Rubrica A4 – Riflessioni sulla guerra ucraina

Più penso alla vicenda ucraina, più mi rafforzo nell’idea che quell’irresponsabile di Vladimir Putin abbia fatto, inconsapevolmente, il gioco di una potenza da tempo in declino come gli S.U. Grazie all’invasione ucraina, l’Europa è ridiventata il vassallo di Washington e della Nato, il suo braccio armato nel vecchio continente. La Germania merkeliana, con la sua politica estera autonoma (v. il gasdotto fatto saltare in aria, probabilmente con la complicità di Kiev: il fatto che non se ne parli più è non poco significativo) non esiste più e gli stati europei sono come le poleis greche sotto il dominio romano. Non osano neppure proporre l’invito degli stati in guerra – e non solo di quelli in guerra formalmente – a un tavolo di negoziazione per risolvere una crisi scoppiata ‘sotto casa’ loro. E, anzi, talvolta – come Petain, che, in fatto di ebrei, precorreva i desideri di Hitler – diventano persino più realisti del re -v. Scholz e Macron, desiderosi di inviare non solo munizioni ma anche soldati in Ucraina. Clamorosamente sconfitti alle urne, “entrambi hanno pagato, tra l’altro, il prezzo del loro oltranzismo atlantico” come ha detto Massimo L. Salvadori in una recente intervista a l’ ‘Unità’. I governi europei sanno solo tremare come foglie al vento se Biden fa intravvedere, dopo l’Ucraina, l’attacco di Putin ai paesi della Nato, uno dopo l’altro. Per i nostri scienziati politici e columnists
di regime – dal ‘Corriere della Sera’ a ‘Repubblica’, passando per ‘Il Foglio’ – dovremmo ritenere plausibile una nuova invasione della Polonia, come se Mosca avesse davvero le risorse economiche e militari per mettersi contro tutta l’Europa. Il saggio di Manlio Graziano, Disordine mondiale (ed, Mondadori) è illuminante al riguardo.
Gli eventi di questi ultimi anni sembrano quasi preludere a una riedizione di Yalta ma, questa volta tra due potenze azzoppate e che oggi ridefiniscono le aree di influenza in maniera più vantaggiosa per la potenza occidentale (grazie al nuovo, maldestro, zar, Vladimir Putin, della razza degli apprentis sorcièrs).                                                                                                                                           E le stelle “stanno a guardare”, con la scusa di non avere armi a sufficienza per svolgere una politica estera autonoma. E, in effetti non ne hanno per attaccare ma ne hanno per difendersi … ma poi da chi? Ci vuole un’Europa unita e più forte, squillano le trombe politologiche italiane sennonché è proprio l’Ucraina la tomba dell’europeismo. E’ a Mosca e a Washington che si deciderà il destino del martoriato paese e lo si deciderà quando si verificherà un incontro di convenienze. Per ora il piano di pace di Putin – che pretende anche terre non ancora conquistate – e quello non meno pazzesco di Zelensky che, per sedersi al tavolo delle trattative, esige il ritiro totale della Russia dall’Ucraina (un paese impegnato in una disperata resistenza che detta le sue condizioni al vincitore, non si era mai visto nella storia), non fanno sperare nulla di buono. Non sono un elettore del generale Vannacci né mi è simpatico il personaggio (come ho scritto in un lungo articolo su HuffPost), ma non ho esitato a dargli ragione, quando a ‘Quarta Repubblica’, ha detto che nessuna pace è giusta e che, per ottenere la cessazione delle ostilità, i paesi in guerra a qualcosa debbono pur rinunciare. (Ne sa qualcosa l’Italia che dovette firmare – e non poteva fare diversamente – un trattato di pace talmente iniquo che un vecchio liberale come Benedetto Croce si rifiutò di approvarlo).




Elezioni francesi – L’occasione di Marine Le Pen

Credo sia accaduto raramente, in Europa, che un appuntamento elettorale in un singolo paese attirasse tanta attenzione anche negli altri. È quello che sta succedendo con le elezioni francesi, che si svolgeranno in due turni, il 30 giugno e il 7 luglio.

Un motivo di interesse è sicuramente il fatto che la posta in gioco è simile, anche se non identica, a quella su cui si sta scommettendo a livello europeo, in questi giorni di grandi manovre per la scelta della Commissione e l’attribuzione degli incarichi più importanti: riusciranno le forze anti-destra a contenere l’avanzata delle destre, e a perpetuare la conventio ad excludendum che finora – in Francia come a livello europeo – è sempre riuscita ad escluderle dal potere?

In Europa, la questione riguarda l’inclusione nel perimetro della maggioranza dei riformisti conservatori (ECR) di Giorgia Meloni, che molti si ostinano a considerare una forza estremista, anti-europea, che deve ancora fare i conti con il fascismo. Il problema si pone perché l’elettorato ha premiato le forze di destra, ma i voti ECR non sono strettamente necessari per formare la nuova maggioranza che guiderà l’Europa.

In Francia la questione è più complessa, perché le poste in gioco sono almeno due, una a breve, l’altra a medio periodo. A breve, c’è l’esito delle imminenti elezioni dell’Assemblea Nazionale, che potrebbe consegnare il governo al partito di Marine Le Pen. A medio termine, incombono le elezioni presidenziali del 2027, che potrebbero essere vinte da Marine Le Pen. Un’eventualità tutt’altro che remota, se pensiamo che alle ultime presidenziali (nel 2022), aveva ottenuto il 41.5%, e da allora il suo partito – il Rassemblement National – ha quasi raddoppiato i consensi, passando dal 18.7% delle Legislative 2022 al 31.4% delle ultime Europee.

Ma le elezioni francesi sono interessanti anche per altri motivi, più strettamente politici.
I sondaggi dicono che, al primo turno, Marine le Pen e alleati dovrebbero ottenere circa il 33% dei consensi, Macron e i centristi circa il 18%, il Nuovo Fronte Popolare di sinistra (che include sia i socialisti di Glucksmann, sia i populisti di Mélenchon), circa il 28%. In concreto, questo significa che al secondo turno – quello che deciderà effettivamente chi verrà eletto e chi no – accederanno quasi esclusivamente candidati di estrema destra (sotto le insegne del Rassemblement National della Le Pen), e
candidati di sinistra (sotto le insegne del Nuovo Fronte Popolare che, oltre a socialisti e populisti, include comunisti ed ecologisti).

E qui sorge il problema politico. Nel Nuovo Fronte Popolare la forza largamente egemone è La France Insoumise (la Francia ribelle), il partito di Mélenchon, che di fatto è percepito come una formazione di estrema sinistra, con tratti populisti, sovranisti e anti-europei. Già questo pone qualche problema all’elettorato moderato, che non ama Marine Le Pen, ma nemmeno è incline a sostenere l’estrema sinistra di Jean Luc Mélenchon. Nei collegi, e non saranno pochi, in cui il Fronte Popolare dovesse essere rappresentato dal partito di Mélenchon, parte dei centristi potrebbero anche preferire l’astensione, e così favorire il successo della Le Pen.

Ma il vero problema, per il progetto “repubblicano” di sbarrare la strada a Marine Le Pen, è ancora un altro. Negli ultimi mesi, e segnatamente dopo la strage compiuta da Hamas il 7 ottobre, sia il partito di Mélenchon sia quello di Le Pen hanno subito due
vere e proprie mutazioni. Il partito di Mélenchon si è rifiutato di condannare l’atto terroristico di Hamas, e ha accentuato sempre più il suo profilo “immigrazionista”, che punta ad allargare le maglie dell’accoglienza, anche attraverso il controverso concetto di “rifugiato climatico”. Una mossa, quest’ultima, che gli sta attirando durissime critiche dalla stampa conservatrice, ma anche da parte di Emmanuel Macron, che pure dovrebbe essergli alleato nella crociata contro la Le Pen. Simmetricamente, Marine le Pen ha invece condannato senza esitazione la strage di Hamas, e pochi mesi fa ha appoggiato la mossa di Macron di mettere in Costituzione il diritto all’interruzione di gravidanza.

Il risultato è che Marine Le Pen e il suo partito, ora guidato anche dal giovane Jordan Bardella, appaiono molto più digeribili di quanto lo fossero anche solo un anno fa. Il contrario di quel che sta capitando a Jean Luc Mélenchon, costretto a difendersi sia
dalle accuse di “immigrazionismo” mossegli da Macron, sia da quelle di antisemitismo provenienti dalla comunità ebraica. Il tutto complicato, nelle ultime ore, da un episodio – lo stupro di una ragazzina dodicenne ebrea a motivo del suo essere ebrea – che ha riportato al centro dell’attenzione il problema dell’antisemitismo e della sua diffusione nelle comunità islamiche in Francia.

La strada di Marine Le Pen, naturalmente, resta in salita come sempre. Ma il fatto che Macron sia in campagna elettorale contro Mélenchon, e quest’ultimo sia esposto alle accuse di anti-semitismo, fanno pensare che la partita sia aperta. Molto aperta.

[articolo uscito sul Messaggero il 21 giugno 2024]




Doccia scozzese

Che in materia di diritti l’Europa sia un ginepraio si vede a occhio nudo. Che si parli di aborto, matrimonio gay, identità di genere, cambio di sesso, eutanasia, le differenze sono abissali. Ma come dobbiamo leggere questa diversità?

Una lettura molto comune è che i vari paesi si trovino in stadi diversi del cammino che li condurrà tutti, prima o poi, a riconoscere determinati diritti fondamentali, visti come mete di imprescindibili battaglie di civiltà. Un’altra lettura, vede il medesimo processo come una pericolosa deriva, che non afferma affatto la civiltà ma ne scandisce il declino. Quel che accomuna le due letture è l’idea che, comunque, la freccia del tempo punti in una direzione precisa, quella dell’espansione dei diritti. E che, essenzialmente, i vari paesi differiscano solo per la velocità con cui progrediscono (o regrediscono, a detta dei conservatori).

Ma siamo sicuri che la freccia del tempo punti in una direzione sola, quella dell’espansione dei diritti?

Fino a qualche anno fa lo si poteva ragionevolmente pensare, oggi molto più difficile. Segnali di rallentamento, o di vere e proprie inversioni di tendenza, si osservano in più di un paese, sia a livello legislativo, sia a livello di opinione pubblica. Il caso più clamoroso, probabilmente, è quello della Scozia, governata dal (progressista) Scottish National Party, prima con la carismatica leader Nicola Sturgeon (in carica per 10 anni), poi con il suo successore, l’ultra-progressista musulmano Humza Yousaf. Ebbene, nel giro di 15 mesi la situazione è completamente cambiata.

Alla fine del 2022 la Scozia aveva approvato il Gender Recognition Act, una legge che consente il cambiamento di genere (self-id) già a 16 anni, e senza pareri medici o legali. All’inizio di aprile di quest’anno è stato approvato lo Hate Crime Act, una legge che – sulla carta – punisce chi non riconosce come donne i maschi transitati a femmine (Mtf trans). Inoltre, da tempo veniva ventilata la possibilità di varare una legge molto permissiva sul suicidio assistito.

Apparentemente, una marcia trionfale per le battaglie di civiltà dei progressisti. In realtà le tappe di una vera débâcle. La legge sul self-id ha provocato una vivacissima reazione delle donne, compresa Joanne Rowling (l’inventrice di Harry Potter), preoccupate per l’invasione degli spazi femminili (comprese le carceri) da maschi auto-identificati come femmine. Di qui le repentine dimissioni della Sturgeon, benevolmente interpretate dai nostri media come sagge decisioni di una donna sopraffatta dalle fatiche del potere (la medesima interpretazione data per le dimissioni della Ardern in Nuova Zelanda e di Sanna Marin in Finlandia). Passa un anno, il Gender Recognition Act viene bocciato dal governo centrale britannico, e il successore della Sturgeon, Humza Yousaf, è costretto a sua volta alle dimissioni, travolto dall’ondata di critiche, ancora una volta guidate da Joanne Rowling, contro il potenziale liberticida dello Hate Crime Act, una legge in base alla quale – secondo alcuni attivisti trans – avrebbero dovuto finire in carcere quanti la pensassero come la Rowling, e – secondo altri – pure il premier Yousaf, che in passato si era prodotto in discorsi d’odio contro i bianchi (anche qui, l’interpretazione benevola è che il governo sarebbe caduto per dissensi con il partito dei Verdi sulla politica ambientale). Nel medesimo periodo, anche la Scozia, sulla scia dell’Inghilterra – deve frenare sulla somministrazione di bloccanti e ormoni ai minorenni, mentre i sondaggi rivelano che l’opinione pubblica è sempre più scettica sulla proposta di legge per facilitare il suicidio assistito.

Di qui due domande. Primo, siamo sicuri che, sul terreno dei diritti civili, la freccia del tempo punti ancora al loro ampliamento? Secondo, siamo sicuri che i leader progressisti abbiano il polso delle loro opinioni pubbliche?

L’impressione è che, per molti politici di sinistra, gli attivisti e le lobby LGBT+ contino di più dei rispettivi elettorati, e che questa distorsione percettiva li renda ciechi e potenzialmente autolesionisti. È successo con Sturgeon e Yousaf in Scozia. Ma era già successo in Italia con Enrico Letta e la battaglia perduta sul ddl Zan. E potrebbe risuccedere con Joe Biden fra qualche mese, alle elezioni presidenziali americane.

 [articolo uscito su La Ragione il 7 maggio 2024]




Europa al bivio?

Mancano meno di 4 mesi al voto europeo, ma quasi nessuno pare interessarsene più di tanto. Eppure, forse per la prima volta, si incrociano tre circostanze cruciali. La prima è che, sul tavolo, c’è una posta di enorme impatto macro-economico e sociale: il futuro del Green deal. Secondo, si tratta di una questione su cui l’opinione pubblica è profondamente divisa, anche se in questo momento – a fronte della protesta degli agricoltori – pare emotivamente schierata da una parte, quella dei frenatori della transizione verde. Terzo, mai come oggi l’esito finale del voto è stato incerto.

Parlo di esito finale perché, come sempre in un regime parlamentare proporzionale, l’esito del voto è un “missile a due stadi”, dove il primo stadio è l’esito del voto in termini di composizione del parlamento, mentre il secondo è il tipo di maggioranza cui le forze in campo decideranno di dar luogo.

Storicamente, questo secondo stadio è sempre stato poco problematico, perché – alla fine – si è sempre trovata una quadra puntando su una sorta di Grosse Koalition, ossia sulla santa alleanza fra i tre gruppi più numerosi e più europeisti (socialisti, liberali, popolari/conservatori), talora puntellati da forze euroscettiche più o meno decisive. Quel che poteva cambiare, era solo che l’equilibrio pendesse leggermente più a destra o leggermente più a sinistra, ma la sostanza era sempre quella.

Ebbene, non è detto che lo schema si ripeta. A suggerire cautela sono i sondaggi degli ultimi mesi condotti nei paesi più popolosi, ovvero Germania, Francia e Italia. In Germania, il vento soffia nelle vele della Afd (Alternative für Deutschland), partito di destra anti-immigrati, che alle ultime politiche aveva ottenuto il 10% ma oggi è dato in prossimità del 24%. In Francia il Rassemblement National di Marine Le Pen è in crescita ed è dato intorno al 28%. In Italia il partito di Giorgia Meloni, che aveva pochi seggi in Europa, si avvia a rimpiazzare quello di Salvini, che – con il 34% dei consensi – ne aveva conquistati tantissimi. Complessivamente, i due gruppi di destra del Parlamento Europeo – ECR e ID – dovrebbero guadagnare un numero considerevole di seggi.

Contemporaneamente, i partiti della coalizione che governa l’Europa appaiono in difficoltà. In Francia, perde colpi Macron, in Germania i Popolari, in Italia Forza Italia. I Verdi sono in crisi quasi ovunque in Europa, e i sondaggi prevedono una drastica riduzione dei loro seggi al Parlamento Europeo. Quanto ai socialisti, molto dipenderà dalle alleanze, scissioni e ricomposizioni in atto in Francia e Germania, soprattutto quanto alla capacità di attirare o mantenere il voto degli elettori progressisti ma anti-immigrati. In Francia questo tipo di voto è intercettato soprattutto da La France Insoumise di Jean Luc Mélanchon, che non è chiaro se afferirà ai socialisti o all’estrema sinistra. In Germania, proprio per trattenere il voto anti-immigrati è nato poche settimane fa un partito di estrema sinistra – la BSW di Sahra Wagenknecht – che potrebbe sottrarre voti ai socialisti del premier Olaf Scholtz.

In breve, nel prossimo parlamento europeo dovremmo assistere a un significativo ridimensionamento della attuale maggioranza popolari-liberali-socialisti, a un crollo dei Verdi, e a una avanzata dei due gruppi di destra, uno dei quali potrebbe diventare il terzo raggruppamento, dopo i Popolari e i Socialisti.

L’ipotesi tuttora più verosimile è che si ricostituisca la vecchia maggioranza, eventualmente puntellata dai Cinque Stelle, come l’attuale “maggioranza Ursula”. Ma, ove tale maggioranza non ci fosse, o fosse troppo risicata, non si possono escludere due scenari alternativi, divisi essenzialmente dall’atteggiamento verso la transizione ecologica.

Nel primo, la maggioranza potrebbe allargarsi al gruppo ECR, guidato da Giorgia Meloni, e (quasi sicuramente) rimpolpato dall’ingresso di due partiti decisamente controversi, Fidesz dell’ungherese Orban e Reconquête del francese Éric Zemmour. Nel secondo scenario, l’allargamento avverrebbe invece verso i Verdi, a dispetto del loro quasi certo declassamento da terza a quinta forza del Palamento europeo (in quanto scavalcati da ECR e ID).

Difficile immaginare due scenari più antitetici. Nel primo, assisteremmo a un ridimensionamento e a una decelerazione della transizione verde, in sintonia con le richieste del mondo agricolo. Nel secondo, a un rilancio in grande stile del Green Deal, in barba alle rassicurazioni della attuale Commissione. E checché ne pensi la mucca Ercolina seconda.




Trattori e sinistra in Europa

La protesta degli agricoltori che infuria in Europa non è del tutto nuova. Almeno superficialmente, si potrebbero indicare due precedenti: il movimento dei “forconi”, che tra alterne vicende serpeggiò in Italia fra il 2011 e il 2013, e il movimento dei gilet gialli, che paralizzò la Francia dalla fine del 2018 ai primi mesi del 2019. Anche allora uno dei temi centrali della protesta era il prezzo dei carburanti; anche allora un ruolo centrale venne svolto da agricoltori e autotrasportatori; anche allora le simpatie verso quei movimenti venivano più da destra che da sinistra.

Queste analogie, tuttavia, non devono trarci in inganno. Il movimento di oggi è diverso, molto diverso da quelli di allora. La prima differenza che balza agli occhi è il carattere transnazionale della protesta odierna, partita da Olanda e Belgio ma rapidamente propagatasi ai principali paesi europei, fra cui Francia, Italia, Polonia, Spagna, Romania. La seconda differenza è che ora, al centro delle contestazioni, ci sono le politiche europee in materia di ambiente (il cosiddetto green deal), con le loro ripercussioni sulla PAC, la politica agricola comune: più restrizioni, maggiori costi, minori sussidi. Soprattutto: concorrenza sleale dei paesi da cui importiamo prodotti alimentari (un tema già sollevato, ben venti anni fa, da Giulio Tremonti nel suo libro Rischi fatali)

La terza differenza è che, mentre in passato l’approssimarsi delle elezioni europee aveva finito per spegnere le proteste (nel 2014 quella dei forconi, nel 2019 quella dei gilet gialli), oggi sembra accadere l’esatto contrario: il movimento dei trattori si espande e si rafforza man mano che ci avviciniamo alla data delle europee.

La ragione è semplice: oggi il cuore della protesta non sono le scelte specifiche dei governi nazionali, ma è l’orientamento complessivo della politica europea non solo in materia agricola, ma – più in generale – in tutte le materie sulle quali le scelte pro-ambiente della Commissione Europea mettono a repentaglio redditi, posti di lavoro, aziende, valore degli immobili. È il caso, per fare solo i due esempi più macroscopici, delle direttive in materia di motori termici (che comporteranno il deprezzamento del parco veicoli attualmente circolanti), e delle direttive in materia di abitazioni (che costringeranno i proprietari a scegliere fra costosi efficientamenti energetici e ingenti perdite di valore degli immobili posseduti).

È difficile prevedere come tutto ciò potrà influenzare il voto europeo di giugno. Quel che però, fin da ora, è abbastanza evidente, è che questa protesta impatta in modo asimmetrico sulla destra e sulla sinistra. I socialisti, da sempre in sintonia con gli orientamenti dirigisti della Commissione, rischiano di perdere ulteriori consensi tra i ceti popolari. Specularmente, le forze di destra (Riformisti Conservatori e Identità e Democrazia) hanno l’opportunità – ma forse si dovrebbe dire: un’opportunità unica – di consolidare il proprio consenso fra i ceti popolari, finora alimentato soprattutto dalle preoccupazioni in materia di criminalità e immigrazione.

È uno sbocco inevitabile?

Non credo. Molto dipende da come è fatta, e soprattutto da quanto è pluralistica, l’offerta politica della sinistra nei vari paesi. Se i principali partiti di sinistra sono compattamente schierati pro-immigrazione e pro-transizione ecologica, secondo l’ortodossia finora prevalente a Bruxelles, sono destinati a rafforzare il trend che, ormai da diversi decenni, ha fatto della sinistra la rappresentante privilegiata dei ceti medi e benestanti. E, specularmente, a perfezionare la migrazione dei ceti popolari sotto le ali dei partiti di destra, più o meno estrema.

Dove invece la sinistra prova a essere recettiva delle inquietudini popolari, come in Francia, in Danimarca, in Germania, e fuori dell’Ue nel Regno Unito, i giochi sono più aperti, come già si vede dalle elezioni più recenti e dai sondaggi. Nel Regno Unito e in Danimarca, da qualche anno ha preso forma una sinistra securitaria, talora non insensibile al tradizionalismo dei ceti popolari (penso in particolare al leader laburista Keir Starmer). In Francia, da tempo esiste una formazione di sinistra – La France Insoumise di Mélenchon – che, anche in virtù delle sue posizioni critiche sull’accoglienza, mette un argine al flusso di voti verso la destra di Marine Le Pen. In Germania, con la nascita del partito di Sahra Wagenknecht (BSW), qualcosa di analogo sta nascendo da un scissione della Linke, il partito di estrema sinistra molto radicato nelle regioni dell’Est.

E in Italia?

In Italia, a sinistra, non muove foglia che Schlein non voglia. La nuova segretaria del Pd appare ben decisa a perseverare sui pilastri ideologici della linea seguita fin qui: diritti LGBT, migranti, transizione green. Una formula perfetta per fare il pieno di voti dei ceti medi urbani, istruiti e riflessivi. Lasciando ai Cinque Stelle, ma soprattutto alle destre, di raccogliere il voto dei colletti blu, delle periferie, delle campagne. Un mondo di cui i trattori stanno diventando il simbolo.