Covid e tabù. L’informazione ai tempi della guerra contro il Covid

1 – Fare informazione in tempi di guerra

Oltre a fare il prof. universitario, di Sociologia e Analisi dei dati, negli ultimi 16 anni ho fatto il mestiere di editorialista. I quotidiani con cui ho collaborato, la Stampa, Il Sole 24 Ore, il Messaggero erano (e sono tuttora) politicamente poco caratterizzati. In concreto, vuol dire che potevo scrivere (quasi) tutto quel che mi passava per la testa.

Certo, mi è capitato di sentire qualche volta la pressione a non essere troppo crudo, ma mai ho avuto la sensazione che ci fossero cose vere che non si potevano dire.  O, più esattamente: mai ho avuto la sensazione che ci fosse, nei miei campi di studio, qualche risultato di ricerca di cui – sul quotidiano – era meglio non parlare. Anche nell’epoca del berlusconismo e dell’anti-berlusconismo, le cose erano filate lisce: si poteva essere pro o contro, e agli studiosi al massimo capitava di sentirsi dire che un certo risultato, una certa analisi, un certo dato potevano essere “strumentalizzati” dalla destra o dalla sinistra.

Oggi è ancora così?

Per certi versi credo di sì. Anche oggi, nessuno ti dice che cosa devi scrivere, e che cosa non puoi scrivere. Ma per altri versi sento che no, non è più così. Un clima come quello che si respira da 8-9 mesi a questa parte non mi è mai capitato di avvertirlo prima, forse perché non sono abbastanza vecchio per avere memoria di quel che può diventare il mestiere di editorialista indipendente quando scoppia una guerra.

Già, perché questo è successo: alla fine del 2020 l’Italia, come ogni altra nazione europea, ha dichiarato ufficialmente guerra al virus. E, nello stato di guerra, tutto cambia. La popolazione è chiamata a cooperare allo sforzo bellico, e chi è nella condizione di vestire la divisa (i maggiorenni) è tenuto ad arruolarsi (vaccinarsi). Chi rifiuta di farlo è considerato un disertore, chi non partecipa alla campagna di arruolamento, o lo fa esprimendo qualche riserva, viene visto come un disfattista. I media principali sono chiamati a dare il loro contributo a vincere la guerra che è stata dichiarata. Non era mai successo, dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia dall’ultima guerra vera scoppiata in Europa.

Ed ecco il problema. Il lavoro dello studioso, se non è accecato dall’ideologia e dalla faziosità, non è quello di sostenere con tutti i mezzi una determinata causa, foss’anche la più nobile. Il lavoro dello studioso è di dire le cose come stanno, in base alle risultanze della ricerca scientifica. Se non fa questo, e decide che cosa dire e che cosa non dire in base all’opportunità politico-militare del momento, perde completamente la sua credibilità.

Ma dire le cose come stanno è difficile nel corso di una guerra, e lo è particolarmente sui media più autorevoli (stampa e tg), che – giustamente dal loro punto di vista – si sentono impegnati in una missione suprema, la guerra al Covid, non certo a dare ai propri lettori una rappresentazione accurata della realtà. Il guaio, per lo studioso, è che fra le molte cose vere o supportate dai dati ve ne sono parecchie che non tengono alto il morale delle truppe, o addirittura hanno effetti di demoralizzazione.

Né si pensi che tutto il problema stia nei mezzi di comunicazione ufficiali e a vasta diffusione, come i quotidiani nazionali e le reti tv. In questi mesi ho letto sul web migliaia di interventi, sia di tipo scientifico sia di tipo giornalistico, sul Covid e i vaccini, e quasi sempre, fin dalle prime righe, sono stato in grado di riconoscere l’intento primario dell’autore: o la difesa della vaccinazione, o la messa in dubbio della sua utilità e sicurezza.

Aut Aut. Mai il tentativo di raccontare l’intera verità, o perlomeno quello che fino a quel momento si sa dell’andamento dell’epidemia e dei mezzi per contrastarla.

2 – Dal fact checking al fake checking

Questa compulsione a prendere partito, riducendo al minimo i dubbi e le sfumature, è tanto più interessante quando si manifesta negli interventi di fact checking, i cui estensori ambirebbero ad un ruolo di giudici obiettivi e neutrali: anche lì, dopo poche righe, capisci dove si va a parare.

La pratica del fact checking, proliferata durante il Covid, meriterebbe uno studio a sé. In innumerevoli casi si è trasformata in una sorta di killeraggio a danno delle posizioni eterodosse, anche se sostenute da studiosi autorevoli, o supportate da pubblicazioni in riviste prestigiose.

Forse il caso più clamoroso di killeraggio è stato quello nei confronti degli scienziati che sostengono la tesi, minoritaria ma non del tutto priva di argomenti a supporto, secondo cui la vaccinazione di massa – in presenza di alti livelli di circolazione del virus – possa favorire la nascita di varianti resistenti ai vaccini stessi.

Questa tesi, giusta o sbagliata che sia, è stata completamente cancellata dalla comunicazione pubblica, perché avrebbe potuto instillare il dubbio che sia stata una follia, nell’autunno-inverno del 2020, non abbattere la circolazione del virus prima di iniziare la vaccinazione di massa; e ora potrebbe alimentare il sospetto che la vaccinazione non basti, e che l’era delle restrizioni e dei lockdown non sia affatto finita.

Nonostante gli sforzi per cancellarla e squalificarla, la tesi della pericolosità della vaccinazione di massa in condizioni di alta circolazione del virus sta faticosamente riemergendo nel dibattito scientifico, anche in sedi prestigiose come la rivista “Nature”. Forse, dovremmo smettere di parlare di fact checking, e prendere atto della mutazione: in epoca di guerra, il fact checking si è trasformato in fake checking, al servizio dell’ortodossia dominante.

Ricapitolando: la dichiarazione di guerra al Covid, scattata con l’inizio della campagna di vaccinazione (27 dicembre 2020), ha reso la vita difficile al dubbio e all’esercizio del senso critico, che pure dovrebbero essere – in una situazione in cui la scienza ha pochissime certezze – le modalità normali di comunicazione. Il tutto in favore di uno stile di comunicazione parziale ed omissivo, dove la chiave di volta non è ciò che si racconta, ma ciò di cui si preferisce tacere.

3 – Tre casi di sproporzionata disattenzione

Lo stile omissivo tocca sia la comunicazione provax, volta alla promozione della campagna vaccinale, sia quella nivax, volta a sollevare dubbi sulla vaccinazione (della comunicazione platealmente novax non mi occupo, essendo facilmente riconoscibile e poco interessante).

E’ il caso di notare, tuttavia, che vi sono anche omissioni che, almeno a prima vista, non hanno una evidente finalità pro o antivax. Sembrano, piuttosto, frutto di un mix di superficialità, disattenzione, gregarismo (il desiderio di parlare di ciò di cui parlano tutti, per parafrasare il romanzo di Francesco Piccolo).

Rientrano in questa categoria tre casi di “sproporzionata disattenzione” a ipotesi scientifiche interessanti e – se vere – potenzialmente ricche di conseguenze pratiche:

  1. la trasmissione aerea del virus (attraverso aerosol, anziché attraverso le goccioline);
  2. il ruolo protettivo della vitamina D;
  3. le basi genetiche della suscettibilità individuale al virus, nonché l’esistenza (da gennaio 2021) di un test per individuare gli italiani suscettibili (circa 1 su 6).

Sul primo punto (trasmissione mediante aerosol), il silenzio è durato circa un anno. Nonostante pubblicazioni scientifiche e appelli di centinaia di scienziati di decine di paesi, per tutto il 2020 l’Oms non ha mai voluto prendere seriamente atto di questa possibilità. In Italia, grazie a una lettera aperta del prof. Giorgio Buonanno, l’allarme sulla realtà della trasmissione mediante aerosol era scattato fin dal 27 marzo 2020 (pochi giorni dopo l’inizio del lockdown), ma è stato completamente ignorato dalle autorità sanitarie, e solo tardivamente preso in qualche considerazione dai mass media.

Sul secondo punto (vitamina D), salvo isolate eccezioni, l’attenzione dei media è stata sempre bassissima, e sostanzialmente succube del Ministero della Salute che, diversamente dalla comunità scientifica, ha sempre cercato di togliere ogni legittimità all’ipotesi di un nesso fra carenza di vitamina D e suscettibilità al Covid. Ancora oggi (settembre 2021), sul sito del Ministero, l’ipotesi è sbrigativamente derubricata a fake news.

Sul terzo punto (basi genetiche), l’esistenza di una copiosa letteratura scientifica, e l’indubbia importanza dell’esistenza di un test (dell’Università di Verona) per individuare i soggetti più a rischio, non sono bastati ad attirare l’interesse dei media e delle autorità sanitarie.

Naturalmente, è comprensibile che Oms, governi, e autorità varie abbiano provato a ignorare e screditare ipotesi che potevano risultare (o quanto meno apparire) in contrasto con le politiche adottate. Meno chiaro perché i media le abbiano quasi completamente ignorate.

4 – Cherry picking, il vizio comune di provax e nivax

Ma torniamo ai tabù dei media provax e nivax.

L’informazione provax è incapace di accettare qualsiasi notizia scientifica che vada contro il totem della vaccinazione, così smorzando il consenso del pubblico, o disturbando i piani del governo. Nell’estate 2021, ad esempio, in piena stagione turistica, è stata messa la sordina alle ricerche che dimostravano che anche i vaccinati possono trasmettere il virus, e che non è affatto vero che fra vaccinati non ci si infetta: l’imperativo categorico era rendere desiderabile la vaccinazione, e favorire il decollo del Green Pass. È presumibile che nascondere i limiti della vaccinazione possa aver spinto la vaccinazione stessa, ma è certo che magnificare acriticamente le virtù protettive dei vaccini ha contributo a ridurre la vigilanza e il rispetto delle regole di prudenza.

Non solo. Fra giugno e agosto la medesima sordina è stata imposta ad altre due notizie potenzialmente in grado di disturbare il manovratore: la notizia che Astra Zeneca, almeno nei primi mesi dalla seconda dose, è molto meno efficace di Pfizer, e la notizia che, dopo 6 mesi, l’efficacia di entrambi i vaccini è gravemente compromessa.

La prima notizia avrebbe reso difficile continuare a vaccinare con AstraZeneca, la seconda avrebbe impedito al governo di cavarsela portando da 9 a 12 mesi la validità del Green Pass, e lo avrebbe costretto ad avviare subito una campagna di rivaccinazione (come si apprestano a fare Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia e molti altri paesi, europei e non).

È comprensibile che il Comitato tecnico-scientifico, che di fatto si muove come un organo politico, abbia dato il suo ok, ma è meno comprensibile che la stampa libera sia rimasta piuttosto quieta, come se lasciare scarsamente coperte milioni di persone (i vaccinati nei primi mesi 2021) non avesse costi umani seri, sotto forma di maggiori  ospedalizzazioni e maggiori decessi.

L’informazione nivax, d’altro canto, pare strutturalmente incapace di leggere i dati. Ogni sorta di espediente logico viene usato per mettere in dubbio l’efficacia del vaccino. Ogni notizia che, a prima vista, suggerisce che i vaccinati si ammalano più dei non vaccinati, viene sbandierata acriticamente.

È interessante rilevare i non sequitur, i trucchi, le ingenuità della anti-informazione nivax. Per esempio il salto logico: anche i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, dunque è inutile pretendere il Green Pass (come se uno dicesse: qualche automobilista muore nonostante abbia la cintura di sicurezza, quindi non imponiamo le cinture di sicurezza).

Ancora più interessanti le ingenuità alla Cacciari, miseramente franato sul “paradosso di Simpson”, una trappola statistica in cui si può cadere quando la relazione fra due variabili (vaccinazione e decesso) viene analizzata ignorando una terza variabile (l’età) che può capovolgere il segno della relazione. E infatti gli stessi dati invocati da Cacciari per insinuare che il vaccino non funziona, correttamente analizzati (dagli studiosi, ripresi dalla stampa provax), provano semmai l’esatto contrario.

Per non parlare dell’uso partigiano dell’argomento retorico “non ci sono prove incontrovertibili che…”, un grimaldello con il quale diventa possibile giustificare o squalificare ogni sorta di affermazione, dalla pericolosità potenziale dei vaccini (non ci sono prove di effetti negativi sulla fertilità), all’efficacia preventiva della vitamina D (non ci sono prove che funzioni), ai rischi della trasmissione del virus mediante aerosol (non ci sono prove che avvenga).

Eppure, ci si dovrebbe rendere conto che l’argomento della mancanza di prove incontrovertibili è puramente retorico: l’assenza di prove può essere usata, intercambiabilmente, a sostegno di una tesi (non ci sono prove che la terapia X funzioni) così come della tesi contraria (non ci sono prove che la terapia X non funzioni).

È il caso di notare che l’uso strumentale, da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’argomento “non ci sono prove incontrovertibili che…” ha impedito, per circa un anno, di riconoscere la possibilità e la pericolosità della trasmissione aerea (mediante aerosol), a dispetto degli innumerevoli studi, appelli e lettere aperte di centinaia di scienziati internazionali. Una cecità che, riducendo la vigilanza negli ambienti indoor, ha sicuramente aumentato, e non di poco, il numero dei morti per Covid.

Alle fine, quel che accomuna i due campi è l’omissione di informazioni rilevanti, e la selezione arbitraria di pezzi di informazione funzionali alla tesi che si vuole difendere, il cosiddetto cherry picking.

5 – Scelta vaccinale e razionalità

Si potrebbe pensare, arrivati a questo punto, che il modo di disinformare di provax e nivax si riduca alla scelta dei tasselli da mettere in campo o, se preferite, alla gestione dei tabù.

In realtà non è tutto, c’è anche la matematica, o meglio la scarsa dimestichezza con la matematica, la logica e la statistica necessarie per destreggiarsi nei meandri dell’epidemia (un esempio lo abbiamo già visto a proposto del paradosso di Simpson). Prendiamo la questione della vaccinazione dei più giovani, ragazzi e bambini. L’atteggiamento prevalente nell’informazione main stream è di presentare l’esitazione vaccinale (ossia la posizione di chi teme la vaccinazione e non ha ancora deciso se vaccinarsi, o se vaccinare i propri figli), come un atteggiamento irrazionale, frutto di ignoranza e disinformazione.

Ma la matematica della scelta razionale, sia nella sua versione utilitarista sia in quella della portfolio selection (che incorpora l’avversione al rischio nelle funzioni di utilità soggettiva), racconta tutta un’altra storia. Per giudicare non razionale la scelta di non vaccinarsi dovrebbero essere noti, come minimo, il rischio di ammalarsi gravemente e i rischi connessi a effetti avversi di breve, medio e lungo periodo. Poiché il primo (rischio di malattia grave) è bassissimo per i più giovani, e i secondi (rischi futuri) sono semplicemente sconosciuti, non c’è nulla di intrinsecamente irrazionale nell’evitare un rischio di entità sconosciuta per proteggersi da un rischio di entità nota e trascurabile, o comunque bassissima (per un under 18 il rischio di decesso per Covid è almeno 10 volte più basso di quello di morire per un incidente stradale).  Tanto è vero che, nelle scienze sociali, la scelta di non vaccinarsi viene tipicamente analizzata con gli strumenti della teoria dei giochi, ossia dentro il paradigma della rational choice.

Nel linguaggio della teoria della scelta razionale: il soggetto è costretto ad operare con probabilità soggettive, in una situazione che – tecnicamente – si definisce di incertezza, perché non solo è impossibile prevedere con esattezza le conseguenze dell’azione, ma non è neppure possibile assegnare delle probabilità obiettive ai vari esiti possibili. Se il soggetto percepisce i rischi futuri (sconosciuti) come superiori ai benefici (stimabili, e fortemente dipendenti dall’età) non si dà un modo scientifico di convincerlo a rifare i calcoli in altro modo. Si può solo tentare di persuaderlo che sopravvaluta i rischi del vaccino, e attendere che la scienza – forte di anni di sperimentazione sul campo – abbia gli elementi per risultare convincente.

Certo si può affermare che chi non si vaccina aumenta il rischio altrui, ma altrettanto bene si può obiettare che un genitore che autorizza la vaccinazione del figlio o della figlia minorenne ha una doppia responsabilità, verso la società ma anche verso la prole, di cui mai vorrebbe mettere a repentaglio l’integrità fisica futura. Nella mia esperienza, questa obiezione viene soprattutto dalle madri, indipendentemente dal livello di istruzione, e non è agevolmente controvertibile. La decisione di vaccinare o non vaccinare un bambino, che politici e mass media tendono a presentare come una questione di senso civico, rientra assai più plausibilmente nel campo delle “tragic choices”, per usare la classica formulazione di Guido Calabresi.

Insomma: la scelta di vaccinarsi è razionale, ma quella di non farlo può esserlo altrettanto, esattamente come può essere razionale tanto scommettere sul verificarsi di un evento quanto scommettere sul fatto che non si verifichi (la differenza la fanno le percezioni soggettive dei decisori, nonché le rispettive propensioni al rischio).

Personalmente propendo per la vaccinazione, ma trovo sorprendenti la superficialità, l’arroganza e il paternalismo con cui – in una parte non piccola della comunicazione pubblica – vengono squalificati coloro che esprimono dubbi.

6 – Due metriche per l’efficacia vaccinale

La mancanza di dimestichezza con la matematica gioca anche altri brutti tiri. Ad esempio, porta a sottovalutare le differenze di efficacia fra i vaccini. Mi spiego con un esempio. Se ci dicono che il vaccino A fornisce una protezione del 95%, e il vaccino B del 90%, tendenzialmente ci facciamo l’idea che fra i due vaccini non vi siano grandi differenze. Invece le differenze sono enormi: il vaccino A riduce il rischio di un fattore 20, il vaccino B di un fattore 10.

Il fattore di riduzione (f), infatti, è legato all’efficacia del vaccino (ε) dalla formula:

f = (1 – ε)-1

Se la si analizza attentamente, ci si rende conto che variazioni di efficacia apparentemente modeste, come quelle legate alla variante (delta piuttosto che alpha), al periodo di vaccinazione (primo o secondo trimestre del 2021), o al vaccino usato (Pfizer o AstraZenca), possono essere associate a enormi differenze nella protezione dal rischio, anche da una amplissima protezione 33 (efficacia del 97%) a una modesta protezione 3 (efficacia del 67%).

Che i mass media, quando parlano di efficacia, usino sempre la metrica di ε e non quella di f induce il pubblico a non percepire le grandissime differenze che possono sussistere fra situazioni e fra vaccini.

7 – L’aritmetica dell’immunità di gregge

Il caso più clamoroso di incomprensione dell’aritmetica dell’epidemia è però quello della cosiddetta immunità di gregge. Uno degli argomenti più ripetuti a favore della vaccinazione di massa è che, grazie ad essa, raggiungeremo l’immunità di gregge. L’argomento è spesso accompagnato da percentuali-obiettivo, tipo “dobbiamo vaccinare almeno il 70% degli italiani”, e dalla tesi secondo cui – proteggendo una certa percentuale della popolazione – anche i non vaccinati risulterebbero protetti (una curiosa applicazione del concetto di free rider).

Ma questi argomenti non sono semplicemente fuorvianti, sono del tutto errati. Intanto non è vero che, raggiunta la percentuale che garantisce l’immunità di gregge, i vaccinati proteggono anche i non vaccinati. Il significato della soglia di copertura vaccinale necessaria (70% nell’esempio) è solo che, se la si raggiunge (e se si adottano alcuni assunti semplificatori sulle interazioni sociali), l’epidemia si ferma, e se la si supera – prima o poi – l’epidemia si spegne. In altre parole: i non vaccinati continuano ad ammalarsi e morire, ma il numero di nuovi casi diventa sempre più piccolo, fino ad azzerarsi in un futuro più o meno lontano.

La formula standard per calcolare la copertura vaccinale (Vc) che garantisce l’immunità di gregge è:

Vc = 1-1/R0

dove R0 è il numero di riproduzione di base, ossia il numero medio di persone contagiate da un soggetto che si ammala. Il valore di R0 era circa 3 all’inizio dell’epidemia, è diventato circa 5 con la variante alpha, e circa 8 con la variante delta. In concreto, vuol dire che con il virus originario ci sarebbe bastato vaccinare 2/3 della popolazione, con la variante alpha (sopraggiunta nell’inverno 2020-2021) avremmo dovuto vaccinare l’80% della popolazione, con la variante delta (divenuta prevalente nella primavera del 2021) dovremmo vaccinare l’87.5% della popolazione. L’obiettivo è chiaramente irraggiungibile, a meno di imporre l’obbligo vaccinale e abbassare ancora un po’ l’età minima dei vaccinabili.

Ma supponiamo di farlo e che, con le buone o con le cattive, si riesca a vaccinare il 95% della popolazione. Basterebbe a spegnere l’epidemia?

La risposta è no, perché la formula dell’immunità di gregge vale per i vaccini sterilizzanti, che immunizzano completamente chi si vaccina. Il che vuol dire: chi si vaccina non può infettarsi, né trasmettere il virus ad altri. Se il vaccino è leaky, cioè non sterilizzante, vale una formula modificata:

Vc = (1-1/R0)/E

dove il termine E rappresenta quel che alcuni studiosi chiamano “efficienza vaccinale”, ossia la capacità media di impedire reinfezioni e trasmissione ad altri.

L’efficienza di un vaccino sterilizzante è per definizione 1, ossia è pari al 100%, e genera la prima formula, in cui E non compare. Quella di un vaccino leaky è difficile da calcolare, se non altro perché dipende dal mix di varianti presente in un dato momento in un certo luogo, ma certamente è ampiamente inferiore a 1.

Supponendo, ottimisticamente, che sia 0.80, il valore di Vc passa da 0.875 (per E=1) a 1.094, il che significa: non basta vaccinare l’87.5% della popolazione, ma occorrerebbe vaccinare il 109.4%.

Un risultato chiaramente assurdo, che però ha una interpretazione concreta molto chiara e tranchant: con un vaccino leaky, a meno che la sua efficienza sia pari o superiore all’87.5%, non basta neppure vaccinare l’intera popolazione.

Tutto questo è perfettamente noto agli specialisti e, dopo un articolo apparso su “Nature” nel 2021, è ormai dato per scontato nella letteratura scientifica. Nella comunicazione pubblica invece no, si continua a alimentare l’illusione che, se ci vaccineremo tutti, potremo usufruire dell’immunità di gregge.

Il tutto in un’epoca in cui non si fa che parlare di precision journalism, computer assisted reporting, data journalism, fact checking, eccetera eccetera. Forse c’è qualcosa che non va.


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Quando il “fact checking” è farlocco

Chi ama informarsi su internet, girovagando fra un sito e l’altro, si sarà sicuramente accorto della recente nascita di un nuovo genere letterario: il “fact checking”, o controllo dei fatti. Sotto questa etichetta, vagamente pretenziosa, centinaia di analisti si autonominano giudici delle affermazioni di politici, giornalisti, studiosi, industriali, scrittori, figure pubbliche in genere.
Il fenomeno è interessante, e merita una riflessione. La prima cosa che colpisce è la mancanza di competenze specifiche, pertinenti e soprattutto riconosciute, di molti autori di spietate “verifiche” delle affermazioni altrui. In perfetto stile internet, per cui uno vale uno e tutti abbiamo diritto di dire la nostra, chiunque si sente autorizzato a improvvisare audaci operazioni di fact checking, quasi sempre volte a smontare quel che qualcun altro ha detto. Ma l’aspetto più interessante è che non di rado gli esperti, ovvero coloro che hanno una riconosciuta competenza o esperienza riguardo all’argomento di cui si parla, risultano ancora meno affidabili dei dilettanti. La faziosità è endemica fra coloro che si occupano di temi scottanti, specie se l’analista si sente impegnato nella difesa di una buona causa.
Per capire come tutto ciò sia possibile dovremmo, prima di tutto, renderci conto che il genere letterario fact checking non è un genere omogeneo. O meglio: l’espressione fact checking è usata per tre tipi molto diversi di operazioni critiche.
Il primo tipo di fact checking potremmo, con un piemontesismo, definirlo il fact checking dei “pistini”, o dei pignoli. Esso si applica ad affermazioni relativamente poco importanti, talora espresse in modo vago, ma che è (abbastanza) facile controllare se si ha un minimo di dimestichezza con le fonti statistiche. Questo tipo di fact checking, che non interesserebbe nessuno se non coinvolgesse figure pubbliche, viene per lo più usato per punzecchiare i politici sgraditi e assolvere i politici graditi. Di norma non è erroneo, ma solo tendenzioso nella scelta dei bersagli. Il politico dice che il Pil è aumentato dell’1.7 nell’anno x, il pistino gli obietta che in realtà è aumentato dell’1.4%. Il giornalista di fama afferma che il paese y ospita la metà dei richiedenti asilo dell’Italia, il pistino gli obietta che non è esatto, che dipende dal periodo di riferimento, e comunque bisogna capire che cosa intendesse quel giornalista. L’effetto che questo tipo di fact checking esercita sui politici è più o meno quello di una mosca sulla schiena di una mucca.
Il secondo tipo di fact checking si potrebbe chiamare il fact checking delle “sentinelle”, o dei guardiani dei fatti. L’unica vera differenza con il fact checking dei pistini è che le affermazioni sottoposte a controllo riguardano fatti “caldi”, che ciascuno di noi può giudicare più o meno interessanti, ma che pochi si azzarderebbero a considerare irrilevanti. L’idea delle sentinelle è che, su certi fatti, chi ha responsabilità pubbliche o è molto conosciuto non si possa permettere di dire il falso. Non puoi dire che il debito è diminuito se è aumentato (e viceversa), non puoi dire che i morti in mare sono aumentati se sono diminuiti (e viceversa), e così via. Un caso tipico è il recente fact checking cui, sul sito lavoceinfo, è stato sottoposto un clamoroso errore di Saviano, ingenuamente convinto che “i 5 miliardi che servono per i rifugiati (…) non pesano sul debito italiano, non sulle nostre tasche”.
L’effetto che le sentinelle producono su politici e figure pubbliche è spesso modesto, a meno che non sia sfruttato e amplificato dai media (cosa che, giustamente, non avviene mai con il fact checking dei pistini).
La caratteristica logica fondamentale di questi due tipi di fact checking è che, di norma, resistono al fact checking del fact checking. Salvo casi rari di malafede o di ignoranza, è difficile che sorga una controversia sui “veri” fatti, mentre è assai comune che i colpiti dal fact checking, non dovendo rendere conto a nessuno, semplicemente se ne facciano un baffo.
Fin qui il fact checking può essere utile o inutile, ma di norma non è dannoso, e tantomeno pericoloso. Dove invece può diventarlo è con il terzo tipo di fact checking, che io chiamerò semplicemente “fake checking”, cioè controllo fasullo, o farlocco. Quel che distingue il fake checking dal fact checking è che esso non verte su fatti ma su interpretazioni dei fatti. Il fake checking comincia quando si finge di credere che certe affermazioni, che riguardano i nessi fra fatti (tipicamente i nessi di causa-effetto) siano obiettivamente verificabili, e in più si ha la pretesa di attribuire a sé stessi il ruolo di giudice di ultima istanza. E infatti la caratteristica fondamentale del fake checking è che non resiste a sua volta al fact checking. Così può accadere che qualcuno (spesso un istituto di ricerca, o un presunto esperto) produca un fact checking, e qualcun altro lo sottoponga a sua volta a critica, magari chiamando la critica stessa fact checking. E’ successo qualche tempo fa con un pretenzioso “fact checking dell’euro”, prontamente smontato mediante un fact checking del fact checking. E lo stesso si potrebbe fare oggi con i numerosi tentativi, davvero molto maldestri, di demolire la tesi del “pull factor”, secondo cui la presenza di navi pronte al soccorso avrebbe aumentato le partenze dalla Libia. Tutti questi fact checking non sono controlli dei fatti, ma proposte (spesso zeppe di errori logici e tecnici) di prendere per mano i fatti per condurli in un porto ideologicamente sicuro. Con un’aggravante, rispetto alla normale critica: la critica ammette e anzi dà per scontata la controvertibilità delle tesi che essa argomenta, il fact checking pretende di dire l’ultima parola. La critica è per sua natura aperta, la critica che si presenta sotto le mentite spoglie del fact checking, invece, ambisce a chiudere il discorso.
So naturalmente che filosofi ed epistemologi, non avendo mai fatto ricerca empirica, a questo punto del discorso immancabilmente insorgono ricordando Nietzsche (“non esistono fatti ma solo interpretazioni”), o Kuhn e Feyerabend (per i quali ogni osservazione è “carica di teoria”). Ma è un punto di vista ingenuo: per chi si occupa della realtà con i normali strumenti delle scienze sociali, la distinzione fra fatti e nessi fra fatti è quasi sempre chiarissima. Se dico che nei 36 mesi successivi all’introduzione del Jobs Act l’occupazione è aumentata di circa 700 mila unità faccio un’affermazione controllabile (con i dati Istat), se affermo che ciò è avvenuto grazie al Jobs Act, o che l’intero incremento è ad esso attribuibile, stabilisco un nesso causale che nessuno può provare in modo inoppugnabile, ma solo argomentare in modo più o meno convincente, con modelli matematico-statistici più o meno solidi: le interpretazioni dei fatti non si distinguono fra vere e false, ma semmai fra plausibili e implausibili.
Sfortunatamente il fake checking è piuttosto di moda. Esso infatti permette, a chi è affezionato a una tesi, di travestire da fatti obiettivi quelle che sono semplici ricostruzioni delle concatenazioni fra i fatti, più o meno sostenute da indizi favorevoli. Ed è mortificante che, tanto spesso, questo travestimento sia attuato da esperti o presunti tali, un fenomeno che Giovanni Guzzetta ha di recente bollato come “disinformazione di qualità”.
Ma come si fa a riconoscere il fake checking?
Non è troppo difficile, perché il fake checking ha sempre due tratti distintivi, che finiscono per smascherarlo. Il primo, come abbiamo già visto, è di chiamare fact checking un’attività che non si occupa dei fatti puri e semplici, ma della loro interpretazione: che cosa ha determinato che cosa, come sarebbero andate le cose se si fosse fatta un’altra scelta, che cosa succederebbe se si adottasse una determinata politica, eccetera eccetera. Il secondo tratto che smaschera il fake checking è di selezionare arbitrariamente i fatti, che curiosamente risultano tutti coerenti con una sola interpretazione, che guarda caso è in sintonia con le credenze di fondo dell’autore: l’assenza di dubbi è il marchio inconfondibile del fake checking.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 5 agosto 2018