La lotteria delle elezioni

La data del voto nessuno la sa ancora con certezza, ma sembra molto probabile che entro la fine di ottobre gli italiani saranno chiamati di nuovo alle urne.

Come andrà a finire?

Gli ultimi sondaggi dànno la Lega in vista del 36-38%, una percentuale che in passato venne toccata solo dalla Dc, negli anni della prima Repubblica, e dal centro-destra unificato da Berlusconi sotto la sigla del Pdl giusto dieci anni fa, alle politiche del 2008.

Dopo la Lega dovrebbero piazzarsi il Pd o i Cinque Stelle, oggi dati in prossimità del 20%, che lotteranno per il secondo posto. Infine, alle spalle dei tre partiti maggiori, dovrebbe andare in scena un duello inedito, quello fra Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) e Berlusconi (forza Italia), per la conquista del quarto posto, con una percentuale di voti dell’ordine del 7-8%. Tutto il resto, sempre stando ai sondaggi, è il solito folklore dei partiti-bonsai, di cui ci si chiede soltanto se troveranno il modo di eleggere qualche deputato o senatore.

Se le cose dovessero andare come i sondaggi ce le dipingono oggi, non ci sarebbe storia: Salvini formerebbe un governo con Giorgia Meloni, e starebbe a Berlusconi decidere se vuole essere della partita oppure no.

Ma le cose andranno così?

Non è detto. Quando si azzardano questo genere di previsioni, si dimenticano infatti alcune cose.

La prima è che l’elettorato italiano è diventato estremamente volubile. Anche in passato succedeva che un leader a lungo osannato perdesse repentinamente il consenso, come accadde a Mussolini e a Craxi, per citare i due casi più clamorosi. Ma di solito il consenso durava a lungo, prima di essere ritirato. Oggi non è più così, un leader può cadere nel giro di 2-3 anni. Forse ce ne siamo scordati, ma era già successo con Walter Veltroni. Corteggiato, osannato, considerato l’unico in grado di ridare un’anima alla sinistra, venne incoronato segretario del neonato Partito democratico nel 2007, ma già due anni dopo, nel 2009, veniva indotto a dimettersi da una sconfitta elettorale (in Sardegna) ma soprattutto dalle faide interne al nuovo partito. Pochi anni dopo è toccato a Matteo Renzi, anche lui acclamato e considerato l’unico in grado di innovare il Pd, ma sonoramente sconfitto e abbandonato alla fine del 2016 (referendum costituzionale), meno di 3 anni dopo la sua ascesa alla presidenza del Consiglio. E’ naturalmente possibile che Salvini duri qualche decennio, ma i precedenti di Veltroni e di Renzi suggeriscono molta cautela. Anche perché non è detto che l’elettorato apprezzi la mossa di Salvini di far cadere il governo anzitempo.

Una seconda cosa, ancora più importante, che si tende a dimenticare è che l’esito di un’elezione non dipende solo dalla domanda politica degli elettori, ma anche dall’offerta politica. I sondaggi che in questi giorni vengono freneticamente consultati dai leader politici degli attuali partiti nulla possono dire su come reagirebbe l’elettorato se scendessero in campo nuove forze politiche, o se quelle attuali cambiassero drasticamente linea politica.

Qualcuno, ad esempio, ha fatto osservare che un’eventuale rottura dei Cinque Stelle con la Lega, con conseguente ritorno alla purezza originaria del movimento, potrebbe anche riportare all’ovile una parte dell’elettorato grillino, rifluito verso il non voto e verso il Pd. Ma la fonte di incertezza più significativa è la possibile nascita di nuove forze politiche, specie al centro, in quell’area che in passato era presidiata dai cattolici (ricordate la Margherita?) e dalle forze moderate, come il partito di Mario Monti. Non sappiamo se nascerà un partito del Sud (anche di questo si parla da qualche tempo), o un partito di Renzi, o un partito di Calenda, o un partito di Conte, o un partito di qualche imprenditore della politica tentato dall’avventura elettorale, ma quel che è certo è che, se alle elezioni dovesse presentarsi una forza politica nuova e credibile, di voti ne potrebbe attirare parecchi, con conseguente indebolimento dei maggiori partiti, e probabilmente anche di Forza Italia (e se fosse questa la ragione dello strappo di Salvini, timoroso che – con il passare del tempo – il centro possa essere occupato da altri)?.

C’è poi la grande incognita sulle maggioranze parlamentari. Il centro-destra pare sicuro di poter raccogliere il 45% dei voti (Lega + Fratelli d’Italia) senza Berlusconi, e di poter andare oltre il 50% includendo i consensi a Forza Italia. E’ un calcolo verosimile, ma di nuovo occorre ricordare che i sondaggi nulla possono dire su eventuali nuovi attori in campo, e che la regola empirica per cui con il 40% dei voti si conquistano il 50% dei seggi è, appunto, una regola empirica, che dipende da circostanze non facilmente prevedibili, ovvero quali forze politiche non supereranno la soglia di sbarramento, e che cosa succederà nei collegi uninominali della parte maggioritaria, che assegna il 37% dei seggi.

C’è, infine, l’incertezza sul Governo. Se una cosa ci ha insegnato la presente Legislatura, è che i partiti possono benissimo presentarsi alleati e poi dividersi, oppure presentarsi da acerrimi nemici e poi allearsi per formare un Governo.

Insomma, i giochi sembrano chiusi, ma non lo sono. In tre mesi possono cambiare tante cose.

Pubblicato su Il Messaggero del 10 agosto 2019



Sondaggi, exit-polls e proiezioni: perché tanti errori

Ci risiamo. Come lo scorso anno alle politiche, come nelle precedenti amministrative, come (quasi) sempre in tutti i tipi di consultazione elettorale dell’ultimo decennio almeno, conoscere in anticipo le tendenze del voto degli italiani è una chimera.

La serata del 26 maggio scorso è parsa a tutti una riedizione dell’incubo dell’anno precedente. Exit-polls che non avevano nulla a che vedere con i risultati reali, come avremmo scoperto qualche ora dopo, solamente grazie ai costanti – ma comunque sempre lenti – aggiornamenti del sito Eligendo, del Viminale. Prime proiezioni che si allontanavano, poco alla volta, dai precedenti exit-polls, ma con stime che restavano ancora molto distanti, pur con qualche meritoria eccezione, dalle percentuali di voto che avremmo saputo solo alle prime ore del mattino seguente.

Passi per le televisioni private, Sky o La7, ma se il servizio pubblico della Rai, con i soldi dei contribuenti, mette in scena uno spettacolo politico-giornalistico basato sulle stime di voto, e queste stime sono del tutto erronee, ci troviamo a chiederci: perché dobbiamo buttare i nostri soldi in questo modo? Perchè non seguire invece l’evoluzione dello scrutinio reale dei voti fornitoci del Ministero degli Interni che, oltretutto, è molto più divertente.

Tanto da assomigliare quasi ad un campionato di calcio: dopo le prime giornate è in testa il Partito Democratico, tallonato dal Movimento 5 stelle; ma ecco che nel girone di ritorno torna a farsi avanti la Lega di Salvini, che domina le ultime 10 partite e arriva trionfante ad aggiudicarsi la prima piazza, con un distacco piuttosto sensibile sugli altri contendenti. Scudetto aggiudicato, mentre sono relegate in serie B +Europa e La sinistra, capitanate da Bonino e Fratoianni, che non raggiungono il quorum necessario per restare nella massima serie. Un divertimento puro, anziché la rabbia di non capire se stiamo assistendo a reali anticipazioni di ciò che poi accadrà davvero, oppure a semplici numeri casuali, con beneficio di inventario.

Ora, sappiamo ormai molto bene che le stime prodotte dai sondaggi sono abbastanza deboli, abbastanza aleatorie, sempre più difficilmente veritiere. L’ho scritto qualche settimana fa proprio su questo sito: dieci buone ragioni per cui non credere (troppo) ai sondaggi. In particolare quelli sulle stime sul voto, perché questo è sempre più volatile, meno ancorato all’appartenenza socio-politica (la fedeltà pesante), meno determinato dalla vicinanza ideologica tipico della fedeltà leggera (berlusconiani contro anti-berlusconiani) e sempre più pragmatico ed emozionale. Il tradimento non genera più sensi di colpa, nella vita come nelle urne. Si può fare tutto, come già profetizzava Giorgio Gaber 40 anni fa.

I sondaggi dovrebbero essere in grado di capire dunque, più dell’elettore, quello che lui ancora non sa, cioè per quale partito voterà, anticipando le sue scelte finali: un compito quasi impossibile. Ma se gli errori nei sondaggi sono comprensibili, entro certi limitati, quelli negli exit-polls certamente un po’ meno, soprattutto perché la scelta finale l’elettore l’ha appena fatta, e dunque l’incertezza precedente è stata già risolta. Qui i problemi da superare sono di tre tipi: la desiderabilità sociale, il numero di sedi-campione esiguo e il sistema di rilevazione.

La desiderabilità sociale, vale a dire la scarsa volontà di dichiarare un partito non troppo ben visto dall’opinione pubblica, antica distorsione dei tempi della Democrazia Cristiana o del Berlusconi in crisi, pare essere ormai superata quasi del tutto. Sdoganata ogni possibile scelta politica, non ci si “vergogna” più di nulla, nemmeno del voto per Casa Pound, in sospetto neo-fascismo. E dunque, trovarsi con exit-polls dove la Lega veniva data da tutti con una forchetta tra il 27 ed il 30 per cento, come hanno fatto praticamente tutti gli Istituti di ricerca, sotto-stimandola di una quota compresa tra i 4 e i 7 punti, è un deciso errore che andrebbe sanzionato. Così come le stime del M5s, sovra-stimato in egual misura.

Le cause potrebbero essere individuate nella scarsa numerosità dei punti di campionamento. Se intervisto gli elettori di sole 30-40 sedi di voto, è possibile che i miei risultati saranno ampiamente distorti. Meglio non effettuare nulla in quel caso. E se così si fa perché i committenti non danno abbastanza soldi, ancor meglio astenersi, indicando loro il numero minimo di interviste da effettuare all’uscita dei seggi, altrimenti si declina l’incarico. Ma così non si fa. Si prendono i graditi compensi, sbagliando nettamente le previsioni, tanto chi ci rimette è il cittadino; il ricordo dell’errore sfumerà qualche ora dopo, quando i risultati reali verranno diffusi dal Viminale.

Ultimo possibile errore, il sistema di rilevazione o il modello di stima che non funziona. E in questo caso, inutile sottolinearlo, quegli Istituti dovrebbero chiudere definitivamente i battenti, almeno in questo campo, dopo almeno 30 anni di exit-poll, in Italia e nel mondo.

Infine, le proiezioni. In questo caso, l’errore è quasi “impossibile”, se si hanno a disposizione un numero di sezioni-campione minimamente affidabile, poiché si tratta unicamente di rilevare, attraverso appunto questo campione di sezioni, ciò che è accaduto nella popolazione elettorale nel suo complesso. E a chiusura dei seggi, domenica 26 maggio, ci siamo trovati sul video tre stime del tutto differenti: la Lega, il cui risultato finale è stato come noto del 34,3%, veniva data al 27%, al 29% e al 31%, nelle prime proiezioni. Errori di stima tra il 7,3% e il 3,3%: inammissibile.

Gli Istituti di ricerca che si esibiscono in queste performance dovrebbero venir valutati sulla base della loro efficienza. Se si sbagliano in maniera a volte clamorosa le stime degli exit-polls e, soprattutto, quelle delle proiezioni, si dovrebbe essere squalificati, come con il cartellino rosso nel calcio, almeno per un turno. Ma questo non accade.

Perché? Molto semplice. Si vincono le gare grazie al ribasso dei costi, e questo inevitabilmente porta ad un abbassamento della numerosità campionaria e ad una minor capacità previsiva dei campioni utilizzati, troppo ridotti. Gli errori devono (e possono) venir contenuti, fin dalla prima proiezione, ad un massimo dell’1-1,5%, e non possono essere superiori allo 0,5-0,8% all’ultima proiezione. Ma da anni questa efficienza non si raggiunge più. E non si incorre in nessuna “sanzione”, se non quella economica, forse.

E’ una sorta di “spirale dell’inefficienza”: i committenti (e se sono pubblici è altamente riprovevole) spendono meno e danno un servizio pessimo, con un risparmio ulteriore se tagliano i compensi in caso di errore; gli Istituti risparmiano sui propri costi, fornendo un servizio inutile, ma rientrano delle proprie spese, con un parallelo investimento pubblicitario sostanzialmente gratuito. E così continuerà, se qualcuno non fermerà la macchina.




La crisi è un missile a 3 stadi

Ha suscitato una certa attenzione, anche a livello nazionale, la marcia sì-Tav di sabato scorso a Torino, la mia città. Molti hanno visto in essa i primi sintomi di un possibile indebolimento del consenso al Governo, peraltro segnalato anche da alcuni recenti sondaggi. L’opposizione, finora inerte, comincia a nutrire qualche timida speranza di rimonta.

Dobbiamo dare credito a questi segnali?

Per certi versi sì. E’ da qualche settimana, infatti, e precisamente dal giorno della denuncia in tv, da parte di Di Maio, della “manina” che avrebbe manipolato la manovra inserendo proditoriamente un condono fiscale troppo indulgente, che Salvini e Di Maio non sembrano più quelli di prima. Non passa giorno senza un battibecco, per lo più indiretto, via internet e via social media. Reddito di cittadinanza, condono fiscale, condono edilizio, decreto sicurezza, riforma della prescrizione, grandi opere, e ora persino gli inceneritori e la gestione dei rifiuti in Campania, offrono continue occasioni di punzecchiamento reciproco. Sembra quasi che, se non vi fosse l’odiata Bruxelles contro cui dirigere quotidianamente i propri strali, a Lega e Cinque Stelle resterebbero ben pochi motivi per restare insieme (il che, detto per inciso, forse spiega le rigidità dell’esecutivo sulla manovra: lo scontro con la cattiva Europa è l’unico vero cemento ideologico dei due partiti che ci governano).

Per altri versi però no, l’idea che il governo sia alla vigilia di una crisi non mi convince, o meglio non mi convince ancora. Quel che è interessante, infatti, e meriterebbe una spiegazione, è la circostanza per cui, in questo momento, nell’opinione pubblica paiono convivere due maggioranze di segno contrario, di cui i sondaggi tracciano puntualmente il profilo.

Da una parte c’è la maggioranza (circa il 60%) costituita da quanti approvano l’azione di governo e, in caso di elezioni, voterebbero Lega o Cinque Stelle. Ma dall’altra c’è anche una seconda maggioranza, costituita da una pluralità di maggioranze concentriche: la maggioranza dei contrari al reddito di cittadinanza, la maggioranza dei favorevoli alla Tav e alle grandi opere, la maggioranza di coloro che temono (e prevedono) tasse in aumento. Per non parlare della maggioranza più importante, quella di coloro che vogliono restare nell’euro (circa il 70%).

Strano: sulle cose importanti la maggioranza degli italiani non mostra molta fiducia nelle politiche del governo, ma poi – venuti al dunque – paiono ancora intenzionati a votare Lega e Cinque Stelle. Come mai?

Io penso che le ragioni fondamentali siano due. La prima è che, per votare altro, bisognerebbe che questo “altro” battesse un colpo. Pd e Forza Italia non lo stanno facendo: vorrebbero, ma non ne sono capaci. Se nascerà un’alternativa a questo governo, è più facile cha arrivi da fuori che da dentro il sistema politico attuale.

C’è anche una seconda ragione, però, per la quale il consenso al governo tutto sommato regge, a dispetto delle varie maggioranze contrarie sulle cose che contano. La ragione è che la recessione non è ancora arrivata (verosimilmente sarà riconoscibile la primavera prossima) e la manovra è un congegno a tempo, una sorta di missile a tre stadi.

Il primo stadio è già partito, e ha colpito la ricchezza finanziaria degli italiani, che hanno subito perdite virtuali per oltre 175 miliardi dalla data del voto, e per 85 dalla data di insediamento del governo (per i dettagli vedi: www.fondazionehume.it). Queste perdite hanno colpito, per ora, quasi esclusivamente le banche e i ceti medio-alti, che detengono ricchezza finanziaria sensibile (azioni, obbligazioni, titoli di Stato, fondi comuni). Non si tratta certo di quattro gatti, ma nemmeno di una vasta maggioranza (la maggior parte delle famiglie detiene ricchezza sotto forma di immobili e depositi, due asset assai poco colpiti dall’aumento dello spread e dalla crisi della borsa). Questo primo stadio del missile, a occhio e croce, dovrebbe aver raggiunto 1 famiglia su 5.

Il secondo stadio si farà sentire più avanti, quando comincerà a mancare il credito alle imprese e alle famiglie, con conseguenti riduzioni del fatturato e della spesa, dai mutui immobiliari ai consumi. Più o meno succederà a metà 2019, intorno alle elezioni europee. Subito dopo, ovvero verso la fine dell’anno prossimo, arriverà il terzo stadio, quello delle riduzioni dell’occupazione, un esito difficilmente evitabile se lo spread resterà ai livelli attuali, e praticamente certo se lo spread dovesse salire ancora, trascinando nel baratro le banche.

Ecco perché, nonostante tutto, il governo è ancora popolare. Chi desidera vederlo vacillare, farà bene ad attendere che la manovra dispieghi i suoi effetti, e che nasca una vera opposizione. Due eventi di cui solo il secondo è auspicabile, almeno per chi non è iscritto al “partito del popcorn”, che cinicamente attende che sia il naufragio dell’Italia a trascinare con sé il timoniere.

Articolo pubblicato da Il Messaggero il 17 novembre 2018



Tutta colpa di Renzi?

Da mesi, se non da anni, il ritornello è sempre il medesimo: se il Pd va male, se il Partito Democratico è uscito dalla scena politica e dall’immaginario collettivo del “popolo della sinistra”, la colpa è soprattutto del suo ultimo segretario Matteo Renzi. Lui è il principale imputato di un trend che ha visto il suo partito passare dal 33.2% del 2008 al misero 18.7% delle ultime consultazioni legislative. La crisi della sinistra e del suo principale referente politico sarebbe addebitabile, quasi in toto, all’ex-sindaco di Firenze, che l’ha portata su posizioni totalmente aliene dalla mainstream della tradizione post-comunista, verso tratti decisamente liberali, se non evidentemente conservatori.

Giorni fa. Intervista televisiva. Un operaio licenziato perché la sua fabbrica è stata acquisita da una multinazionale francese e trasferita nel nord della Francia: è stata colpa di Renzi e del Pd! Ora, dopo anni in cui ho votato Pci e la sinistra, ho scelto la Lega di Salvini. L’unico che può invertire la rotta che ha preso il nostro paese.

Sardegna. Agosto 2018. Festa del porceddu. Tra un discorso e l’altro, un anziano contadino: ho votato Lega, è il vero partito del cambiamento. Renzi ci ha ridotto proprio male, a noi sardi, ci ha ridotto in miseria. E sì che gli avevo pure dato il mio voto, la volta precedente. Purtroppo.

Renzi, Renzi, Renzi. Un fantasma si aggirerebbe dunque per l’Italia, il fantasma di colui che, a dispetto del glorioso partito che tentava di costruire il volto nuovo del paese, l’ha portato sostanzialmente alla rovina. Ma sarà vero? Sarà realmente tutta sua la colpa?

Osserviamo intanto per un attimo il trend dei consensi dell’area vicina al centro-sinistra in questo nuovo secolo, dal 2001 ad oggi (fig.1). Come si può notare, nei primi anni del decennio Ds e Margherita, separati o sotto il simbolo unitario dell’Ulivo, hanno costantemente ottenuto un successo elettorale di poco inferiore ad un terzo dei votanti. L’exploit di Veltroni del 2008, che correva per la prima volta con il neonato Partito Democratico, in realtà non è che sia stato un vero exploit: ha migliorato soltanto di poco, un paio di punti percentuali, il retaggio delle formazioni politiche aggregatisi nel Pd e, considerando  inoltre il fatto che il resto della sinistra (Rifondazione & soci) sia praticamente scomparsa, non si può che giungere alla conclusione che il bacino elettorale di quell’area non riuscisse ad andare molto oltre il 35-36% della popolazione italiana.

Fig 1. Consensi elettorali. Politiche + Europee

Una storia non inedita, peraltro. Una storia che ci riporta agli anni della prima repubblica, quando quell’area (sommando il Pci con le altre piccole formazioni di sinistra, come Democrazia Proletaria) anche allora non otteneva una quantità di consensi molto differente da quella di Pd e Rifondazione. Forse era inutile illudersi: gli italiani favorevoli alla sinistra di allora (o al centro-sinistra odierno) non sono mai stati nemmeno lontanamente prossimi al 40% della popolazione.

Il Partito Democratico, per certi versi, aveva scommesso sull’allargamento di quella base elettorale, tentando di attirare a sé anche una parte inedita di elettori, che avrebbe potuto guardare alla proposta del Pd con occhi nuovi, diversi dal passato. Il Pd, per riuscirci avrebbe dovuto partire dal quel 33% di Veltroni, incrementando anno dopo anno il suo bacino di consenso.

Ma così non è stato. Anzi. Dal 2008 in poi, in tutte le consultazioni legislative (fig.2) il Pd è costantemente retrocesso nel favore degli italiani, prima con Bersani (-8% rispetto a Veltroni) e poi con lo stesso Renzi (un ulteriore -6.5% rispetto a Bersani), in una costante e continuativa incapacità di intercettare quei settori sociali cui puntava per accrescere il proprio appeal. Tutti “colpevoli”, dunque, parrebbe di dover dire. Non soltanto infatti il Pd non è riuscito a diventare il referente di un nuovo elettorato, ma poco alla volta ha perso sia una parte dei suoi antichi estimatori ex-Pci, con Bersani, che anche dei nuovi, di quelli che avevano sperato in un cambio di prospettiva con Renzi.

Fig.2 Consensi elettorali. Solo Politiche – Camera

Perché, se torniamo ad osservare il primo grafico, si può chiaramente individuare un momento in cui, all’interno di questo cammino da gambero, il Partito Democratico ha vissuto una situazione così anomala che oggi molti stentano a credere che sia davvero accaduto. Nelle europee del 2014, pochi mesi dopo il suo insediamento, Matteo Renzi ha davvero compiuto un mezzo miracolo, andando a superare per la prima volta nella storia l’asticella del 40%. Certo, con un numero di votanti inferiore a quelli di Veltroni, ma comunque un risultato simbolicamente significativo.

Renzi era stato dunque capace di convincere una fetta importante di elettori che, con lui, sarebbe iniziato realmente un nuovo corso, un nuovo partito di centro-sinistra che si smarcava dai retaggi del passato, per guardare ad un futuro diverso. Inedito. La sua colpa, forse, è stata proprio quella di candidarsi ad un modo nuovo di governare, ad una modalità politica inedita per un partito di sinistra, senza averne realmente le capacità “politiche”. Il suo fulgore è durato poco, lo sappiamo, e presto è rientrato nei consueti parametri, inimicandosi inoltre con il suo comportamento gran parte di chi aveva per un attimo creduto in lui. Ma probabilmente la vera anomalia è stata proprio quel suo grande successo, che ha fermato per un attimo il declino inevitabile del Pd. Che poi è ripreso in maniera ineluttabile, con o senza Renzi.




Elezioni europee, contano i migranti. Intervista a Luca Ricolfi

Domanda. La campagna elettorale per le Europee di maggio sta entrando nel vivo con larghissimo anticipo. Un antipasto è stato il voto europeo sulle sanzioni ad Orban. Che ci dice la condanna al premier ungherese?

Risposta.  Ci dice che l’Europa è debole, debolissima, anzi impotente. Giuste o sbagliate che siano le sanzioni che l’Europa infligge agli Stati membri, o le raccomandazioni con cui li irrora quotidianamente, il punto è che le autorità europee (Commissione, Consiglio, Corte dei diritti dell’uomo ecc.) non sono assolutamente in grado di far rispettare le regole che tutti hanno sottoscritto. Vale per i conti pubblici, ma anche per le violazioni dei diritti dell’uomo, o l’obbligo di redistribuzione dei migranti.

E quando ci si erge a custodi delle regole, e poi si permette a (quasi) tutti di violarle, è naturale che si affermi l’idea che ogni Stato può fare un po’ quel che vuole.

D. Questo caos che rapporto ha con il ritorno dei nazionalismi?

R. Il primo combustibile che ha fatto rinascere i nazionalismi è stato fornito dall’Europa stessa, che prima ha formulato regole non applicabili a tutti, poi ha permesso a molti Stati (comprese Germania e Francia) di infischiarsene delle regole. E ci stupiamo che Orban pretenda di fare lo stesso?

D. Il presidente francese Macron avversa Orban per misure contro l’immigrazione che nei fatti ha preso la stessa Francia. Che partita è quella tra Francia, e con essa la Germania, contro Ungheria e anche l’Italia di Salvini? Quali sono i blocchi in campo?

R. Non vedo veri blocchi, ma tanti piccoli interessi di partito, prima ancora che nazionali. Ogni leader europeo pensa alle prossime elezioni, e così contribuisce alla distruzione dell’edificio comune. Quanto a Emmanuel Macron e alla Francia, penso che il presidente francese non faccia che continuare una politica che dura da anni, e che è stata ben documentata da Roberto Napoletano nel suo libro sulla crisi (Il cigno nero, ndr). La Francia ha interessi economici opposti a quelli dell’Italia sullo scacchiere libico, e non da ieri ci vede come un regime arretrato e illiberale (si pensi all’asilo concesso ai terroristi rossi, motivato con il presunto regime di polizia instaurato in Italia negli anni della lotta alle Brigate Rosse).

D. Come spiega il voto di Forza Italia su Orban? Ha abbandonato il Ppe per sposare le ragioni della Lega di Matteo Salvini.

R. Orban fa parte del Partito popolare europeo. Mi pare più esatto dire che nel partito popolare ci sono idee diverse. Probabilmente Silvio Berlusconi, più che sposare le idee della Lega, pensa che l’atteggiamento dell’Europa verso Orban sia discutibile. Perché le preoccupazioni dell’Europa sull’Ungheria sono comprensibili su certi versanti (limitazioni della libertà di stampa, o dell’indipendenza della Magistratura), ma opinabilissime sul versante migratorio. La malattia dell’Europa è il rifiuto della storia. Dopo aver accelerato imprudentemente l’ingresso nell’Unione degli stati ex comunisti, l’establishment europeo ha voluto ignorare le enormi differenze storiche ed economiche fra Europa occidentale ed Europa dell’Est. Di qui l’idea che, per il solo fatto di aver aderito all’Unione, paesi le cui istituzioni e le cui economie assomigliano alle nostre negli anni ’50 e ’60 potessero istantaneamente adottare la nostra mentalità, i nostri valori, i nostri costumi.

D. La scommessa era che l’ingresso nella Ue ne avrebbe accelerato i processi diciamo di occidentalizzazione.

R. Ma la storia non funziona così. Può accelerare, bruciare alcune tappe, ma non saltarle tutte. Lo sanno i nostri governanti che nella civilissima Francia di De Gaulle, Pompidou, Giscard D’Estaing, la gente veniva ancora ghigliottinata? E che si dovrà attendere l’elezione di Mitterand, nel 1981, per vedere l’abolizione della pena di morte? Per non parlare dei tempi lunghi dell’economia.

D. Ma questo cosa c’entra con il rifiuto dell’accoglienza dei migranti?

R. C’entra. Come si fa a non comprendere che l’atteggiamento di un popolo verso gli immigrati non dipende solo dal suo (presunto) livello di civiltà ma anche dal Pil e dal mercato del lavoro? Un paese come l’Ungheria, che negli ultimi anni si è duramente opposto agli ingressi legali, lo ha fatto con un livello di benessere e un tasso di occupazione fra i più bassi d’Europa; mentre i paesi che hanno generosamente accolto migranti lo hanno fatto in una condizione di benessere, con milioni di posti di lavoro che i nativi non erano più disposti ad occupare.

D. Salvini sembra stia tessendo una vera rete in Europa, dopo Orban ora con l’estrema destra austriaca capitanata dal vicencancelliere Strache.

R. Più che blocchi fra Stati, vedo alleanze fra famiglie politiche. In Europa il populismo è prevalentemente “di destra”, con le rilevanti eccezioni di Syriza, Podemos, Cinque Stelle. Quindi un esperimento populista-sovranista come quello italiano diventa difficile da immaginare. Più verosimile è che si formi, dopo le elezioni, un’alleanza fra partiti di destra “rispettabili” (tipo Ppe) e partiti di destra “scavezzacollo” (tipo Lega, Fronte Nazionale, Alternative für Deutschland, ecc.). Sempre che, naturalmente, i partiti che hanno governato l’Europa in questi 40 anni, ossia socialisti, popolari, conservatori, liberali, non riescano nel miracolo di ottenere più del 50% dei voti.

D. Quanto della sfida europea si giocherà sul terreno dell’immigrazione?

R. Temo più del 50%, perché i temi economici sono troppo complicati. Ma soprattutto perché mancano del tutto idee-forza, salvo la solita contrapposizione fra chi vuole sforare il deficit del 3% e chi raccomanda austerità.

D. Macron, che sfida i sovranisti, ha annunciato una misura populista come il reddito di cittadinanza, che è il cavallo di battaglia del Movimento5stelle. Che cosa ci dice questa scelta?

R. Che il ragazzo è sveglio, e ha capito che senza idee nuove (o che sembrano nuove) si scompare molto rapidamente. Però, per quel che se ne sa, la proposta di un “reddito universale di attivazione” è poco incisiva in termini di risorse stanziate, e ha il consueto difetto di tutte le misure di reddito minimo: può funzionare solo se l’economia cresce e i centri per l’impiego hanno un elevato numero di offerte di lavoro da sottoporre a chi percepisce il sussidio. In caso contrario la misura diventa di tipo assistenziale, e disincentiva la ricerca di un lavoro.

D. Che risultato si aspetta per l’Italia dal voto alle prossime europee?

R. Quasi tutto dipenderà da quanti e quali errori faranno di qui a maggio i partiti di governo. Tendo a pensare che ne faranno pochi, e potrebbero incassare un buon risultato, soprattutto la Lega.

D. Uno scenario per la stessa Italia?

R. Penso che, ancora una volta, crederemo che tutto sia cambiato, salvo accorgerci – fra qualche anno – che l’Italia è rimasta quello che è sempre stata dagli anni ’70 in poi: un paese incapace di grandi scelte, prigioniero delle tribù che se ne contendono le spoglie.

D. Non può mancare una domanda sul centrosinistra. Nel confronto sull’immigrazione così come sull’Europa l’opposizione, a partire dal Pd, pare non esistere, essere afona. Tutta colpa dei media?

R. Colpa dei media? Io li trovo fin troppo gentili, sia con il governo che con l’opposizione. Se avessimo una vera opinione pubblica, e i media facessero il loro dovere fino in fondo, nessuno dei politici attuali resisterebbe più di una settimana sulla scena.

Il centro-sinistra non ha bisogno dell’ostilità o dell’indifferenza dei media per estinguersi: bastano i suoi dirigenti. In tanti anni che osservo la sinistra, non avevo mai visto un vuoto di idee così spinto, e così poca consapevolezza degli errori commessi.

D. Dopo la guerra delle cene con Nicola Zingaretti, l’ex ministro Pd Carlo Calenda ha detto che l’unico segretario possibile per il partito è un buono psichiatra. Stiamo a questo punto?

Sì, siamo a questo punto. E lo siamo per una ragione molto semplice: a differenza di quel che succedeva con il Partito comunista, la maggior parte dei dirigenti del Pd è priva di idee, di cultura e di autentica dedizione a una causa che vada oltre la promozione di sé stessi. In queste condizioni è del tutto naturale che quel che residua siano quasi esclusivamente gli interessi personali. I quali non creano problemi in un’azienda, in una squadra di calcio, in un’emittente televisiva, perché lì fa parte delle regole del gioco che ognuno promuova sé stesso, mentre ne creano di enormi in un partito, perché lì la finzione che si pretende di mantenere viva è quella di avere a cuore soprattutto il bene comune. Insomma, per i politici di oggi mantenere quella finzione richiede dosi troppo grandi di falsa coscienza, di autoinganno. La mente rischia di andare in pezzi. E quando la mente vacilla, si pensa giustamente allo psichiatra. Sì, Calenda ha colto perfettamente nel segno.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 settembre 2018