La fedeltà (leggera) di voto c’è ancora

Una delle recenti leggende metropolitane ci racconta come ormai i cittadini, nelle loro scelte di voto, siano condizionati da percezioni superficiali, o dallo story-telling del leader di turno (siano questi Renzi o Grillo, Salvini o Giorgia Meloni), e che abbiano abbandonato criteri di scelta più coerenti con la propria storia personale o con il modo di interpretare la società che li circonda. Vivremmo dunque un periodo di alta volatilità elettorale, con scelte episodiche, quasi casuali, come se fossimo al supermercato elettorale: si compra l’articolo di moda oppure quello con uno sconto più elevato. Ma sarà davvero così?

Come noto, la storia della fedeltà elettorale è piuttosto lunga e complessa, ed ha vissuto due fasi particolarmente significative. Fino agli anni Ottanta il sistema partitico è stato caratterizzato da un’estrema staticità, con incrementi o decrementi dei consensi limitati a pochi punti percentuali: l’elettore aveva un alto livello di vischiosità (si è per questo coniato il termine di “fedeltà pesante”), derivante o da appartenenza (sub-culturale) o dal voto di scambio, che permetteva il costante processo di allocazione mirata delle risorse economiche, determinante soprattutto nel meridione a favore del partito egemone, la DC.

A partire dagli anni Novanta, con il deciso incremento del voto d’opinione, il concetto di “fedeltà leggera” diviene un patrimonio interpretativo particolarmente efficace per leggere i risultati elettorali. L’idea si basa sul presupposto che, da un parte, il credo politico non sia più così fondamentale, per il cittadino-elettore, nella formazione della propria personalità, come lo era stato al contrario nei decenni precedenti (da qui, l’idea di una sorta di “leggerezza” nel proprio coinvolgimento elettorale); dall’altra, che permanga comunque una forte fedeltà di voto, legata non già al partito quanto alla propria coalizione o alla propria area politica di riferimento.

Dopo un periodo di assestamento, dovuto alla scomparsa di molti dei partiti storici, il voto riacquistava dunque una nuova forma di stabilità, motivata non più dall’importanza che il partito rivestiva come rappresentante dei propri interessi, o della propria sub-cultura di riferimento, quanto dalla condivisione delle ideologie che le due aree politiche rappresentavano: destra contro sinistra, stato contro mercato, berlusconismo contro anti-berlusconismo sono state, fino alla fine del primo decennio del nuovo secolo, le fratture che determinavano maggiormente la scelta di voto dei cittadini.

Con l’avvento dei nuovi partiti a-ideologici, come il Movimento 5 stelle, si è presto dato per scontato che di quella contrapposizione non ci fosse più traccia e che, appunto, gli elettori si accostassero al voto privi di “pregiudizi” contro questa o quella forza politica. Come se fossero prodotti di consumo, altamente interscambiabili a seconda del momento e della situazione del paese, e condizionati prevalentemente dalla capacità comunicativa dei diversi leader.

Ma un’analisi più attenta dei flussi di voto, reali o potenziali, ci raccontano una realtà un po’ più complessa. Limitandoci ai passaggi avvenuti tra le ultime elezioni politiche del 2018 e le odierne dichiarazioni di voto (come si vede nella tabella qui accanto), il quadro che ci si presenta dinanzi non si discosta poi molto da quanto accadeva all’epoca della fedeltà leggera dei decenni della seconda repubblica, con un unico (sebbene significativo) mutamento, dovuto alla presenza del M5s.

Dunque, i partiti del centro-sinistra e quelli del centro-destra restano ancorati ad una percentuale di fedeli particolarmente elevata (rispettivamente, dell’88% e del 94%), con un passaggio di voti tra le due aree (i “traditori”) quasi inesistente. Gli unici elettori che al contrario si spostano in misura significativa sono quelli che nel 2018 avevano votato appunto per il movimento fondato da Grillo, che è caratterizzato da un tasso di fedeltà piuttosto limitata, di poco superiore al 50%.

Così, il deciso incremento del centro-destra e quello più circoscritto del centro-sinistra è dovuto sostanzialmente alle scelte dei pentastellati in uscita, che hanno premiato soprattutto la Lega (nel 2019) e più recentemente Fratelli d’Italia, oltre ad una quota minore che è approdata al Partito Democratico. La fedeltà di area esiste ancora, dunque, e i rapidi cambiamenti nelle gerarchie partitiche sono dovuti sostanzialmente a passaggi all’interno della stessa area politica: il partito di Meloni, ad esempio, è parecchio cresciuto negli ultimi due anni grazie agli elettori di Berlusconi e di Salvini che sono passati dalla sua parte.

Se le scelte future del nuovo Movimento 5 stelle, con la leadership di Conte, dovessero realmente andare verso un’alleanza con il Pd, è possibile che ci troveremo presto in una situazione molto simile a quelle dei decenni passati, con un centro-destra vicino al 50% e un’area “progressista”, come sempre a rincorrere, distaccata di una decina di punti. Entro qualche mese lo sapremo…




La destra e le elezioni anticipate

La richiesta di tornare al voto, ripetuta innumerevoli volte dai partiti del centro-destra, non è priva di buone ragioni. E’ vero che la nostra resta una repubblica parlamentare, e che i cambi di governo in corso di legislatura sono perfettamente legittimi, ma è altrettanto vero che di questa flessibilità si è abusato troppo. Siamo nel 2021, e bisogna risalire al lontano 2008 per rintracciare un governo e un premier (il governo Berlusconi) che fossero espressione del voto popolare. Da allora a decidere chi governa sono state sempre alchimie di palazzo, di volta in volta innescate da emergenze e situazioni eccezionali, o presunte tali: la crisi finanziaria (2011), la mancanza di un chiaro vincitore (2013), l’impazienza di Renzi (2014), l’esito del referendum istituzionale (2016), di nuovo la mancanza di un chiaro vincitore (2018), il rischio di una vittoria elettorale della destra (2019), fino al colpo di teatro di questi giorni, motivato con la doppia emergenza economica e sanitaria.

Di tutte queste ragioni che hanno condotto a costituire governi sganciati da ogni riferimento al consenso popolare la più inquietante è quella che, nel 2019, ha portato al Conte bis. In questo caso, infatti, la motivazione che ha portato a formare il nuovo governo giallorosso non è stata, come in passato, né un’emergenza reale, né l’assenza di un chiaro orientamento dell’elettorato, ma – tutto al contrario – la convinzione che tale orientamento ci fosse, ma non fosse quello “giusto”. Tutti i sondaggi, infatti, indicavano (ed indicano tuttora) che, ove la parola fosse restituita ai cittadini, il colore politico del nuovo governo sarebbe stato di centro-destra, e non di centro-sinistra. Ed è fonte di sconforto che, a 75 anni dalla nascita della Repubblica, la cultura progressista non abbia ancora la maturità democratica per accettare che siano gli elettori, anziché gli abitanti del Palazzo, a scegliere chi li dovrà governare.

Dico tutto questo per dire che capisco l’amarezza dei leader del centro-destra di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e dare la parola agli elettori. E penso anch’io che, in circostanze normali, il capo dello Stato avrebbe fatto bene a sciogliere le Camere, senza farsi condizionare dal timore che a vincere siano i cattivi.

Ma nello stesso tempo non posso non aggiungere che, come studioso che segue l’evoluzione dell’epidemia, penso che in questa circostanza la posizione di chi ha invocato le elezioni anticipate, in particolare Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non sia solidamente fondata, e che abbia fatto bene Mattarella a non percorrere questa via, che pure era nelle sue facoltà. E provo a spiegare perché.

Lascio da parte le considerazioni, peraltro assai convincenti, sull’opportunità che a gestire il Recovery Fund sia una personalità di alto profilo e di indubbia competenza, e mi concentro solo sull’altro motivo sottolineato da Mattarella, ossia il rischio che due mesi di campagna elettorale potessero alimentare ulteriormente l’epidemia.

Come si sa il caso che, in queste settimane, ha originato questo genere di preoccupazioni è quello delle elezioni presidenziali in Portogallo, tenutesi alla fine di gennaio. E infatti, per sostenere l’infondatezza di tale preoccupazione, sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini hanno tentato di smontare precisamente quel caso.

Giorgia Meloni, in un’intervista a Porta a Porta (giovedì notte), ha affermato che si è votato il 24 gennaio, e che “poiché il virus incuba 14 giorni” non era ancora possibile osservare eventuali effetti sull’epidemia. Matteo Salvini, all’opposto, tali effetti ha preteso di osservarli, e lo ha fatto notando che il giorno delle elezioni i contagiati erano 11721, e 8 giorni dopo erano 5805, ovvero circa la metà (in realtà la diminuzione, calcolata in modo appropriato, è stata molto minore).

Ebbene, entrambe queste argomentazioni non fanno adeguatamente i conti con quel che è successo in Portogallo. Quel che, per settimane, ha preoccupato gli analisti non è tanto il rischio che l’afflusso ai seggi (in un singolo giorno) potesse moltiplicare i contagi, quanto il timore che a far esplodere l’epidemia provvedesse la campagna elettorale (lungo un periodo di parecchie settimane). Questo timore era supportato dal fatto che, circa un mese prima del voto (all’inizio della campagna elettorale), la curva dei contagi avesse invertito repentinamente la sua rotta, passando da calante a crescente, e più o meno una settimana dopo la medesima sorte fosse toccata alla curva dei decessi.

In effetti, nel giro di un mese, e proprio in coincidenza con l’appuntamento elettorale, il Portogallo ha scalato sia la classifica della velocità di propagazione dell’epidemia (quella che si misura con Rt), sia la classifica della diffusione del contagio, andando ad occupare il triste primato che per quasi tutto il 2020 era toccato al Belgio. Non solo: entrambe le curve, dei contagi e dei decessi, hanno cominciato a dare segnali di arretramento solo 1-2 settimane dopo l’appuntamento elettorale (prima quella dei contagi, poi quella dei decessi). Infine, è di questi giorni la notizia che gli ospedali portoghesi sono al collasso, e il paese ha dovuto richiedere l’aiuto degli altri paesi europei.

E’ la prova inconfutabile che a far precipitare la situazione sia stato l’appuntamento elettorale?

No, non lo è. In questo campo non si possono fornire dimostrazioni rigorose, ma solo individuare indizi, più o meno supportati da evidenze matematico-statistiche. Però si può osservare che, nel caso delle elezioni portoghesi, gli indizi ci sono, purtroppo. E che, quanto alle elezioni italiane, oggi il numero di contagiati è circa 10 volte quello di settembre, che già non aveva mancato di suscitare le preoccupazioni di alcuni studiosi.

In questa situazione, in cui mancano le prove ma abbondano gli indizi, ognuno ha buone ragioni per tenersi le idee che preferisce. Ma è difficile non comprendere quelle del capo dello Stato, che ha ritenuto imprudente interrompere la legislatura in un momento in cui il numero di contagiati è molto alto e l’epidemia non accenna a piegare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 febbraio 2021




Altro che modello italiano sulla pandemia. Intervista a Luca Ricolfi

Un anno particolare, segnato dalla pandemia e da una crisi economica senza precedenti. Dove si torna a discutere del ruolo dello stato sociale e soprattutto della scuola e della sanità pubblica in una società, quella italiana, per la quale Luca Ricolfi, politologo e sociologo, ha coniato l’espressione “società signorile di massa” (una società dove molti consumano ma pochi producono perché si fonda sulla ricchezza accumulata dai padri).

Professor Ricolfi, mancano meno di due settimane all’inizio dell’anno scolastico. Lo considera l’ultimo banco di prova della tenuta dello stato di emergenza? Si sente ottimista?
Né ottimista né pessimista, perché purtroppo mancano (o meglio sono secretati) i dati che permetterebbero di formulare previsioni solide. Quello che posso dire, con i pochi dati che la Protezione Civile e l’Istituto Superiore di Sanità rilasciano, sono essenzialmente due cose.
La prima è che fra i paesi avanzati, che sono una trentina, solo tre – Belgio, Spagna e Regno Unito – hanno un bilancio complessivo di morti (per abitante) peggiore di quello dell’Italia.
La seconda è che, se guardiamo al solo mese di agosto, le cose vanno un po’ meglio per noi: l’Italia è intorno alla metà della classifica fra i paesi avanzati, e fra i grandi paesi solo Germania, Giappone, Corea del Sud, presentano tassi di mortalità più bassi dei nostri.

Didattica a distanza, cattedre vuote, edilizia scolastica in condizioni critiche, è il momento di ripensare tutto il modello della nostra istruzione pubblica oppure non c’è spazio che per la gestione dell’emergenza?
Veramente è da mezzo secolo che sarebbe il momento di ripensare il sistema dell’istruzione. Magari non pensando solo all’edilizia e alle graduatorie dei precari ma anche al fatto che la qualità dell’istruzione (e dei docenti) si è abbassata drammaticamente, e ora con la didattica a distanza si appresta a ricevere il colpo di grazia. Travolte dalle pressioni a promuovere, per dare all’Europa i numeri che pretende, scuola e università sono diventate macchine per produrre false certificazioni, o meglio certificati veri indistinguibili da quelli falsi.

Altri Paesi adesso guardano con interesse al modello Italia, almeno per la gestione sanitaria del Covid-19.  Crede che la nostra consapevolezza e la profilassi ormai entrata nelle abitudini quotidiane ci eviteranno un ritorno al lockdown?
A giudicare dai risultati, sconsiglierei qualsiasi paese di seguire il modello italiano, fatto di ritardi, disorganizzazione, leggerezza nel far rispettare le regole, incapacità di far ripartire l’economia. Siamo al 4° posto in Europa come numero di morti per abitante, e all’ultimo come andamento del Pil 2020. Come si fa a parlare di modello italiano?
Se dovessi additare dei modelli, citerei piuttosto quello della Germania e quello della Corea del Sud, due paesi che molti media stanno descrivendo come attualmente più inguaiati di noi, ma che in realtà si stanno comportando meglio: anche considerando il solo mese di agosto, il numero di morti per abitante della Germania è poco più della metà di quello dell’Italia, e quello della Corea del Sud è circa un sesto.

Emergenza sanitaria ed economia non sono mai stati così correlati. Quando saremo fuori dal pericolo del contagio tornerà il modello economico che è entrato ora in crisi o cambierà qualcosa?
Una cosa nuova ci sarà di sicuro, anche se la pandemia dovesse miracolosamente sparire nel 2021: il mondo occidentale si troverà ad avere perso ulteriori posizioni nella competizione con la Cina.
Sul fatto che possa tornare il modello economico precedente, ho i miei dubbi, almeno per l’Italia. Noi eravamo già una “società signorile di massa” in declino. Questi mesi li abbiamo usati per tappare le falle e congelare tutto, senza la minima attenzione a creare le condizioni di una ripartenza. Quel che mi aspetto, quindi, è un brusco risveglio nel primo semestre 2021, quando ci si accorgerà che non si può andare avanti in eterno con i sussidi e il blocco dei licenziamenti.

Lo smart working secondo lei cambierà il volto delle nostre città e il settore dei servizi?
Sì, lo cambierà, con un abbattimento parallelo dei costi e della qualità.

Più volte lei ha lamentato in passato il rischio di finanziamenti a pioggia per riparare i danni economici di questa crisi. Ma è davvero possibile in un momento simile pianificare interventi a lungo termine?
Certo che è possibile, basta togliere la parola “pianificare”. Non si tratta di pianificare, ma di creare un ambiente – meno tasse e meno burocrazia – che consenta ai produttori di restare sul mercato o di entrarvi. L’alternativa è di diventare una “società parassita di massa”, in cui una piccola minoranza lavora e la maggioranza vive di trasferimenti.

Dalle prime misure di marzo a oggi il governo ha dovuto prendere decisioni poco popolari. Ora che siamo tornati in campagna elettorale crede sia difficile conquistare il consenso degli elettori senza perdere di vista il bene comune?
Era già impossibile prima, figuriamoci oggi. Il governo Conte è un mirabile esempio di esecutivo basato esclusivamente sulla massimizzazione del consenso, anzi del consenso di breve periodo.

A proposito di elezioni, cosa pensa del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari?
Penso che qualsiasi cosa si voti si sbaglia. Votando sì, si legittima il qualunquismo grillino, e si rafforza un governo che ha già notevolmente compromesso il nostro futuro. Votando no ci si accoda a un penoso tentativo di vestire di nobili intenzioni (la Costituzione, la Democrazia, ecc.) la fame di posti del ceto politico.

Le Regionali in piena pandemia e durante una conclamata crisi economica che banco di prova rappresentano per il governo?
Nessuno può saperlo. Se hanno avuto il fegato di fare un governo che se ne infischia di un voto politico (quello del 2018), non mi stupirei restassero abbarbicati al potere di fronte a un voto amministrativo, anche dovessero perdere in 6 Regioni su 6. Se proprio devo immaginare degli scenari capaci di mettere in crisi l’attuale governo, le eventualità che mi vengono in mente sono altre, nessuna auspicabile: 1 milione di posti di lavoro distrutti, una tempesta finanziaria, una nuova chiusura di scuole e università, una proliferazione dei focolai e dei connessi lockdown.

Intervista di Pierfrancesco Borgia  a Luca Ricolfi, Il Giornale, 2 settembre 2020




Effetti collaterali della pandemia: Conte su, Lega giù

Certamente gli interessi attuali degli italiani vanno in altre direzioni, verso l’uscita dall’emergenza sanitaria del Coronavirus e la possibile sperata ripresa economica e occupazionale. Resta però indubbio che gli orientamenti di voto dall’inizio del “lockdown” fino ai giorni nostri hanno in parte rivoluzionato la geografia politica nostrana, come testimoniano la quasi totalità dei sondaggi effettuati ultimamente. Avevamo lasciato la Lega di Salvini solidamente solitaria nelle dichiarazioni degli elettori, a inizio marzo, ed ora ce la ritroviamo soltanto di pochi punti percentuali sopra le due forze politiche che sorreggono il governo giallorosso.

La Lega perde qualcosa come sette punti (dal 33% al 26%) nel giro di soltanto due o tre mesi, a testimonianza della ormai cronica alta volatilità delle scelte elettorali e, visto il parallelo declino della popolarità dello stesso leader leghista, di instabili fiducie nei diversi protagonisti politici. Mentre Lega e Salvini retrocedono, il premier Conte sale, evidenziando un dato pre-politico ormai divenuto un elemento politico a tutti gli effetti: ciò che conta è soprattutto la capacità immediata di suscitare emozioni favorevoli nella pancia degli elettori. Non sono più i valori (o le ideologie) a veicolare la propria vicinanza politica, e nemmeno forse gli atteggiamenti o le opinioni, che non possono mutare così repentinamente, in brevi lassi di tempo, nel giro di due-tre mesi. Ciò che cambia sono le emozioni, e le emozioni portano con sé discese ardite e risalite (per dirla con Lucio Battisti) di questo o quell’uomo politico, e dei loro partiti di riferimento, nel caso ne abbiano uno.

Per Salvini, in discesa, e per Meloni, in salita nei consensi, è accaduto proprio questo anche per i loro partiti che, senza una ragione precisa (o con motivazioni poco significative) hanno ridisegnato lo spazio di consenso all’interno del centro-destra, ora divenuto quasi bicefalo, con Forza Italia ormai relegata ai margini. Dal punto di vista territoriale, la Lega perde soprattutto nelle regioni e nelle aree dove la sua crescita durante lo scorso anno rinforzava il tentativo di diventare un partito nazionale, in particolare nel sud e nelle ex-zone rosse, dove ora si incrementano invece i consensi rispettivamente per Fratelli d’Italia e Partito Democratico. È possibile che un centro-destra a due teste riproponga l’idea di una coalizione con il settentrione predominio di Salvini (e di Zaia) ed il meridione predominio di Meloni, dove peraltro resta forte anche il Movimento 5 stelle.

Per Giuseppe Conte, che non ha in realtà alcun partito di riferimento specifico, il livello dei consensi appare elevato in tutte le zone del paese, soprattutto ovviamente dove è meno forte l’elettorato di centro-destra, ma la sua crescita è evidente anche in quelle aree, benchè non raggiunga le quote delle altre aree. Se cioè la fiducia nel presidente del consiglio è più alta, in termini assoluti, nel centro-nord e nel sud (grazie ai giudizi positivi di elettori Pd e M5s), la crescita dei suoi consensi, di quasi 15 punti dal periodo pre-pandemia ad oggi, appare generalizzata in tutte le regioni italiane. Anche in questo caso, molto probabilmente, una parte rilevante è giocata dalle emozioni che Conte è riuscito a suscitare nell’elettorato italiano, senza ulteriori distinzioni partitiche o territoriali.




La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale