatti la caratteristica fondamentale del fake checking è che non resiste a sua volta al fact checking. Così può accadere che qualcuno (spesso un istituto di ricerca, o un presunto esperto) produca un fact checking, e qualcun altro lo sottoponga a sua volta a critica, magari chiamando la critica stessa fact checking. E’ successo qualche tempo fa con un pretenzioso “fact checking dell’euro”, prontamente smontato mediante un fact checking del fact checking. E lo stesso si potrebbe fare oggi con i numerosi tentativi, davvero molto maldestri, di demolire la tesi del “pull factor”, secondo cui la presenza di navi pronte al soccorso avrebbe aumentato le partenze dalla Libia. Tutti questi fact checking non sono controlli dei fatti, ma proposte (spesso zeppe di errori logici e tecnici) di prendere per mano i fatti per condurli in un porto ideologicamente sicuro. Con un’aggravante, rispetto alla normale critica: la critica ammette e anzi dà per scontata la controvertibilità delle tesi che essa argomenta, il fact checking pretende di dire l’ultima parola. La critica è per sua natura aperta, la critica che si presenta sotto le mentite spoglie del fact checking, invece, ambisce a chiudere il discorso.
So naturalmente che filosofi ed epistemologi, non avendo mai fatto ricerca empirica, a questo punto del discorso immancabilmente insorgono ricordando Nietzsche (“non esistono fatti ma solo interpretazioni”), o Kuhn e Feyerabend (per i quali ogni osservazione è “carica di teoria”). Ma è un punto di vista ingenuo: per chi si occupa della realtà con i normali strumenti delle scienze sociali, la distinzione fra fatti e nessi fra fatti è quasi sempre chiarissima. Se dico che nei 36 mesi successivi all’introduzione del Jobs Act l’occupazione è aumentata di circa 700 mila unità faccio un’affermazione controllabile (con i dati Istat), se affermo che ciò è avvenuto grazie al Jobs Act, o che l’intero incremento è ad esso attribuibile, stabilisco un nesso causale che nessuno può provare in modo inoppugnabile, ma solo argomentare in modo più o meno convincente, con modelli matematico-statistici più o meno solidi: le interpretazioni dei fatti non si distinguono fra vere e false, ma semmai fra plausibili e implausibili.
Sfortunatamente il fake checking è piuttosto di moda. Esso infatti permette, a chi è affezionato a una tesi, di travestire da fatti obiettivi quelle che sono semplici ricostruzioni delle concatenazioni fra i fatti, più o meno sostenute da indizi favorevoli. Ed è mortificante che, tanto spesso, questo travestimento sia attuato da esperti o presunti tali, un fenomeno che Giovanni Guzzetta ha di recente bollato come “disinformazione di qualità”.
Ma come si fa a riconoscere il fake checking?
Non è troppo difficile, perché il fake checking ha sempre due tratti distintivi, che finiscono per smascherarlo. Il primo, come abbiamo già visto, è di chiamare fact checking un’attività che non si occupa dei fatti puri e semplici, ma della loro interpretazione: che cosa ha determinato che cosa, come sarebbero andate le cose se si fosse fatta un’altra scelta, che cosa succederebbe se si adottasse una determinata politica, eccetera eccetera. Il secondo tratto che smaschera il fake checking è di selezionare arbitrariamente i fatti, che curiosamente risultano tutti coerenti con una sola interpretazione, che guarda caso è in sintonia con le credenze di fondo dell’autore: l’assenza di dubbi è il marchio inconfondibile del fake checking.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 5 agosto 2018